È la terza volta in pochi anni che la Cina ospita una grande mostra sull’Impero Romano, a riprova del grande interesse che l’argomento su-scita fra i Cinesi.
Nel 2004 se ne tennero infatti ben due: l’una, dal 1.VI al 3.XI, organizzata dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Caserta presso il Museo Nazionale (Pechino, Piazza Tian’anmen) e intitolata “Antica civiltà romana” [Gu Luoma Wenming 古罗马文明]; l’altra, dal 29.V al 29.VIII, organizzata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per la Toscana presso il Museo Nazionale di Sciangai e intitolata “Uomini e dei nella Roma dei Cesari”, (ma con lo stesso nome cinese: Gu Luoma wenming).
Entrambe le mostre pubblicarono bellissimi cataloghi, stampati, nel primo caso, dalla Casa Editrice dell’Accademia Sinica delle Scienze Sociali, pp. 311, e, nel secondo, direttamente dal Museo di Sciangai, pp. 379.
Nel caso della mostra di Pechino, si trattò in verità, non già di un semplice catalogo, bensì di un’ampia trattazione della civiltà romana, ric-camente illustrata con le fotografie dei pezzi esposti, carte geografiche, tabelle e fotografie di luoghi storici.
Il testo si apriva con i contributi degli studiosi cinesi: “La civiltà di Roma e il sito di Pompei” (di ZHU Longhua), “Roma vista dagli Han” (di SUN Ji) e “Collocazione storica dell’Impero Romano” (di ZHOU Qidi).
A un folto gruppo di studiosi italiani si dovevano poi le numerosissime schede che costituivano il grosso del volume, divise in varie sezioni: “Mito e storia”, “Commercio”, “Abitazioni e ville”, “Arte culinaria e banchetti”, “Religione e onoranze funebri”, “Cura del corpo cosmetica e abbigliamento”, “Giochi”.
Di particolare interesse per la storia di rapporti culturali fra Italia e Cina appare il saggio di SUN Ji, di cui per questo si dà qui la traduzione. L’autore, valente classicista, nacque nel 1929 e lavorò lungamente alla storia dell’abbigliamento cinese antico e degli specchi di bronzo. Nel 1984, partecipò a un simposio a Venezia sulle fonti della civiltà cinese.
“Roma vista dagli Han”
[Cong Handai kan Luoma 从汉代看罗马]
SUN Ji 孙机
A metà del III sec. a.C., Roma unificò la penisola italiana; alla fine dello stesso secolo, gli Han Occidentali fondarono l’Impero. Da allora in poi, le due formazioni si andarono vieppiù potenziando: Roma conquistò l’intero bacino del Mediterraneo, diventando la pa-drona del “mondo”; gli Han stesero il loro dominio su un ampio territorio che andava dalle sabbie mobili d’Occidente fino ai mari d’ Oriente, egemonizzando “ciò che sta sotto il cielo”. I due grandi Stati, l’uno a Oriente l’altro a Occidente, rilucenti di splendore ai due estremi del mondo, furono profondamente diversi per etnia, lingua, religione, sistema sociale, tradizioni culturali; si trattò di due civiltà nate e sviluppatesi su premesse totalmente differenti.
In assenza di contatti diretti, gli Han ebbero raramente l’occasione di vedere coi propri occhi manufatti romani. Reperti del genere sono assai rari negli scavi archeologici moderni. La ventina circa di monete d’oro dell’Impero Romano d’Oriente rinvenute in terri-torio cinese appartengono in toto a tombe delle Dinastie del Nord, dei Sui e dei Tang. Il vaso di vetro a forma d’anatra ritrovato a Beipiao 北票, nel Liaoning, nella tomba di Feng Sufu 冯素弗 dello Stato di Yan Settentrionale 北燕, che pure è di probabile origine romana, giunse in Cina in un’epoca successiva a quella degli Han. L’esempio più importante fra tali reperti è rappresentato dalla brocca di vetro a collo lungo rinvenuta nella tomba risalente agli Han Orientali alla periferia orientale di Luoyang. Su uno sfondo ir-regolare marrone scuro, arancione, nero rossastro e viola scuro, essa è avvolta da strisce lattee, che, nello strato superficiale eroso dal vento, ha preso una lucentezza dorata baluginante, splendidamente screziata, di grande bellezza. Si tratta di un classico vaso soffiato da fiori romano. La sua comparsa in terra cinese suscitò certo grande meraviglia per la sua novità. E infatti nel “Trattato sulla Geo-grafia” della “Storia degli Han” si riporta che, al tempo dell’imperatore Wu, furono inviati messi per mari ad acquistare vetri. Anche in una nota di Pei Song 裴松 alle “Biografie dei Barbari d’Oriente”, contenuta nella sezione sullo Stato di Wei delle “Cronache dei Tre Regni”, si dice che nel Grande Qin si producono “oltre dieci tipi di smalti e vetri, scarlatti, bianchi, neri, verdi, gialli, scuri, ros-sastri, chiari, rossi e viola” e se ne tessono le lodi.
Tuttavia, nelle brocche rinvenute a Luoyang, i Romani mettevano profumi. In Cina invece essi vennero lungamente usate per bru-ciarvi l’incenso; i profumi, inizialmente chiamati “acqua di rosa”, comparvero per la prima volta al tempo delle Cinque Dinastie. Gli Han dunque dovettero mutare la destinazione d’uso dei preziosi recipienti. È una prova dei differenti usi e costumi esistenti fra le due nazioni.
Oltre ai recipienti di vetro rinvenuti a Luoyang, anche la coppa di vetro blu scavata in una tomba degli Han Occidentali a Heng-zhigang 横枝岗, a Canton, è un prodotto romano. Canton fu l’accesso al mare degli Han ed è assai probabile che gli oggetti di vetro che vi si sono rinvenuti vi siano giunti via mare. Il naviglio degli Han già poteva navigare fino in Indocina e addirittura fino all’O-ceano Indiano, ma non vi sono testimonianze scritte che giungesse già fino al Golfo Persico e di lì alla provincia romana della Meso-potamia. Le tecniche cantieristiche cinesi erano peraltro in epoca Han assai progredite. La scultura in pietra con la figura di una nave da battaglia romana del primo secolo esposta alla mostra è carica di armati con scudo e lancia, dalle fiancate sporgono da 12 a 14 file di remi e a poppa e ai lati figurano le attrezzature destinate a orientare la rotta. Il sistema rimase a lungo in uso in Europa e solo in-torno al 1200 comparve il timone di poppa, in Olanda. Invece, sulla nave in terracotta rinvenuta nella tomba di Via dei Primi Martiri, a Canton, risalente agli Han Orientali, compare un timone al centro della poppa, con una grande pala, capace di opporre molta resi-stenza all’acqua, e sistemato in un apposito casotto. I due esempi non coprono tutti i modelli di navigazione d’alto mare di Roma e degli Han, purtuttavia, nel caso dei grandi viaggi per mare, il trasporto marittimo delle due nazioni poté svolgersi unicamente in di-rezione est-ovest e viceversa, fino in India, e affidarsi ad intermediari per i tratti ulteriori.
A parte gli esempi suesposti, fra i vetri romani scavati in Cina vanno annoverati anche i frammenti nel sito di Kroran [Loulan 楼兰], nel Xinjiang. Kroran sorge nel ventre dell’Asia e i campioni di cui si parla qui percorsero senza dubbio la Via della Seta. Nominare la seta significa far venire subito in mente i campanacci dei cammelli, le carovane, i disagi patiti dal generale Gan Ying nel suo viaggio verso Roma, i Cesari vestiti di seta e altre celebri storie.
La seta è un prodotto tipico cinese e fu all’epoca una delle merci principali nell’interscambio commerciale fra Oriente e Occidente. Non bisogna tuttavia dimenticare che fra le merci portate sulla più lunga e difficoltosa via commerciale del mondo, accanto alla seta, figurarono anche i manufatti d’acciaio di alta qualità degli Han, ciò che il sapiente romano Plinio il vecchio lodò ripetutamente col nome di ferro cinese. Come poterono i pesanti utensili in ferro diventare merci della via della seta? Il fatto è da riferirsi alle nuove tecnologie con cui già i Qin avevano forgiato il ferro e che gli Han avevano sviluppato fino alla fabbricazione dell’acciaio. L’acciaio fabbricato dagli Han, che presenta poche impurità ed offre buone prestazioni, assicurò un’inarrivabile supremazia mondiale alla me-tallurgia cinese. Prima del XV secolo, la fusione del ferro non si era ancora diffusa ampiamente nelle regioni al di fuori della zona d’influenza della civiltà cinese e gli utensili in ferro usati in Occidente erano per lo più ricavati con la tecnica della battitura della massa spugnosa [il pudellaggio]. Tramite la via della seta, la Cina cominciò a condividere il manufatto con i suoi vicini occidentali.
In ogni caso, né per terra né per mare gli Han poterono entrare in contatto diretto con Roma. I siti noti in cui si raccolgono reperti delle due civiltà sono tutti a una certa distanza dai confini cinesi. Ad esempio, Óc Eo, nelle vicinanze di Cà Mau, all’estremità meri-dionale del Delta del Mekong, in Vietnam, fu dal II al VI secolo uno dei porti dell’antico Stato di Phù Nam [Funan]. Fra i reperti qui scavati figurano specchi di epoca Han insieme a monete romane degli imperatori romani Antonino Pio del 152 e di Marco Aurelio, coniate fra il 161 e il 180. Sui sigilli di stagno rinvenuti si leggono scritte nella grafia in uso nello Stato di Uttarapatha: evidentemen-te, i reperti romani vennero trasportati in loco dall’India. Ancora, nell’Afganistan settentrionale sono state scoperte sei tombe di nobi-li indosciti che vanno dal I sec. a.C. al I sec. d.C., contenenti tre specchi di epoca Han e monete d’oro dell’imperatore romano Tiberio coniate dal 16 al 21. Negli stessi luoghi è stata riportata alla luce anche una gran quantità di preziosi manufatti in oro greci, romani, parti e bactriani. Tuttavia, è chiaro che il flusso culturale da Occidente rappresentato da questi reperti si arrestò a occidente dell’alto-piano del Pamir e non poté mai, nonostante l’impeto poderoso, spingersi più a Oriente.
Va anche notato che, secondo alcuni studiosi, nella città di epoca Han di Liqiana, attualmente nel distretto di Yongchang 永昌, nel Gansu, furono collocati “oltre mille prigionieri di guerra” catturati nel 36 a .C. dal generale Chen Tang 陈汤 a Zhizhi 郅支 (nell’o-dierno Kazakistan). Basandosi sul passo della “Biografia di Chen Tang”, nel “Libro degli Han”, che dice che i fanti facevano le eser-citazioni “schierati a scaglie di pesce”, alcuni ritengono che essi fossero soldati romani, ovvero una parte dei 6.000 uomini di cui non si seppe più nulla dopo la battaglia di Carre, in Mesopotamia, durante la campagna del 53 a .C. del console Crasso contro i Parti. Per-chè furono collocati a Liqiana? Perchè Yan Shigu [il massimo commentatore del “Libro degli Han”] disse: “Liqianb non è che Daqin e il distretto di Liqianb, nella comanderia di Zhangye, probabilmente prese nome di questa nazione”. In realtà, a prendere parte alla bat-taglia del 53 a .C. e a quella del 36 a .C. furono truppe diverse, né Liqiana ha niente a che fare con il nome di Liqianb usato per tra-scrivere il toponimo straniero. Le note sulle listarelle di bambù di epoca Han recentemente scavate a Dunhuang, nel Gansu, dimo-strano che Liqiana è un nome che deriva da quello di “allevamento di Liqian” (Liqianyuan). Gli Han istituirono un maneggio per l’al-levamento dei cavalli nel nordovest, che arrivò a un totale di “trentasei maneggi”, dove vennero allevati “”300.000 cavalli”. Il signi-ficato di li 驪 [in Liqiana] è “giavazzo”, particolarmente adatto al nome di un allevamento. Le listarelle di bambù Han dimostrano an-che che il distretto di Liqiana esisteva già nel secondo anno di regno shenjue [60 a.C.], quando nè la battaglia di Carre né quella di Zhizhi erano ancora state combattute, e quindi non si può parlare di prigionieri di guerra ricollocati dopo la battaglia.
I contatti diretti fra gli Han e Roma furono pochissimi, le enormi distanze e le comunicazioni difficoltose non sono certo elementi da sottovalutare. Nel caso delle vie di terra, a parte i deserti, a tenere le carovane lontane dalla Cina c’era anche il fatto di usare carri e cavalli. Ad esempio, le “Biografie delle Terre d’Occidente” del “Libro degli Han” dicono che fra il Monte Wuge e Tiaozhi “un ca-vallo impiega oltre cento giorni”, e da Tiaozhi fino in Partia “ne impiega oltre sessanta”. Compiere lunghe traversate a cavalli era al-l’epoca un’ardua impresa. Infatti i finimenti non erano completi, in particolare mancava la staffa.I soldati romani che compiono a ca-vallo l’avanzata su Tutaoban che si vedono nella mostra stanno a cavalcioni sul dorso dell’animale e coi piedi penzoloni, e si tengono stretti al ventre del cavallo con le sole gambe; andando al galoppo, dovevano innanzitutto preoccuparsi di non cadere da cavallo. Per gli Han, le cose non stavano diversamente. Per giunta, poiché gli Han usavano selle alte,con la parte anteriore dell’arcione più bassa di quella posteriore, reggersi in sella era ancora più difficile. D’altro canto, ciò stimolò i Cinesi a inventare la staffa, dapprima singola, poi doppia. La più antica staffa di ferro è stata trovata nelle tombe di epoca Wei-Jin di Wuweinantan nel Gansu, e tuttavia non è pre-cedente i secc. III e IV d.C. Vivar ha scritto: “La staffa, oggetto assai comune fra i finimenti del cavallo, non solo ai popoli di Roma antica, ma, cosa inaudita, perfino ai popoli più usi ad allevare cavalli, come i Sassanidi, fu del tutto sconosciuta”. La staffa costituisce un dono della Cina al mondo.
In quanto al carro, la scena con le bighe rinvenuta a Pompei mostra con estrema vivezza qual era lo stato dei carri nell’antica Roma: la biga guidata dall’auriga non si presenta molto diversa dal carro da guerra romano, a parte il diametro della ruota, leggermente infe-riore, e la maggiore manegevolezza. Il carro era tirato in genere da due cavalli, ma esistevano anche le quadrighe. Quando, a Olimpia, Nerone guidò personalmente una biga, usò per l’appunto una quadriga.
Tuttavia, un auriga non controlla con facilità 14 focosi cavalli: l’imperatore è prima scosso giù dal carro e poi si ritira dalla gara prima di giungere al traguardo; i giudici tuttavia lo incoronano ugualmente d’alloro. Normalmente, il tragitto era di km 14, con 13 curve pericolose. I partecipanti talvolta si urtavano a bella posta e si verificavano spesso ribaltamenti. Nei mosaici romani raffigu-ranti le corse delle bighe, sono regolarmente inclusi carri ribaltati e guasti, a fedele resa del reale. Inoltre, poiché gli aurighi erano so-liti legarsi delle corregge alla vita, se non riuscivano rapidamente a reciderle durante il ribaltamento, venivano trascinati via dai ca-valli al galoppo e rischiavano la vita.
Nella Cina antica corse del genere non esistettero, tuttavia, in epoca pre-Qin, si svolsero battaglie di carri, un rischio per la vita an-cora maggiore. Su un carro da guerra cinese antico trovavano posto due o tre guerrieri; se per le morti o le ferite ne restava uno solo, egli non aveva modo di usare al tempo stesso redini e armi, e si serviva allora un uncino per agganciare le redini chiamato “attrezzo arcuato”. Tale attrezzo era legato alla vita dell’auriga e con le due braccia all’estremità permetteva di agganciare le redini e control-lare il percorso del carro, lasciando libertà di movimento al guerriero. Si potevano anche, secondo l’andamento del combattimento, sganciare le redini e riprenderle in mano. Disgraziatamente, la Cina non ebbe modo, prima dell’apertura della via della seta, di mo-strare a Roma tale invenzione, rendendole possibile di avere più aurighi capaci di conquistare il ramo d’olivo simbolo della vittoria. Né si dimentichi che i carri romani si valevano dell’aggiogamento al collo, tramandato loro dall’antico Egitto. I cavalli erano aggio-gati alle stanghe del carro per il collo, che quindi era il principale punto di sforzo nella trazione, di conseguenza di comprimere la tra-chea del cavallo era compressa: più correva veloce, più l’animale aveva difficoltà di respirazione. Invece la Cina degli Han utilizzava già il carro a doppio giogo e impiegava l’aggiogamento al torace. Le corregge sono fissate al petto del cavallo, evitando le vie respi-ratorie, e la forza dell’animale può essere più ampiamente dispiegata. La comparsa in Europa di questo tipo di aggiogamento non è precedente l’VIII secolo.
Nonostante l’esistenza di numerose differenze fra loro, la Cina degli Han ebbe un’immagine positiva di Roma. Le “Biografie delle Terre d’Occidente” del “Libro degli Han Posteriori” dicono: “Il suo popolo è alto, grande e dritto, simile ai Cinesi, e per questo lo chiamiamo Grande Qin”. Nel “Diario delle Missioni”, Xue Fucheng spiegava che, essendo Qin “una grande nazione unita dell’Asia”, Roma veniva così considerata “una grande nazione unita d’Europa”: ecco il motivo del nome, che sta su un piano assai diverso da quelli, invero poco rispettosi, con cui l’antica Cina chiamò le popolazioni barbare, come Xianyun [lett. “cani dal muso allungato”], Xiongnu [lett. “servi”] ecc. Le “Biografie delle Terre d’Occidente” aggiungono: “Costruiscono le mura in pietra e allineano stazioni di posta, che intonacano”. Gli estensori probabilmente non si recarono mai a Roma di persona, ma i resoconti che udirono fecero loro una profonda impressione. A differenza delle mura degli Han, in terra battuta, Roma fu una “città di marmo”, estesa su un’area di ol-tre km2 20 e abitata da un milione di persone, senza dimenticare i templi, gli edifici pubblici, i portici, gli archi di trionfo, le terme e le altre magnificenze, oltre che le domus e le insulae costruite sulla strada ma ugualmente superbe. Ancora oggi, visitando i siti ar-cheologici di Roma e aggirandovisi e rimirandoli con venerazione, non ci si può esimere dal sentirsi ammirati da tanto splendore. Ma per le grandi differenze fra i complessi edilizi occidentale e orientale, anticamente, l’edilizia romana in pietra non poté penetrare in Cina. Differirono completamente non solo gli edifici, ma anche l’arredamento interno. I Romani usavano gli scranni; i Cinesi si ac-comodavano sulle stuoie. I Romani erano ben provvisti di sedie coi braccioli, di sedie con la spalliera, di poltrone, talvolta nello stile elegante dell’antica Grecia talaltra in quello solenne dell’antica Persia, stili diversi ma ugualmente spettacolari. Sedie con lo schie-nale basso erano già comparse ai tempi dell’antico Egitto, e non furono affatto inventate dai Romani; fu tuttavia nelle loro mani che pervennero a un compiuto sviluppo. Sul finire dell’epoca Han, la sedia giunse nel Turkestan cinese: nel sito di Niya 尼雅, nel di-stretto di Minfeng 民丰, sono stati ritrovati frammenti di sedia di legno con fiori scolpiti. Tuttavia, i costumi cinesi esigevano che si stesse inginocchiati sulla stuoia con le gambe ripiegate sotto il corpo e che, nell’ossequiare, si drizzasse la schiena, stando cioè in-ginocchiati ma col corpo eretto, oppure si battesse la fronte a terra, mentre le altre posture, da seduti o accoccolati, più rilassate, erano considerate “ineducate”: la sedia tardò tanto per questo a varcare la Porta di Giada.
La situazione conobbe qualche mutamento con i Sui e e i Tang. Tuttavia, ancora al tempo dei Song Meridionali, Lu You poteva scrivere che “nei tempi passati, in casa degli alti dignitari, le donne che sedevano su sedie e sgabelli erano derise per la loro ignoran-za della buona creanza”, ed eravamo allora già alla fine del sec. XII. È evidente che le tradizioni formatesi storicamente non mutano di colpo con facilità. Tuttavia, fra le terrecotte esposte alla mostra,si vedono statue di divinità romane sedute su seggiolini pieghevoli.
Il seggiolino pieghevole, in cinese vernacolare mazha 马扎, era chiamato in antico huchuang 胡床 “panca barbara”. Il “Trattato sui Cinque Elementi” del “Libro degli Han Posteriori” dice che l’imperatore Ling amava “huchuang e huzuo 胡坐”. Nel periodo di regno jian’an dell’imperatore Xian, anche Cao Cao dava ordini alle truppe “assiso su una panca barbara”. La suppellettile si diffuse larga-mente in Cina da dopo i Wei-Jin ed è giunta fino a noi. Pur non essendo la terra d’origine del seggiolino pieghevole, Roma può ugualmente essere considerata una delle maglie centrali della sua diffusione.
Gli utensili romani curavano la precisione e la praticità: è un tratto inequivocabile del loro processo di fabbricazione. È una ca-ratteristica che si nota facilmente nel compasso, nella squadra, nell’ascia, nello scalpello ecc. Di particolare rilievo è la pialla di ferro del I sec. esposta alla mostra. L’utensile entrò in uso in Cina assai più tardi. Nella Cina antica, la tecnica per piallare il legno preve-deva dapprima l’uso dell’ascia col manico lungo (ben 锛) e poi del raschietto (si), utensili rinvenuti dappertutto nelle tombe antiche dall’epoca pre-Qin fino ai Sui e i Tang. Solo a metà dei Ming fece la sua comparsa in Cina lo scalpello inserito nel ceppo. A Roma, nel I sec. erano già comparsi contemporaneamente lo scalpello e la sega per tagliare i grossi tronchi, che invece compare in Cina solo al tempo dei Song Settentrionali. La grande distanza temporale dimostra l’impossibilità di una loro diretta importazione da Roma.
Precisione e praticità non escludono affatto l’eleganza e la bellezza. Le lampade romane della mostra, anche se poco numerose, lo fanno ugualmente intravedere. Le lampade romane erano raffinatissime, le piccole lampade di terracotta e le lampade di bronzo, dal canaletto per l’olio poco profondo e il beccuccio all’estremità anteriore, di sapientissima lavorazione, fanno irresistibilmente pensare alle piccole teiere cinesi in argilla di Yixing. Ci sono poi le lampade da tavolo a due e tre bracci, stampate, decorate di sculture, su piccoli basamenti, le lampade da terra dal lungo stelo e i lampadari a più bracci, di varie fogge. Nei triclini e nei salotti delle magioni venivano posti alti lumi. Dato che durante i banchetti i Romani stavano sdraiati su lettucci leggermente più alti di una sedia e la fonte di luce non poteva essere posta troppo in basso. Nei banchetti, gli Han invece sedevano su stuoie o su basse panche e le lampade po-tevano anche essere poggiate a terra. Le lampade cinesi bruciavano olio di sesamo o di perilla, quelle romane olio d’oliva: tutte man-davano molto fumo. Gli Han allora inventarono il sistema della cappa sopra la lampada, che convogliava il fumo nel ventre della lampada, dove si mescolava con l’acqua che vi era contenuta e diminuiva la fuliggine. A questo sistema i Romani non pensarono mai.
I banchetti sia degli Han sia romani erano allietati da canti e balli; gli Han vi aggiunsero i cantastorie, i Romani i mimi, entrambi i giocolieri. La fama dei giocolieri romani è diffusissima. Nel quinto anno del periodo di regno yuanding dell’imperatore Wu degli Han (112 a .C.), un messo dei Parti recò in dono “due prestigiatori di Liqian”. Nel primo anno del periodo di regno yongning dell’im-peratore An degli Han (120 d.C.), anche la nazione Shan donò dei prestigiatori “capaci di trasformare la terra in fuoco e invertire le teste a buoi e cavalli”, oltre che di giostrare con le palle, fino a 10. Essi dissero di sé di venire dai “mari d’Occidente, ovvero dal Grande Qin”. Per giostrare con le palle occorre scagliare e riprendere al tempo stesso a due mani un certo numero di palle; a tutt’oggi, nei circhi di tutto il mondo, non sono molti gli artisti capaci di giostrare con 9 palle. Negli affreschi romani si vedono artisti che lan-ciano 7 palle, e non solo con le mani: anche con la fronte, la punta del piede, i polpacci prendono parte all’esercizio. Nei dipinti Han ci sono giochi di destrezza simili: vengono scagliate contemporaneamente palle e spade, in un gioco chiamato all’epoca “danza delle palle e volo delle spade”. Su una roccia dipinta rinvenuta a Anqiu 安丘, nello Shandong, un artista giostra con 7 palle e 3 spade, ma c’è anche chi si serve di 11 palle e 3 spade. In un vorticare forsennato, a un ritmo frenetico, gli artisti fanno fuoco e fiamme, sotto gli sguardi ammirati degli spettatori, in un’animazione indescrivibile. Forse è qui rintracciabile una suggestione dei giocolieri romani, ma l’allievo superò il maestro, aumentando le difficoltà.
Nei loro spassi, i Romani non si accontentarono di guardare giostrare le palle, il numero più eccitante, oltreché cruento, fu rappre-sentato dai giochi gladiatori: in molte città romane furono eretti anfiteatri. A Roma, il Colosseo, completato nell’80 d.C., poteva con-tenere 50.000 spettatori ed è uno degli edifici antichi più famosi del mondo. Chissà da quanti gladiatori furono indossati gli elmi e i gambali esposti alla mostra, rilucenti sinistramente, fino alla tragica conclusione. Inconcepibile per i Cinesi di epoca Han, permeati di confucianesimo.
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