La libertà di associazione nel Regno Unito è oggi trattata all’interno dell’art.11 dello Human Rights Act.
Secondo questo articolo ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi. L’articolo, inoltre, dispone il divieto di operare restrizioni a questi diritti salvo quelle esplicitamente stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale pubblica, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Restrizioni di queste libertà al di fuori dei casi menzionati possono essere imposte soltanto ai membri delle forze armate o dell’amministrazione dello stato.
La prima osservazione da fare in proposito è che esso ricalca perfettamente l’articolo 11 della Convenzione europea del 1950 circa la libertà di riunione ed associazione. Le spiegazioni di tutto ciò vanno ricercate nelle ragioni a fondamento dello stesso Human Rights Act all’interno del quale è contenuto l’art. 11. Sin dagli anni settanta, infatti, la giurisprudenza anglosassone si trovò a scontrarsi con le possibili ricadute della Convenzione Europea con il diritto interno. L’allora articolo 25 della CEDU (oggi 34 dopo il protocollo aggiuntivo n. 11 del 1998) sul diritto al ricorso individuale aveva, infatti, aperto una nuova sfera di giurisdizione, quella europea, di fronte alla quale il cittadino inglese poteva rivendicare la protezione di un proprio diritto fondato sulla convenzione e vedere condannato il proprio stato per la sua violazione. Lo Human Rights Act fu dunque emanato per rispondere al bisogno crescente di adeguare il diritto inglese a quello europeo e più specificatamente
al bisogno di dare un riconoscimento, non solo negativo, come sempre era avvenuto, ma anche positivo ai diritti fondamentali.Seconda osservazione è che l’articolo 11 dello Human Rights Act affronta congiuntamente sia la libertà di riunione sia la libertà di associazione. Ciò potrebbe suscitare perplessità se si considera che sul terreno scientifico, è spesso rimarcata la differenza del regime giuridico dei due fenomeni collettivi: nella maggior parte dei paesi europei, infatti, i due diritti formano oggetto di distinta regolamentazione, poiché si tende a dare preminente rilievo all’elemento “materiale” nella riunione ed a quello “teleologico” nell’associazione.
L’articolo 11 quindi, tende a dare risalto alla radice collettiva dei due diritti, considerandoli anzitutto espressione della socialità umana: nonostante la formulazione testuale dell’articolo dia risalto all’aspetto individuale (Ogni persona ha il diritto…), si tratta comunque di diritti essenzialmente collettivi, i quali corrispondono alla crescente espansione dei diritti dell’uomo nella sfera della socialità.
Da quanto detto sin d’ora emerge, pertanto, che il diritto di associazione così come oggi è concepito nel Regno Unito, è il frutto dell’influenza esercitata dal modello europeo continentale.
Diversa era, invece, la concezione che si aveva del diritto di associarsi prima del 1998, in quanto questo diritto non era particolarmente sentito. Esso non veniva trattato come un diritto in sé, ma piuttosto veniva relazionato alla libertà di formare associazioni industriali e compagnie, nonché alla sfera delle relazioni lavorative e caritatevoli.
La sfera delle relazioni lavorative, e dunque quella inerente le associazioni sindacali, è stata quella che ha visto emanare il maggior numero di leggi. Chiaramente ai sindacati non fu subito riconosciuto il diritto di associarsi, ma anzi furono considerati illegali fino al Trade Union Act del 1871.
Con il Trade Union Act del 1871, che può essere considerato alla base del moderno modo legislativo di relazionarsi ai sindacati, il sindacato fu definito come una combinazione i cui obbiettivi erano quelli di regolare le relazioni tra operai e datori di lavoro, tra lavoratori stessi e tra datori di lavoro al fine di imporre condizioni sulla condotta commerciale inerente al business e procurare benefici per i suoi membri. Fattore ancora più importante è però che a partire dal Trade Union Act ai sindacati fu data la possibilità di registrarsi nello “Chief Registrator of Friendly Societies”. L’iscrizione a questo registro non era e non è tuttora obbligatoria. Essa comporta la possibilità, per i sindacati che vi si iscrivano, di comprare e vendere proprietà. Ciò è particolarmente significativo perché da questa disposizione si ricava la libertà associativa dei sindacati.
A questo punto però, bisogna interrogarsi su una questione importante e delicata allo stesso tempo: in Gran Bretagna esisteva la libertà di non associarsi ad un sindacato? Ed oggi dopo il 1998 tale libertà come è considerata?
Questione controversa considerato che nel Regno Unitito vigeva e vige tuttora la pratica del closed-shop, che consiste in un accordo tra datori di lavoro e sindacati, il quale prevede, con differenti modalità, che i lavoratori appartenenti a determinate categorie debbano aderire ad una determinata organizzazione sindacale, rendendo così impossibile, per alcuni lavoratori, la possibilità di scelta di adesione.
A tale proposito la prima affermazione della libertà di non associazione può essere rintracciata nell’Industrial Relaction Act del 1971 dove si condannò esplicitamente la pratica del closed-shop e di conseguenza si legittimò la scelta di non associarsi. Prima di giungere alla proclamazione effettiva della libertà di non associazione al sindacato passò molto tempo. Nel 1974, infatti, con il Trade and Labour Relationship Act (conosciuto anche con la sigla Tulra) si stabilì che, qualora si verificasse una pratica effettiva di closed-shop, il licenziamento di un lavoratore che si fosse rifiutato di iscriversi al sindacato sarebbe dovuto essere considerato legale, salvo nel caso che, la decisione di non aderire a tale sindacato derivasse da un genuino sentimento religioso o dall’appartenenza ad un altro sindacato. Con l’ Employment Protection (Consolidation) Act del 1978 pur ribadendo la legalità del licenziamento dei lavoratori che si rifiutassero di aderire al sindacato si inserì un maggior numero di eccezioni a questa regola, stabilendo per altro che il closed-shop che si fossero formati dopo il 1980 sarebbero dovuti essere considerati illegali qualora non fossero stati eletti con un voto superiore all’80% dei lavoratori coinvolti.
Inoltre il voto doveva essere rinnovato ogni cinque anni e nel 1990 fu addirittura ritenuto illegale non assumere persone, che si rifiutavano di aderire ad un determinato sindacato.
La sentenza più importante, inerente a questa questione, risale al 1981 ( sentenza case of Young, James and Webster v. The United Kingdom, 1981). In questa disputa gli applicanti anziché rivolgersi ad un tribunale inglese si rivolsero alla Corte Europea, per la violazione, a loro avviso, del diritto di non associarsi previsto dall’articolo 11 della Convenzione Europea del 1950.
Gli applicanti Mr. Young and Webster, infatti, lavoravano per la British Rail. Nel 1975, però, la società decise di far valere l’accordo già stipulato nel 1970 con la Railwaymen ("NUR"), il Transport Salaried Staffs’ Association ("TSSA") e l’ Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen ("ASLEF"), in base al quale si impegnava ad assumere solo il personale che fosse iscritto a uno di questi tre sindacati. Eccezioni a questa regola erano previste solo per quei lavoratori, che avessero dimostrato che il loro rifiuto ad associarsi derivasse da una convinzione religiosa o dall’appartenenza ad un altro sindacato. Tale accordo era legittimato sulla base del Trade Union Act del 1974 emanato dal Parlamento inglese.
Gli applicanti si rifiutarono in ogni caso di iscriversi a uno dei sindacati in questione e così, sulla base dell’accordo stipulato, la British Rail , nel 1976, li licenziò.
Ricorrendo alla Corte Europea gli applicanti affermarono che il loro licenziamento era stato possibile dal rafforzamento del Tulra, che aveva interferito direttamente sulla loro libertà di associazione, nonché sulla loro libertà di pensiero, di coscienza, di religione e di espressione.
Di fronte a tale ricorso il Governo inglese chiese alla Corte di non dichiarare la rottura con l’articolo 11 della Convenzione poiché nel suddetto articolo non vi era una chiara esplicitazione del diritto di associazione in senso negativo. Alternativamente il Governo inglese chiese di dichiarare il Governo colpevole solo in conseguenza degli atti emanati nel 1974 e 1976, ma di non considerare la British Rail come un organo dello Stato e pertanto il Regno Unito come direttamente responsabile del licenziamento degli applicanti. La Corte Europea sentiti gli applicanti e il Governo inglese sentenziò che la libertà di associazione ad un sindacato costituisce una particolare aspetto della più generica libertà di associazione. Rifacendosi ai lavori preparatori fece notare come, diversamente da quanto sancito nell’articolo 20 paragrafo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, si fosse omessa una regola generale sui sindacati. In ogni caso, però, affermò che questo non doveva far ricadere la libertà negativa di associazione completamente al di fuori dall’articolo 11 della Convenzione. Specificò pertanto che, dalla sentenza non era possibile trarre una nozione generale e che, nel caso di specie, comunque un trattato, che prevedesse un licenziamento, doveva essere considerato come una forma di costrizione e che un’altra forma di restrizione della libertà si aveva nel momento in cui si restringeva ai lavoratori il campo di scelta tra i vari sindacati. Restava da capire se l’obbligo di associarsi ad uno dei sindacati potesse rientrare nell’ordine delle restrizioni indicate nel paragrafo 2 dell’art. 11.
Visto e considerato che tali restrizioni si riferiscono alla protezione della sicurezza nazionale e alla salute pubblica, fu chiaro per la Corte che l’obbligo di iscriversi al sindacato non poteva assolutamente rientrare in una di queste eventualità.
Importante è, inoltre, sottolineare che con questa sentenza non emerge una piena condanna nei confronti della pratica del closed-shop, che tuttora sussiste nel sistema britannico.
a quando risale questo articolo?
RispondiElimina2008
RispondiEliminama google lo segnala come risalente all'ultimo anno...si possono avere notizie più precise? grazie!
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