Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

La Repubblica di Platone, il figlio del Bene e l'Arte della dialettica; Libro I: i vantaggi dell'Arte; Libro VI: la natura del filosofo e la metafora della retta; Libro VII: il mito della caverna e il dubbio

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Nella Repubblica Platone lascia intendere che parlerà del Bene solo in maniera parziale, dialogando invece su qualcosa a lui somigliantissimo: il figlio del Bene.
Platone fa questo nonostante dichiari di conoscere l’essenza del Bene (che le dottrine non scritte dicono essere l’Uno) ma ciò impplicherebbe portare il dialogo ad un livello superiore.

Parlando del figlio del Bene, Platone vuole esporre in una proporzione non falsa il frutto di qualcosa che non affida allo scritto, ma che è per forza di cose ad un livello inferiore del Bene in sé.
Si può risalire all’essenza al Bene-in-sé, in definitiva all’Uno, solo attraverso l’oralità.

Ma per raggiungere la conoscenza del Bene in sé, con giuste misura ed esattezza, bisogna conoscere attraverso una lunga via le altre Idee sino ad arrivare alle Idee massime, incluse le virtù (giustizia, temperanza, fortezza, sapienza).
Però se alla fine della strada non si arriva a conoscere il Bene in sé, dalla conoscenza delle altre cose non può derivare alcun vantaggio, perché è il Bene che dà valore e significato a tutte le altre cose.

Parlando del figlio del Bene, c’è da considerare come l’analogia seguente non è disgiunta dal fatto che il mondo sensibile è caratterizzato dalla pluralità, che va ridotta ad unità quando ci si sposta nell’intellegibile mondo delle Idee.

Il Demiurgo dei sensi ha foggiato nella maniera più preziosa la facoltà del vedere, in quanto fra la vista e il visibile ha introdotto un terzo elemento che permette la visione: il Sole.
Dal Sole deriva il potere della vista, che non può vedere nell’oscurità.

Il Bene ha la stessa funzione che il Sole ha su vista e visibile, ma esso agisce su intelleggibile ed intelletto.
Come l’occhio meno può vedere quanto più la mescolanza si avvicina alle tenebre, così l’anima meno può avvicinarsi alla scienza (e più si avvicina ad opinionare), quanto più si discosta dal Bene.
Ma, come detto prima questa Conoscenza, non è il Bene, anche se gli è affine.
Inoltre, come il Sole è implicato nella crescita e nella generazione delle cose, così il Bene non solo è causa della conoscibilità delle cose, ma anche dell’essenza.

Ora Platone afferma questo senza però spiegare questa funzione causale.

Al fine di superare anche la moltelicità delle Idee del mondo intellegibile bisogna comunque fare quel passo in più che ci conduce all’Uno (Apollo che divina superiorità!, a-pollos, privazione di molteplicità), con quel legame di maggior valore.
L’Uno è suprema misura, che ordina e produce armonia, e determina le cose e la loro essenza: “solo il de-terminato è conoscibile” dice Reale.

Se l’essere è identificato con la pluralità degli enti ideali (e Reale dice che la Repubblica è il dialogo dove appare più questa identificazione), le Idee sono un misto di due principi, Uno e Diade indefinita, attraverso i quali l’Uno è causa unificante e limitante e quindi non può essere esso stesso essere, ma deve essere “superiore in dignità”.

Nella Repubblica non ci sono chiari rimandi alla Diade, ma la stuttura bipolare dell’esempio del Sole (agente e cosa su cui agisce), le immagini di luce e tenebre, Bene e Male sono chiari.
E se l’eguaglianza Bene = Uno = unità, è valida, per il Male possiamo considerare Male = Diade = molteplicità, poiché se il Bene è causa delle cose buone, il male è causa dei mali, anche se… “sono molto minori i beni rispetto ai mali”.

Gadamer dice che il Numero deve servire da modello, e come sia possibile “che uno più uno faccia due, senza che uno di essi, da solo, sia due, e senza che il due sia uno”.

Immagine della retta, che Platone usa per spiegare la conoscenza matematica e la dialettica: una retta divisa in due, ed ogni segmento a sua volta diviso in due.
Il primo rappresenta la conoscenza sensibile, il secondo quella intellegibile; la prima parte (dianoia) del secondo segmento è una forma di conoscenza meno chiara della seconda (noesi), che corrispondono la prima agli enti intellegibili (matematici, si chiarirà poi anche attraverso le dottrine non scritte), la seconda alle pure Idee.
Gli enti matematici rappresentano pertanto un piano intermedio: esso sta a metà tra l’opinione che cogli il sensibile e l’intelligenza che coglie le Idee
Ed è attraverso la dialettica che si arriva a cogliere l’essenza del Bene.

In base alla dialettica, si può ritenere dialettico:
-         chi sa definire l’essenza di ogni singola cosa, e in tal modo conosce
-         chi non arriva a conoscere il Bene, vive e vivrà dormendo

Questo procedimento dialettico ascendente e discendente di moltiplicazione e successivamente di unificazione, di analisi e di sintesi, aiuta ad indagare il mondo intellegibile e fa si' che si salga come in una spirale via via sempre piu' in alto nella dimensione dell'intellegibile, sino - si spera - a conoscere l'essenza del Bene.

Si chiarisce nella Repubblica anche che il filosofo ama la realtà nella sua totalità e non rinuncia a nessuna parte di essa.
Inoltre Platone dice: “chi ha il suo pensiero veramente rivolto alle cose che sono, guardando e contemplando cose che sono sempre ben ordinate e sono sempre nel medesimo modo, sempre in ordine e ben disposte, egli imita appunto queste cose e si fa simile ad esse, quanto più è possibile”, “diviene egli pure ordinato e divino”.

La Repubblica è un testo etico-politico: se il Bene è l’Uno è evidente che il Bene maggiore per la città è ciò che la leghi e la faccia una, e il male peggiore ciò che la divide e la faccia molte.


LIBRO I



Socrate esordisce dicendo che “gli sembra doveroso chiedere lumi a chi ci ha preceduto sulla strada che anche noi, forse, dovremo percorrere”: è chiaro il riferimento di non fare di testa propria e invece seguire chi, come il filosofo, possa guidarci ma pur sempre lasciare a noi stessi evolvere le nostre stesse potenzialita’. La vecchiaia, diciamo la maturità, più mentale che fisica, aiuta a liberarsi dalle passioni del corpo: “con piaceri misurati e trattabili anche la vecchiaia pesa in misura sopportabile; in caso contrario perfino la giovinezza sarebbe difficile da vivere in tali condizioni”.


Quando poi parla di ricchezza, dice che essa è una fortuna, ma non per chiunque bensì per l’ “uomo di senno ed equilibrato”: il pregio della ricchezza sta nel poter rimediare alle ingiustizie commesse, e nell’avere l’opportunità di non commetterne di nuove.
Riporto poi la bellissima frase, che risulterebbe da Pindaro: chi ha vissuto secondo giustizia e pietà l’accompagna la dolce speranza, la nutrice dei vecchi che alimenta il suo cuore; la speranza che sopra ogni altra governa il volubile pensiero degli uomini.”
Questa speranza governerebbe, starebbe al di sopra, al volubile pensiero degli uomini, è una frase profonda e difficile.

Sul tema della giustizia, Socrate dice che essa non può nuocere a nessuno: il giusto non può recar danno nè al nemico, nè tantomeno all’amico.
Con questa frase sembrerebbe introdurre un duplice significato: 1) non è nelle prerogative e funzioni dell’uomo che non conosce poter operare secondo giustizia, quella vera: sarebbe infatti falsata dal proprio punto di vista e soggettività proprio perchè non conosce;
2) chi può e sa agire secondo giustizia, ammettiamo il Filosofo o la Natura, lo fanno anch’essi senza recar danno a nessuno, ma agendo per fare il Bene.
Ora che cosa sia il Bene non so, ma secondo il principio che “si raccoglie ciò che si semina” ognuno, con le proprie azioni, e le loro cause, si crea le proprie conseguenze, per via di una Legge neutrale.
Questa Legge neutrale agisce anch’essa secondo il Bene e con giustizia, cioè non arrecando danno a nessuno?

La ricerca della giustizia vale più di molti ori, ed essa è sicuramente utile, dice Socrate, ma non è l’utilità del più forte.
La giustizia infatti, come ogni arte, provvede l’utile per il proprio oggetto e non per chi l’”amministra”: così come ogni arte tende ad essere sempre più perfetta ed utile per l’oggetto di cui è arte, anche la giustizia lo è per l’oggetto su cui si esercita.

Conoscere un'arte e applicarla non porta vantaggi a chi lo fa, ma a chi riceve le qualità di questa arte: il vantaggio è di colui che è il destinatario dell'arte stessa.
Quindi, chi già conosce un'arte ha già avuto il vantaggio da quell'arte quando era inesperto e ne ha colto i frutti, per poi acquisirne esperienza e interiorizzarne la conoscenza; quell'utile ora non è più dell'esperto (che pertanto può o ha necessità di ricorrere, per incidenza, ad un altro utile, come quello monetario per esercitare l'arte) ma va a fortificare l'inesperienza dell'inesperto.
La giustizia è una delle arti maggiori, ma segue il principio dell'arte in generale: il vantaggio della giustizia non va a chi la pratica, ma a chi la riceve.


Qualsiasi arte non ricerca l’utile del più forte come sostiene Trasimaco, e anzi ciascuna scienza si occupa del vantaggio del più debole.
Ciò che Trasimaco intende come vantaggio è un guadagno di ricchezze o perlomeno personale, mentre Socrate gli fa notare come questo tipo di vantaggio non riguarda nessun’arte che può dirsi tale.
Anzi, il fatto di trarre un guadagno dall’Arte da parte dell’Artista (che si chiami medico, politico, etc.) è proprio una conseguenza del fatto che l’Arte non avvantaggia chi la mette in pratica, ma il suo oggetto.
E, seguita, i cittadini onesti, giusti, non accetterebbero di comandare nè per le ricchezze, nè per gli onori, nè per la fama, e quindi potrebbero non voler governare affatto. Invece, proprio loro, i giusti, sarebbero i più adatti al governo (e per questo Socrate parla della soluzione di imporre una multa ai giusti che non vogliono governare).

L’esperto dell’arte, il sapiente, il filosofo, in ogni caso non vorrebbe mai sopravanzare rispetto ad uno come lui; l’inesperto, l’ignorante, ha invece il desiderio di sopravanzare non solo su un altro ignorante come lui, ma anche su un esperto.
Ora, in questo Libro della Repubblica, l’arte di cui si discute è la giustizia, che è virtù e sapienza, e quindi l’esperto di tale arte è il giusto.

La giustizia è ciò che crea ordine (“... o qualsiasi altra associazione..., potrebbe combinare qualcosa, se al suo interno si comportasse al di fuori di ogni principio di giustizia?”); l’ingiustizia è fonte di odi, conflitti fratricidi; la giustizia di concordia e solidarietà.
Ciò vale anche per l’individuo: l’ingiustizia avrebbe per questo “gli stessi effetti che per natura è solita avere. In primo luogo gli toglierebbe la possibilità di agire, suscitando nel suo intimo contrasto e divisione, e poi lo renderebbe inviso a se stesso”.

L’ingiusto sarebbe assalito dai contrasti che disordine e divisione danno, focalizzandosi su questi, e non procedendo armonicamente, cosa che gli permetterebbe di ascoltare le spinte della propria anima.
L'individuo odia se stesso perchè non si riconosce più come essenza armonico, ma diviso in più parti e contrastato al proprio interno.
Egli secondo coscienza sa che ciò che è ingiusto non è una virtù ma un vizio, e riconosce allo stesso tempo la necessità di tendere verso la giustizia.
Questa tensione della coscienza verso la giustizia è ciò che contrasta.

Ora il giusto e l’ingiusto sono gli estremi; nell’uomo comune è normale che vi sia una gradazione di giustizia e ingiustizia differente.
I giusti vivono meglio degli ingiusti e in modo più sereno.
Il punto chiave, e lo tocca un’unica volta Socrate in questo primo libro, è sull’anima: “l’anima ha una funzione specifica, che non potrebbe essere espletata da nessun altra realtà”.
Tale funzione riguarda:
-         l’assolvere il ruolo di guida e di comando
-         il prendere decisioni
-         tutti gli atti simili a questi
-         il vivere
Tali funzioni sono compiute dall’anima in maniera perfetta tramite una virtù specifica, che è proprio quella della giustizia; altrimenti un’anima malvagia, ingiusta (che è un vizio), assolverà in maniera imperfetta ai propri compiti.
E allo stesso tempo “se io non conosco con precisione che cosa sia il giusto [in prima battuta abbiamo detto essere ciò che non arrechi danno nè all’amico nè al nemico], è difficile che mi riesca di sapere se per caso sia anche una virtù”.

Quando uno si avvicina alla morte l'assalgono paure e preoccupazioni: l'anima viene turbata e uno inizia a fare i propri esami di coscienza.
Chi ha la coscienza sporca vive di brutti presentimenti, mentre chi ha coscienza di non aver commesso alcun male vive di quella dolce speranza che sta sopra al volubile pensiero degli uomini.
Ora l'avvicinarsi del momenti della morte, anche quella iniziatica, pone sempre il problema dello scavarsi dentro e di sentire la propria anima, da purificare poichè nessuno sarà così pulito da non aver commesso alcun male; ma che poi si accompagna da questa bella dolce speranza che (insieme alla fede, aggiungo) riesce a sovrastare sulla volubilità dell'uomo.
La ricchezza, dell'anima soprattutto, in mano ad uomo di senno ed equilibrato, fa sì che si possa rimediare alle ingiustizie commesse, e, come ho detto, fa sì che si abbia l’opportunità di non commetterne di nuove.

Il giusto è il più adatto ad assumersi le responsabilità del comando, poichè lui conosce l'arte della giustizia e quindi può applicarla nella maniera corretta affinchè i destinatari di ques'arte ne traggano il miglior vantaggio possibile.
Il fatto che chi accetti la carica pubblica voglia che sia remunerata, è una conferma che l'esercizio dell'arte della giustizia cui la carica adempie non va a vantaggio dell'esperto dell'arte, ma dei destinatari di essa.

Socrate lascia intendere come nel conoscere una cosa, come l'idea della giustizia ad esempio, si debba conoscere l'essenza di essa. Solo conoscendo con precisione l'essenza della cosa che si vuol conoscere, gli si potranno attribuire qualità, o collocarla nella posizione che gli è propria (virtù o vizio ad esempio), o vedere se essa contribuisce o meno alla felicità.


LIBRO VI



Natura del Filosofo:


- egli è colui che ha la capacità di attingere alla realtà immutabile e identica a sé, e a ciò che è vero  fa costante riferimento, contemplandolo quanto più attentamente possibile.
Dice Socrate che questo è il modo per fissare i criteri del bello, del giusto e del buono, e per assicurare la stabilità e la salvezza di quei criteri già esistenti.
Egli è proteso verso l’essere, si accosta e si fonde intimamente con esso, non perdendosi dietro la molteplicità dei particolari oggetto di opinione, ma va dritto per la sua via.

- il filosofo è quello che:
1)      predilige ciò che non muta mai rispetto alla generazione e alla corruzione delle cose, e di ciò che non muta non ne trascureranno nessuna parte, né piccola né grande
2)      il filosofo è sincero e non cede mai alla menzogna; e non sarà un uomo meschino
3)      il filosofo ha una disposizione per l’apprendimento, con una mente equilibrata, “proporzionata”.
La sua anima è temperante e coraggiosa.

- il filosofo si applica sin da giovane a studiare la verità: quando il suo desiderio è incanalato verso un solo obiettivo, gli altri desideri sono attenuati e passano in secondo piano.
Dedicarsi alla filosofia non significa farlo nei ritagli di tempo, ma “quando con gli anni l’anima va maturando”, sino ad arrivare alla maturità dove “oltre al filosofare non faccia nient’altro che attività marginali”. Ciò fa sì che sia temperante e per nulla attratto dalla ricchezza materiale; non avrà nemmeno paura della morte.

- i filosofi sono politicamente inutili, ma ciò non vuol dire che non siano i più adatti alla gestione della città: la responsabilità di questa inutilità è di chi non sa servirsi di loro.
Non è il sapiente che va a battere alla porta dei ricchi, ma il malato che va dal medico.

Le insidie più gravi per la filosofia vengono:
1)      da coloro che fanno finta di coltivarla, e che magari hanno anche una natura imperfetta e un’anima “mutilata e indebolita da volgari atteggiamenti”
2)      dai sofisti che condizionano il filosofo attraveso gli umori di una folla chiassosa (“non c’è, non c’è stato e non ci sarà mai un carattere diverso orientato a virtù che sappia contrastare l’educazione di costoro”, a meno che sia divino)
3)      dalle stesse doti del filosofo, quando sono occasione di superbia: gli stessi elementi costitutivi della natura del filosofo se non alimentati adeguatamente lo conducono dalla parte opposta e al decadimento, a vivere una vita non autentica.
Si "gonfierebbe di eccessive speranze, riempiedosi di boria e alteriagia", perdendo quel discernimento necessario, durissimo da raggiungere, che si ottiene anche non cullandosi sulle lodi (finte o vere) altrui.
E l'uomo, sempre più privo di tale discernimento, sarà sempre più affascinato dalle cose del mondo che lo tirano verso di se' (ricchezza, potere, fama, quegli stessi elogi...).
Per questo serve quel tipo di educazione graduale, proporzionata e giusta e progressiva di cui parlavo prima.
Essi lasciando qualcosa per cui pure erano adatti, vivono una vita inautentica e per un certo verso incompleta.

I filosofi nascono in numero limitato.
Nella maggior parte dei casi le qualità che formano il filosofo si disperdono qua e là, in più persone; Socrate parla di qualità che debbano partecipare in buona misura all’una e all’altra e cioè di persone:
1)      con acutezza di ingegno
2)      dai caratteri stabili e non volubili.

Egli “vedendo gli altri in preda alla confusione morale, si riterrà beato se in una qualche maniera riuscirà a vivere esente da colpe e da azioni criminose la sua vita terrena”.
Mi sembra che traspare qui una sorta di pessimismo di Socrate, o realismo, che attesta che il mondo debba essere proprio così, fatto di mescolanza e imperfezione, dove “non si trova uno Stato come si deve”, e che abbia una costituzione adatta alla filosofia.

Il vero filosofo non ha tempo di guardare in basso alle faccende degli uomini e di riempirsi di invidia e ostilità, poiché contempla solo cose immutabili e ben ordinate, disposte secondo un rapporto.
Ciò facendo imita tale cose e si fa simile ad esse, divenendo esso stesso ordinato.
Esso è poi in grado di comunicare allo Stato e agli altri questo stato di cose ordinato: e basta un solo filosofo per farlo, purchè ci sia una “Città”, altre anime nobili, disposte a seguirlo.
In questo caso la città tutta verrebbe purificata, pur sapendo, il filosofo, di dover guardare da una parte sempre al Vero; dall’altra a ciò che questa Conoscenza può produrre negli uomini, “mescolando e temperando coi vari modi di vivere l’immagine umana”.

491B: “La cosa più strana ad udirsi è che tutte quelle doti che in quella natura abbiamo lodato, prese una per una, rischiano di portare alla rovina l’anima che le possiede, strappandola dallo studio della filosofia. Mi riferisco proprio al coraggio, alla temperanza e a tutte le virtù che prima abbiamo esaminato in dettaglio”.

La natura del filosofo si deve incontrare con la giusta educazione, che deve raggiungere ogni forma di virtu'. Se invece è male allevata andrà nella direzione opposta (a meno che un dio venga in suo soccorso).

La dieta deve essere quindi giusta all'anima, anche perchè il male si oppone a ciò che è buono, molto di più a quello che non lo è.
Inoltre, una educazione non giusta, che sviluppi una sola virtù, fa sì che non si raggiunga la Conoscenza di quella virtù ultima, il Bene-Uno, senza la quale la conoscenza di tutte le altre virtù è superflua.

- L’educazione alla filosofia:

Eraclito: [61]  Il mare ha acqua pura e maleficagradevole  e salutare per i pesciimbevibile e mortifera per gli uomini.

Non si può insegnare più di quello che un uomo sia in grado di capire e apprendere.
Per questo l'educazione alla filosofia, come dimostrano gli scritti di Platone, che si concentrano ognuno su un problema specifico e non sconfinano da esso e si adeguano alle capacità dell'interlocutore di apprendere l'insegnamento che il filosofo sta dando, deve essere graduale e proporzionata alle capacita' dello studente.
Socrate sostiene poi che la parte della filosofia più difficile è proprio la dialettica.

- Sapere del sofista:
Con il sapere del sofista non vi può essere educazione individuale perchè egli usa gli umori della folla, pertanto l'educazione sarà "trascinata dalla corrente", chè è la corrente delle opinioni e non quella del vero.
L'opinione soggettiva, l'uomo come misura di tutte le cose, o il pirronismo sono l'esemplificazione del sapere del sofista.
I sofisti non insegnano principi diversi di quelli che la folla vuol sentirsi dire (il sofista conosce "le sue ire e i suoi piaceri"), e tali discorsi li spacciano per sapienza; i sofisti però non sanno discernere fra Bello e brutto, Buono o cattivo, non sanno cosa sia il Bene, "non sanno discernere la differenza fra il necessario e il Bene".

Essi non hanno avuto la giusta educazione che li ha portati alla vera comprensione.
Il sofista infatti "non tiene conto di nient'altro" che delle opinioni del "bestione" di cui parla Socrate. Questo "bestione", Socrate lascia intendere che sia la folla: il sofista e' in cerca dell'approvazione della folla di cui ne sfrutta gli umori (interpretazione di Reale); ma il bestione" e' anche l'ammasso dei suoi desideri, dei desideri dell'uomo in generale.
Il loro obiettivo era di mettere in evidenza il relativismo in tutte le cose.

Il necessario, corrispondente alle opinioni del “bestione”, o all'assecondamento dei suoi desideri, verrà chiamato giusto e bello dal sofista.
In realtà il sofista conosce l'animale con cui ha vissuto, anzi pensa di conoscerlo per via della materializzazione terrena nel corpo e per via dei desideri di quel corpo; in realtà il bene non è ciò che asseconda opinioni e desideri. L'Idea del Bene può essere colta sono intelligibilmente, ed anzi il Bene stesso mette in comunicazione intelletto e oggetto dell'intellezione.

Educare la folla non va bene, perchè essa nel suo complesso "non può elevarsi a credere l'esistenza del bello in sè al posto delle singole cose belle, all'essere individuo in quanto tale invece che a singoli esseri specifici".
Cioè non solo non è in grado di staccarsi dalla materialità, ma nemmeno da questa attuare quel procedimento dialettico di analisi e sintesi che dalla molteplicita' dovrebbe ricondurli all'Idea del Bene-Uno.

- Rapporto tra potere, uomini e filosofi:
Il filosofo vede la follia dei più e per questo non vuole contrapporsi al branco, anche perchè se si buttasse nel branco questo lo divorerebbe e ciò non sarebbe utile nè a lui medesimo nè al branco stesso.
Anche per questo il meglio per il filosofo in questa situazione è ritirarsi.

Ogni cosa che vada per il verso Giusto, dice Socrate, si può considerare un miracolo di Dio.

In uno stato ideale adatto al filosofo, che non esiste in un modo duale e fatto di mescolanza, il filosofo si tiene lontano dall'opinione e dal diverbio.

Ma, dice Socrate, non è impossibile che il filosofo guidi lo Stato, o che uno che è già capo di Stato non diventi filosofo (uno solo sarebbe sufficiente); ciò è solo difficile da realizzare.
I più cambieranno opinione solo quando verrà mostrata loro la vera natura del filosofo.
La natura dell'uomo in genere, non è cosi' "intrattabile" come si ritiene, serve solo la giusta educazione.

Così come il filosofo imita la realtà che contempla, sembra che Socrate voglia dire che l'uomo, in generale mite, agisca per imitazione.
Ciò vale perciò anche per l'uomo che imita non solo il filosofo, ma anche le virtù che quel filosofo porta con sè. Facendo ciò si arriverà al punto in cui i costumi degli umani "non saranno cari agli dei nella misura del possibile".


Inoltre nel Libro VI si vede:
-         la capacità di cogliere con sufficiente chiarezza l’essenza del Bene: se non si conosce questa Idea è inutile conoscere tutte le altre Idee
-         Socrate parla del figlio del Bene, del figlio dell’Uno, paragonandolo al Sole: il Bene è nel mondo dell’intellegibile rispetto all’intelletto e agli intellegibili, quello che il Sole è nel visibile rispetto alla vista e ai visibili; e, come il Sole contribuisce alla generazione, alla crescita e al nutrimento, così il Bene contribuisce all’essere e all’essenza.

La metafora della retta viene completata:
-         la prima parte delle due del segmento che concerne il visibile è costituito da immagini, intese come ombre e riflessi
-         il secondo segmento del visibile è costituito dai modelli di ombre e riflessi, che sono i vegetali, gli animali e i prodotti dell’uomo
-         in base a questa divisione, la prima parte del visibile è considerata come “falso” e “oggetto dell’opinione”, la seconda parte come “vero” e “oggetto della conoscenza”
-         la prima parte dell’intelleggibile è caratterizzata dagli enti matematici e da postulati, mentre la seconda parte da Idee e principi.
L’anima indaga fino ai principi ultimi attraverso un procedimento con le Idee e per mezzo delle Idee.
L’anima nella ricerca è costretta a ricorrere a ipotesi, non per scoprire i principi, dato che la ricerca non può andar oltre le ipotesi, ma essa utilizza le immagini, cioè ombre e riflessi, della parte bassa della linea. Queste copie sono utilizzate e valutate, proprio perché visibili.

Dalla lettera VII sappiamo che queste copie, queste ombre, sono nel mondo visibile l’inverso, l’opposto rispetto al mondo intellegibile.

Attraverso queste immagini e copie, e attraverso le ipotesi che ne derivano, aiutati dalla potenza della dialettica (analisi e sintesi discendente e ascendente) si arriva attraverso il ragionamento ai postulati, e attraverso questi ai principi.

Socrate specifica che non è un processo di “trasformazione” dei postulati in principi, ma una sorta di traghettamento ragionato dagli uni agli altri, con “punti di appoggio e di partenza”.

Poi, il ragionamento procede verso il termine, verso la fine (cioe' Socrate indica una direzione, non dice che tutti arrivino alla fine, anzi, la via e' lunga e sempre piu' difficile) senza più far conto delle cose sensibili, ma solo attraverso le Idee (con l’Intelligenza e non attraverso i sensi).
Non si contempla perciò direttamente il principio, che inizialmente è sconosciuto, ma si parte dalle ipotesi.
La retta, illustrata in questo modo, corrisponde alle 4 funzioni dell’anima:
1)      la congettura (immagini, ombre e riflessi)
2)      la credenza (vegetali, animali, prodotti dell’uomo)
3)      la dianoia (enti matematici)
4)      l’intellezione vera e propria (Idee)

Il fatto ad esempio che la realizzazione politica con la reggenza dei filosofi sia per Socrate irrealizzabile in questo modo, fa capire che lui propone un modello ideale.
Il mondo reale è invece fatto di quella mescolanza di virtù (spesso separate in diverse persone) e vizi di cui tanto ne parla.
Nell'esempio della nave, e del capitano che corrisponderebbe al filosofo, Socrate fa capire che non tutti possono essere "capitani" perchè non conoscono come condurre una nave, che in un linguaggio socraticamente trasposto significa proprio non possedere la Conoscenza (per diversi motivi: pigrizia, vizi, non avere le qualificazioni necessarie, ecc).
Quella del capitano, così come quella del filosofo, è un’arte.

Una volta imparata e interiorizzata un'Arte, la si porta con sè. Ed e' quello che deve fare il filosofo, in un progetto di ampio respiro (nel caso specifico la gestione della Città): cioè quello che serve non è solo che gli altri seguano colui che sa, ma anche che ci sia una continuità nel tempo della Conoscenza e della messa in pratica dell'Arte.

Ora, per conoscere bisogna partire dal dato sensibile, ma non ancorarsi a questo, non ancorarsi a opinioni e credenze, che non sono nè vere nè durature e continuative.
Le cose sensibili vanno viste con lo specchio del Bene, che ha la stessa funzione del Sole nel rapporto tra vista e visibile: il Bene, come specchio e cartina di tornasole, collega nous e cose intelleggibile, e contribuisce all'essenza.
E, come specchio, dunque riflettendo, fa vedere le cose nel lato speculare giusto.

È proprio attraverso questo specchio del Bene che metodologicamente si riesce a passare dal sensibile all'intellegibile, secondo le indicazioni della Lettera VI e della Tavola di Smeraldo, considerando ciò che sta sopra l'inverso di ciò che sta sotto.

Attraverso il Bene dobbiamo superare il mondo sensibile, caratterizzato da una buona dose di menzogna, e purificarlo.
Se la seconda parte della linea è più lunga della prima, un motivo di deve pur essere.


LIBRO VII



Attraverso il mito della caverna Socrate non intende infondere ai dormienti capacità che non possiedono, ma vuole indurli a voltarsi dalla parte giusta, in modo da permetter loro di far uso di una facoltà che già possiedono.
Questo non è un meccanismo automatico, ma avviene per precisa volontà, volontà questa che fa girare insieme tutto il corpo e tutta l’anima (518C); ci deve essere uno sviluppo equilibrato dell’uomo che voglia diventare filosofo, che coinvolga i suoi aspetti: corpo, anima, spirito, intelletto.
I dormienti vedono le ombre (e la loro testa è immobile su di esse) o sentono l’eco delle voci: ma la loro educazione nel voltarsi dalla parte giusta deve essere graduale e proporzionata alla capacità dei loro occhi di adattarsi alla verità (515C-E); altrimenti quell’accecamento farebbe sì che il dormiente non riesca a capire che quella sia la verità (516 A).
C’è una specifica e ben precisa arte che aiuta a girare l’anima (518D).

Tale gradualità implica che il dormiente prima veda e CAPISCA le ombre, lo slancio dell’anima verso l’alto inizia da qui, poi le immagini riflesse nelle acque di queste (riflesso speculare, VII Lettera), poi le cose stesse; poi la luce del sole riflessa negli astri e infine il sole stesso (516B). Solo allora l’uomo, perfezionato, potrà trarre le giuste conclusioni, e arrivare a comprendere la causa di tutto (516C).
L’Idea del Bene è la più difficile da conoscere ed è causa universale (Libro VI e 517C); le altre virtù invece, che si possono anche avvicinare di più al corpo, non preesistono, ma possono essere immesse attraverso l’abitudine e l’esercizio (518E).

L’intelligenza, invece, la capacità di usare l’intelletto per indagare le Idee sino al Bene, è la virtù più vicina al divino, ed è inizialmente neutrale: è essa che deve essere maggiormente educata alla filosofia di modo che non vada nella direzione opposta.
Tale educazione significa anche far staccare gli uomini dai pesi di piombo del divenire (519B), cioè da tutto ciò che concerne la forma e le sue quotidiane mutevolezze.

A questo punto, l’uomo arrivato in cima perderebbe il desiderio di confrontarsi con i dormienti che ancora vedono le ombre e opinano (516D); tal cosa sarebbe per lui una nuova sofferenza.
Tutti i discorsi umani, anche i più alti, quelli di una presunta ed umana giustizia, vertono infatti su queste ombre (517D) e dell’anima che ritorna in basso si dovrebbe aver compassione (518B) anche se chi riderebbe di quest’anima sarebbe meno ridicolo di chi riderebbe di un’anima in ascesa: il suo sforzo, quello di ascendere, è ben più grande.
Il filosofo deve perciò ridiscendere la scala e condividere con i carcerati onori e fatiche (519D), non essere inferiori a nessuno nemmeno nella vita pratica (539E), perchè non si deve privilegiare una sola classe, ma verificare attraverso ciò che si conosce e che si può insegnare, se qualcun altro fosse degno a ricevere tal insegnamento (519E-520 A).
Non solo: questa stessa ridiscesa sarà una prova per lo stesso filosofo al pari di tutte le prove già superate per salire la scala (540 A), ed anzi fra tutte le prove è quella più lunga (“15 anni” dice Socrate, laddove per la ginnastica prevede 2-3 anni, e per la dialettica 5).

Allo stesso tempo il filosofo che si forma da sè e non è formato dallo Stato, non deve sentirsi vincolato a questa ridiscesa (520B); ma allo stesso tempo egli ha avuto una formazione meno completa di coloro che sono seguiti dallo Stato.
È il caso in cui lo Stato – inteso come Ordine tradizionale - ricorda Evola che lotta con l’Angelo.

Lo Stato deve essere amministrato dal filosofo; lo Stato meglio ammaestrato è quello in cui chi detiene il potere è colui che meno lo desidera (520D) perchè il potere è oggetto di discordia.
Questa affermazione va sempre con l’uguaglianza Stato = Ordine tradizionale.
L’onesto e il saggio, ribadisce più di una volta Socrate, non deve rivolgersi al potere spinto dal desiderio.
Sembra su questo ci sia un grande insegnamento: la volontà (il “potere” di fare le cose) non è desiderio, inteso come brama.

Il monaco-guerriero (Socrate dice che la giusta educazione deve educare l’anima ad elevarsi - monaco, ma anche a combattere la guerra, – guerriero, la guerra degli opposti del mondo sensibile, 521D) l’educazione deve partire dallo studio degli enti matematici.

A stimolare la conoscenza sono le cose che danno luogo a due sensazioni opposte (523C), e ciò riguarda ad esempio la grandezza e la piccolezza (523E); in questo caso sembra che Socrate si stia riferendo a quella dottrina non scritta della Diade grande e piccola.
Il dubbio per l’anima richiede approfondimento, e da questo approfondimento subentra l’intelligenza: essa permette di cogliere la doppia natura degli oggetti: 1) il molteplice degli oggetti, e  2) la loro vera e Unica natura, dando un limite alla molteplicità e all’infinitezza della Diade proprio attraverso questa Unità limitante (524C, e Reale).
Allo stesso modo se si vuol trattare con l’Uno-Bene (o con qualsiasi altro numero) per far si che l’anima si interroghi su di esso si deve unirlo a qualcosa di contrario (524D-E).
Ad esempio il Male? E l’Uno-Bene in quanto tale va moltiplicato (525E)? 

Ma Socrate avverte: le scienze non vanno usate nel modo in cui l’uomo materialmente e normalmente le userebbe (525C): ciò vale per tutte: la matematica, la geometria (527B), l’astronomia (527D, 529B-C) e l’armonia (531 A).

Dopo lo studio degli enti matematici, si deve studiare la geometria è la scienza di ciò che è sempre, e non di ciò che è corruttibile.
Poi, prima dell’astronomia che tratta del solido in movimento, bisognerebbe procedere nell’insegnamento con il solido in sé e per sé, nel piano, cioè dopo la seconda dimensione della geometria studiare la terza dimensione (528B).
Ora tale materia è troppo difficile e se anche ci fosse un maestro nessuno gli crederebbe, per via della superbia degli uomini (528C).

Questa terza dimensione come il mondo sensibile, quello materiale della vita di tutti i giorni, percepibile attraverso i sensi, attraverso quei sensi che l’uomo comune utilizza e pensa che siano veri per la comprensione.
In 528C sembra che ci sia perciò in Socrate una critica nei modi di studio della realtà, che anche attraverso i sofisti prima, o gli scienziati speciliasti, razionalisti e l’Illuminismo dopo, è stata snaturata e ha attribuito importanza fondamentale solo ai sensi e/o alla fisica.

Questa scienza della terza dimensione è dunque poco considerata e chi la coltiva non si rende conto della sua utilità.
Quarto, l’astronomia: non significa studiare le figure nel cielo, ma il rapporto della velocità e della lentezza delle cose (movimento, 529D), che è sincronizzato. Non solo, ma questo moto trascina anche il contenuto della cosa.
Ma Socrate con questo fa anche un discorso sul tempo (530B): sarebbe ridicolo in base a queste proporzioni considerare il tempo inteso nella divisione annuale, mensile o oraria dell’uomo: il tempo è quello dato dal moto sovraceleste, delle sfere superiori.

Per quanto riguarda l’Armonia, essa è la scienza che completa tutte le altre, che unisce (530E); essa è un’impresa quasi divina (531B), e questa ricerca, attraverso tutte queste scienze deve apprndare al cespite comune, al punto di contatto fra le cose, altrimenti sarà un lavoro inutile (531D).

Siccome il significato delle parole di Socrate è per differenti tipi di uomini, bisogna scegliere con chi confrontarsi (528 A e 530C).
Se non si vogliono vedere le cose da uomo comune, vedere che cosa intendesse realmente Socrate-Platone, significare andare oltre le singole parole.

Etimologicamente: la parola “matematica” = “che concerne il sapere, ma anche la scienza” sino a “mathetes” = “discepolo”; “numero = distribuire, amministrare, spartire”, che riguardava per i greci un rapporto di proporzione; “geometria = studio della misura della terra”; “armonia = collegamento, unione fra proporzioni”.
L’unica “scienza” che oggi sembra avere lo stesso significato etimologico par essere l’astronomia, che riguarda il movimento dei corpi celesti, donde la particolare attenzione di Socrate a tale “movimento”, anche se egli aggiunge che “dovremmo lasciar perdere gli astri del cielo” (530B).

Mi sembra cioè che il significato originario di Socrate sia diverso da quello che potremmo intendere oggi, tanto che l’educazione del filosofo passerebbe:
- attraverso l’iniziazione alla scienza (Matematica)
- una fase in cui si divide in proporzione (analisi, solve) (Numeri)
- una fase in cui si misura ciò che si è diviso (e si risolve la guerra, 527C) (Geometria)
- dopo la misurzione e il superamento della guerra (della dualità del mondo sensibile), lo studio della realtà sensibile-terza dimensione andando all’essenza delle cose
- una fase in cui si conferisce movimento (Astronomia), e si considera il tempo (quello sovraceleste, e non quello terrestre)
- la fase della sintesi, coagula (Armonia)

Ma la vera dialettica non si ferma qui, colui che ha acquisito queste discipline deve andare oltre, andare all’essenza stessa della dialettica (531D-E, 533A), altrimenti rimane ancorato, con le altre arti alla corruttibilità della forma (533B).
Essa parte dal sensibile, come abbiamo visto, da ciò che la vista vede (532 A) sino ad usare, una volta girata l’anima, l’intelligenza (532B).

Non solo: Socrate ribadisce anche la doppia natura dell’anima, dicendo che è la parte superiore di essa che verrà elevata alla visione-contemplazione della parte superiore dell’essere (532C).

La vera conoscenza dell’essere non parte dallo studiare un principio sconosciuto (533C), ma passa proprio per quelle arti enunciate (la dianoia, il primo segmento della seconda parte della metafora della linea) (533D); però alla meta finale dopo la lunga strada percorsa dovrà essere la dialettica vera e pura a condurci (534E).
Le 4 funzioni dell’anima:
1)   la congettura (immagini, ombre e riflessi), come ricalcato anche dla mito della caverna
2)   la credenza (vegetali, animali, prodotti dell’uomo)
3)   la dianoia (enti matematici)
4)       l’intellezione vera e propria (Idee)

Il dialettico deve avere acutezza di ingegno e facilità di apprendimento, ma anche inflessibilità e resistenza (534C), deve essere per “metà solerte e per metà neghittoso” (534D): insomma deve essere equilibrato (539D), un equilibrio che si conquista sviluppando progressivamente e allo stesso tempo tutte le facoltà (fisiche o intellettuali che siano).
Per acquistare, in maniera equilibrata dunque, la giuste dose di temperanza e coraggio (536 A) affinchè sappia acquisire quel discernimento necessario che non lo faccia appoggiare a “persone zoppe”.

Tutte queste virtù devono essere praticate in maniera legittima altrimenti la filosofia, fatta di queste persone, sprofonderà nel ridicolo: le organizzazioni iniziatiche, fatte di questa gente, non saranno Tradizionali.
Il filosofo deve essere formato da giovane, ma non si può forzare l’anima di chi non vuol essere aiutato (536D-E); sono le capacità e le tendenze naturali ad emergere, non con costrizione, ma in base al rispetto delle predisposizioni individuali (537 A).
Si parte dal corpo (ginnastica), dall’aspetto fisico e materiale dell’uomo, che deve essere educato e purificato, e ciò è anche una prova delle sue reali qualificazioni iniziatiche e predisposizioni (537B); fatto ciò, tale educazione disorganica dovrà raggiungere una sintesi e collegare le varie virtù per riscoprire l’essere, la causa e su sino ai principi (537C). Solo chi sa vedere l’insieme è veramente dialettico, e solo chi inizia a Comprendere senza l’ausilio dei sensi è un vero filosofo (537D).

A questo punto però si deve ben comprendere: quelli che Socrate chiama i rischi riguardano l’attaccamento al padre e alla madre; bisogna infatti staccarsi e uccidere il padre e la madre, veder a volo d’uccello l’educazione familiare e sociale ricevuta in un determinato periodo e luogo storici, con i relativi “dogmi”, e distaccarsene (così come per le passioni) (538 A-C, ma anche 541A),
Ciò non vuol dire staccarsi dal mondo, ma rendersi conto di non essere del mondo materiale (538D).
Il rischio della dialettica, e da qui si riconosce anche la vera pasta del filofoso che non si deve lasciar trarre in inganno, è quello di lasciarsi trascinare dai sofisti che “a forza di logica confutano tutto quello che si pone loro”: tutte le cose non possono essere relative come vorrebbero i sofisti (538E, 539A), come tu dissi, altrimenti si ricade nella mera opinione.
Essa deve essere usata nella maniera giusta per cercare la verità e non come un giocattolo per il gusto di contraddire (539D).

Il traguardo della formazione avverrà solo dopo che, acquisita la dialettica, il filosofo sia ridisceso nel mondo: solo a quel punto potranno servirsi della contemplazione del Bene in sè per completare l’ordinamentro di sè stessi e dello Stato (540B), diffondendo ovunque la giustizia divina (540E).
Solo così essi potranno abitare le isole dei beati.
E quello che vale iniziaticamente per gli uomini, lo stesso è per le donne (540C).

In quali condizioni e perchè il dormiente esce dalla caverna uterina verso la luce?
Lui vede solo le ombre che il fuoco del principio unico proietta, e sente solo l'eco delle voci degli intermediari (quelli che stanno in mezzo) tra il fuoco e la caverna.
Socrate ipotizza che uno dei prigionieri venga sciolto, ma come questo nella vita di tutti i giorni può avvenire? Questo Socrate non lo dice.
Il Desiderio e la Volonta' da soli bastano? Da cosa essi sono dati, qual è la causa scatenante che dà movimento all'anima?
Una mancanza.

Quando nella mente umana si insinua il dubbio allora c'è ricerca.

Tale dubbio è una messa in discussione, una guerra a prima vista insanabile tra due cose opposte (lo stesso Socrate lo dice, che questa contrapposizione da' movimento).
Ora se qualcuno gli dicesse che il fuoco che lo acceca sia la realtà questi non gli crederebbe, non solo perchè accecato, ma anche perchè ancora ha le ombre in mente.
Bisogna arrivarci da soli alla verità, con quella gradualità necessaria che permette di abituarsi a cose sempre piu' vicine alla verita', sino alla dialettica e alla sintesi finale ("trarre le conclusioni").

Questo dubbio, spinta primigenia, non deve finire, pena il cullarsi in alto e magari senza aver toccato la Verità, ma solo aver intravisto una parte non fondamentale di essa.
E' questo uno dei significati del tornare giu' tra gli uomini?
E non potrebbe l'uomo, rimanendo lassu', peccare ancora di superbia?
Ritornare dentro la caverna significherebbe rimettersi in discussione, per via delle tenebre che offuscherebbero di nuovo gli occhi.

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