Per chi fosse interessato, il testo di Reale è qua.
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Il passaggio dall’oralità alla scrittura segna un passaggio importante nella Grecia antica, che dà il là ai Sofisti di “ancorarsi” ai testi scritti, alla bella scrittura e alla retorica. Essi si “dimenticano” su come è strutturata l’oralità dialettica, e la originaria funzione della scrittura, che è quella di abbozzare ed essere un promemoria incompleto il vero sapere.
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Il passaggio dall’oralità alla scrittura segna un passaggio importante nella Grecia antica, che dà il là ai Sofisti di “ancorarsi” ai testi scritti, alla bella scrittura e alla retorica. Essi si “dimenticano” su come è strutturata l’oralità dialettica, e la originaria funzione della scrittura, che è quella di abbozzare ed essere un promemoria incompleto il vero sapere.
Platone, essendo per lui il libro solo un “promemoria” per la discussione orale, riserva gli insegnamenti ultimi e più importanti all’oralità. Il filosofo è colui che possiede cose di maggior valore di quanto ha messo nello scritto.
Le dottrine non scritte, i cosdidetti “agrapha dogmata” sono gli insegnamenti orali che Platone Avrebbe dato insegnando all’Accademia e che lui ha ritenuto, per i motivi espressi nella VII lettera di non scrivere:
“Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose piú serie, perché queste egli le serba riposte nella parte piú bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero piú profondo, "allora, sicuramente"; non certo gli dèi, ma i mortali "gli hanno tolto il senno”
Tali dottrine non scritte sono veicolate sino a noi attraverso la tradizione indiretta, rappresentata dagli autori successivi a Platone:
- in primo luogo ci sono le auto-testimonianze che Platone ci dà per allusioni o in forma incompleta nei suoi scritti;
- poi, Aristotele, che non è sempre attendibile, perché non è uno storico, ma un filosofo e quindi è portato a utilizzare gli autori che cita in funzione delle sue idee. Inoltre, spesso Aristotele parla genericamente”degli accademici” attribuendo a Platone concetti che invece sono dei suoi successori all’Accademia.
- poi, testimonianze, sotto forma di frammenti, di vari autori: Aristosseno, Simplicio, Teofrasto, Alessandro di Afrodisia, e soprattutto Sesto Empirico. Anche per questi autori vale,sebbene in modo meno accentuato quello che è stato detto di Aristotele.
Anche gli stessi successori diretti di lui a capo dell’Accademia, Speusippo e Senocrate, danno l’impressione di avere male interpretato il suo pensiero.
La tradizione indiretta, se correttamente interpretata, non sminuisce la portata dei dialoghi scritti ma li porta a migliore comprensione e a una specificazione maggiore proprio attraverso il confronto e l’aggiunta complementare degli insegnamenti orali.
Giovanni Reale, come co-fondatore della scuola detta di Tubinga/Milano, iniziata con gli scritti di Kramer che per primo scopri i principi primi di Platone, è portato a dare eccessiva importanza a questi principi.
Questa scuola dice, a sua volta, che precedentemente era stata data troppa importanza alle Idee, nel senso che - dice Reale - queste erano considerate come il "vertice della montagna", non come un insegnamento da completare con quello della tradizione indiretta.
Anche gli autori successivi a Platone, della già citata tradizione indiretta, erano portati a ritenere come vertice i principi supremi di Uno e Diade infinita.
- il procedimento sofista ha fatto sì che l’obiettivo non fosse più l’insegnamento originario orale, ma la lettura di un libro che tende a far distaccare dal contesto in cui è stato scritto e da chi è stato scritto: la lettura diventa un automatismo.
- la scrittura deve invece servire a richiamare le cose alla memoria di chi le se già, perché da sola non è in grado di produrre sapere. Poi, i libri non sanno rispondere alle domande, e anche per questo hanno sempre bisogno dell’aiuto del “padre”.
- L’insegnamento e il comunicare idee è un rapporto fra anima e anima. La scrittura non è che una pallida immagine dei discorsi fatti all’anima.
Poiché l’insegnamento parla all’anima, esso deve essere proporzionato al livello e a ciò che l’anima può recepire: da qui l’importanza del dialogo, delle cose dette, e sopratutto di quelle non dette, e della funzione di “far partorire” del filosofo.
Le cose di maggior valore (Lettera VII) sono le cose “supreme e prime”, i principi ultimi, in particolare il Bene-Uno e la Diade di grande e piccolo, il principio di molteplicità.
- la teoria delle Idee e della realtà soprasensibile non è il soccorso ultimativo del filosofo, ma permette comunque di far salire progressivamente l’ascoltatore dopo che questo ha “partorito” da solo. Il soccorso ultimativo sui principi supremi, come detto, negli scritti non avviene.
- chi scrive deve conoscere le verità; il metodo per arrivarci, le anime cui si rivolge. Da qui consegue che il filosofo è il miglior scrittore.
- l’opinione (conoscenza sensibile), anche se vera, è sempre fuggevole: per farla diventare scienza va legata con la causa fondativa, l’Idea originaria.
L’Idea platonica non è una forma della mente, un pensiero, ma è un essere, eterno ed immodificabile, “intima natura delle cose”, che ha la caratteristica dell’unità.
Le forme sensibile e molteplici sono spiegate da questa Idea unica, che il filosofo deve imparare a cogliere.
Tale concezione si avvicina a quella dell’ombra delle idee di Giordano Bruno e a quella dell’arte rotonda di Fludd.
- la divisione delle Idee generali porta attraverso un processo diaretico alla mescolanza, di cui si accenna anche nel Filebo.
Il procedimento dialettico permetterebbe di capire come “i molti siano l’uno e l’uno siano i molti”. Nell’idea della dialettica c’è un’idea di movimento.
La natura del reale è rispecchiata da un movimento alto-basso/basso-alto attraverso un procedimento di sinossi e diairesi.
- Eros (Simposio): “ciò che tiene unite tutte le cose del mondo intero”, figlio di Penia e Poros è figlio della mancanza, colui che media forze opposte e anche mediatore fra l’alto e il basso.
E’ la struttura bipolare e dinamica de reale, tende al Bene, e garantisce la stabilità permanente nell’essere.
Tutte le attività umane che tendono al Bene sono formate di Eros.
L’Eros attraverso la reminescenza fa rinascere le ali all’anima, perse con la dimenticanza (Fedro; sempre nel Fedro, mito dell’auriga e origine di vite umane la cui moralità è connaturata alla qualità dell’anima, per ultima quella dei tiranni)
- Il Bello è un aspetto del Bene; il Bello ci fa vedere il Bene.
La bellezza stimola al desiderio di procreare, attraverso cui la natura mortale cerca di farsi immortale.
- La ragione umana si esprime sia per concetti che per immagini, e lo fa in modo strutturale: da qui il motivo delle presenza del mito in Platone.
Il mito può essere o una chiarificazione del concetto, o avere una funzione escatologia e di stimolo, fondata sulla “speranza” (Fedone) intesa come Fede.
- Negli scritti Platone non dice mai cosa sia il Bene. Nelle dottrine non scritte lo identifica con l’Uno, suprema Misura di tutte le cose, identificato (come nei pitagorici) con Apollo.
Un riferimento alle dottrine non scritte di Platone si ha nella Repubblica e nel Timeo:
la Repubblica contiene i capisaldi metafisici: non dice mai che cosa sia il Bene, ma parla del “figlio del Bene”, e lo vuole presentare in maniera corretta.
il Timeo contiene i capisaldi cosmologici, attravero si numeri e la geometria regolare.
- “La pluralità delle Idee e la loro gradazione gerarchica nascono dall’azione dell’Uno che determina il Principio opposto della Diade, che è molteplicità indeterminata”.
I due principi sono ugualmente originari: l’Uno è gerarchicamente superiore, ma è cooriginario alla Diade, in quanto non avrebbe efficacia produttiva senza di essa.
I principi sono due, e non sono duali ma bipolari: uno esige l’altro.
- Ogni Bene presuppone portare l’unità nella molteplicità, fare ordine nel disordine; è in questo senso che è connaturata nel discorso l’idea di limite all’illimitato.
L’essere è mescolanza fra limite e illimite, secondo proporzione, armonia e giusta misura.
(fare ordine nel disordine significa anche nelle proprie passioni, nella società e nello stato).
- la seconda navigazione, ben più faticosa, corrisponde alla via del ragionamento, che va oltre lo “studio della natura” con metodi che studiano elementi fisici fini a sé stessi.
Con il ragionamento sull’essere, sulla vita e la morte, sulla corruzione, bisogna ricercare la vera causa, ma anche tutte le connessioni e le strutture a questa collegate, di modo che si impari a distinguere fra Bene e Male.
La fisicità è uno strumento.
L’Intelligenza opera in funzione del Meglio.
- “Il fattore e Padre di questo universo è molto difficile da trovare ed è impossibile parlarne a tutti”.
Il demiurgo non è il principio primo, Bene-Uno, che è impersonale, ma è il Dio platonico Intelligenza suprema che ha ancora al di sopra di se una regola suprema (il Bene in sé).
Parmenide dice che l’Intelligenza deve avere come fondamento un essere: questo fondamento per Platone è il Bene.
Il demiurgo è Buono per eccellenza perché opera in funzione dell’Idea del Bene.
“Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a sé”.
Egli crea ordine nel disordine, che corrisponde a proporzioni e rapporti, che nel mondo sensibile corrispondono a forme e numeri.
- Dio tutto geometrizza: connessione intima fra Idee e numeri (metafisici).
Nella vita sensibile il numero, per i Greci, non era un intero, ma un rapporto fra grandezze.
Fra le Idee e le Forme vi sono i Numeri, che sono dei rapporti numerici (“enti matematici intermedi” “immobili ed eterni”, cioè analoghi alle Idee).
- la reminescenza aiuta a ritrovare nella propria anima l’originario possesso del vero.
Le nozioni che non percepiamo attraverso i sensi provengono da dentro. L’anima dimentica, ma mai per intero.
“Solo ciò che è massimamente essere è perfettamente conoscibile, mentre il non-essere è assolutamente inconoscibile”: ma noi siamo una mescolanza di essere e non essere dice Reale, e per Platone l’opinione (il conoscere sensibile) diviene vera scienza tramite il collagamento con la sua Causa.
- Nei misteri orfici l’anima è un demone (un intermediario) intrappolato nel corpo a seguito della Caduta, e anche per Platone il corpo è una prigione.
Per Platone, sulla scia di Socrate ma andando oltre Socrate, l’anima è immortale, immutabile ed eterna. Essa può acquisire la Conoscenza perché le cose oggetto di questa Conoscenza sono a lei affini, cioè sono anch’esse immutabili ed eterne.
L’anima immortale è solo quella razionale e non quella concupiscibile o quella irascibile.
Vivere per il corpo significa vivere per ciò che è destinato a morire, vivere per l’anima significa vivere per ciò che è eterno. E’ quello che dice – in sostanza – Socrate nell’Apologia.
I mali che distruggono il corpo non distruggono l’anima, che è incorruttubile.
- Nel Gorgia, dice Reale, i buoni riceveranno un premio per le proprie virtù, chi ha commesso cople sanabili si purificherà con sofferenza, coloro che hanno commesso ingiustizie insanabili patiranno nell’Ade.
Nell’Ade sono tre figli di Zeus a giudicare: “il Padre non giudica nessuno, ma affida il giudizio al Figlio”.
- per Plotino la “contemplazione del vero” è creatrice di essere a tutti i livelli
Platone vede che c’è una corrispondenza strutturalmente perfetta tra conoscere ed essere.
Quello che Aristotele ha detto di Platone come opinioni personali èmeno importante di ciò che Aristotele racconta storicamente di lui.
Scritti e oralità sono complementari, e messi insieme il loro valore aumenta di molto.
Quelli delle dottrine non scritte sono discorsi brevi ma i più impegnativi.
Le dottrine non scritte ci danno un plus, ma è “come il tratto ultimo della salita di una vetta, che è il più breve, ma il più impegnativo ad un tempo”. Gli scritti platonici fanno salire per tutta una montagna, ma non ci fanno guadagnare la vetta”, che è riservata agli insegnamenti orali.
Ciò fa capire l’importanza della conquista ultima e più importante del sentiero che si sta compiendo, del lavoro individuale, e soprattutto del fatto che l’anima debba partorire da sé.
La conoscenza vera non può venire che dalla conoscenza dell’essere e del cosmo: ma proprio perché la Conoscenza è progressiva e mai definitiva, anche il discorso platonico non è un sistema chiuso, ma permette sempre sviluppi ulteriori.
Reale vede nel Fedone 96A-102A la prima razionale prospettazione di una realtà soprasensibile e trascendente, la cui dottrina platonica si enuclea nella teoria delle idee, dei principi supremi, e nella dottrina del Demiurgo, che vanno a costituire la seconda navigazione metafisica dopo la prima, quella dei fisici.
Le risposte che riguardano l’essere, la vita, la morte, la corruzione, il soprasensibile tutto, non possono essere di natura fisica.
Se uno va alla ricerca della Causa questa non è dunque fisica.
Parlando dell’Intelligenza ordinatrice, ad esempio, Anassagora non ebbe tratto le giuste conclusioni sul fatto che essa è strettamente connessa con il Bene, il meglio: se quindi il Bene è causa delle generazioni successive, ciò implica che l’Intelligenza ordinatrice debba conoscere anche il “peggio”. Da qui la polarità dei principi primi e supremi.
I sensi e le sensazioni (fisici) della prima navigazione non sono che un strumento che prepara ai ragionamenti e postulati (metafisici) della seconda navigazione.
Chi vede le cose nella realtà sensibile non vede che copie pallide di quella intellegibile.
Il guadagno della seconda navigazione è quindi la scoperta della Vera Causa.
Andare oltre la realtà sensibile significa scovare un postulato adeguato sino ad arrivare a quello oltre cui non bisogna ricercare oltre e che riguarda i Principi Supremi.
Le Idee, che sono la prima tappa della seconda navigazione, non sono per Platone le cause prime e supreme (a dfferenza di ciò che si sosteneva nelle interpretazioni tradizionali), ma queste cause prime riguardano proprio i principi supremi, la cui presenza si inizia a cogliere già dai dialoghi intermedi.
Le Idee sono raggiungibili solo con il logos e perciò intelleggibili e incorporee (che non vuol dire solo non avere forma, ma anche essere prive di visibilità, di delimitazioni e confini).
Il carattere dell’essere in sé delle Idee è poi per Platone un “sigillo” (Fedone), un carattere immutabile che permette anche il divenire, lo sviluppo, dell’Idea stessa.
Tale “sigillo” immutabile rappresenta anche una critica al relativismo di Eraclito del perenne flusso di tutte le cose.
Dalla molteplicità sensoriale bisogna capire dunque l’unità dell’Idea (“chi sa vedere l’insieme e’ dialettico, chi no, no”).
Bisogna saper ricondurre all’unità dell’Idea il molteplice, e a saper dividere nella maniera giusta secondo l’unità delle Idee, che perciò sono immanenti e trascendono il sensibile.
Rapporti fra Idee: ci sono precisi rapporti di esclusione e connessione (Fedone); la vita esclude la morte, e essendo l’anima la causa della vita, l’anima e’ immortale.
Per quanto riguarda il sensibile, esso imita ma non eguaglia l’intellegibile, partecipa solo in parte ad esso: per questo occorre un mediatore che operi l’imitazione, e questa è la funzione suprema dell’Intelligenza ordinatrice, chiamata da Platone Demiurgo.
Con il Fedone, il Fedro e il Filebo, si vede come il sensibile è mescolanza, la quale è data dall’ordinamento dell’Intelligenza delle categorie dell’Uno e dell’indeterminato molteplice attraverso un limite. (“Dio possiede la scienza e ad un tempo la potenza per mescolare molte cose in unità e di nuovo per scioglierle dall’unità in molte; ma nessuno degli uomini ora sa fare né l’una né l’altra cosa, né mai lo saprà in avvenire”, Timeo).
Per Platone spiegare significa unificare (si guardi, ad esempio, all’unità della virtù, che corrispondeva a scienza).
Così dalle Idee, che sono ancora molte, si arriva alla seconda tappa della navigazione che porta ai principi primi che sono l’Uno e la Diade infinita di grande-e-piccolo.
Aristotele aggiunge che Platone attribuisce la causa del Bene all’Uno, e del Male alla Diade.
Dall’Uno (“principio e radice della molteplicità degli esseri”) deriva l’Essere, ma con la partecipazione fondamentale della Diade infinita (“infinita grandezza e infinita piccolezza”): è grazie alla Diade come principio passivo che si ha la molteplicità derivate dall’azione attiva dell’Uno.
L’azione dell’Uno de-limita l’azione infinita della Diade, come il cerchio di Vitruvio delimita l’uomo, che di per sé è però potenzialmente illimitato.
L’Essere è dunque un misto di limite e infinito, di cui l’Uno (e quindi il Bene) è un principio al di sopra di esso e la Diade come non-essere, al di sotto di esso perché senza l’azione limitate dell’Uno si creerebbe una situazione di disordine (Simplicio).
Tra le Idee e i Principi primi vi sono i Numeri Ideali metafisici, che rappresentano “la struttura sintetica di unità nella molteplicità che caratterizza tutti i differenti piani del reale”.
Con i Numeri ideali si inizia a determinare, ma essi non sono quantità, bensì qualità.
Il Due è la prima determinazione del grande e piccolo ed implica il doppio e la metà (Uno).
Tra i Numeri Ideali e le Idee c’è una stretta connessione ma non una identificazione.
Considerato che Platone riprende solo in parte la mistica numerica pitagorica e che per i greci i numeri erano un rapporto, Platone parla di Numeri Ideali solo per la Decade.
Tra le Idee e il mondo sensibile ci sono gli enti matematici intermedi.
Sono anch’essi immobili, eterni ed intellegibili.
Sono i numeri con cui opera l’aritmetica e la geometria; sono molto meno perfetti dei Numeri e delle Idee, ma hanno in sé una potenzialità di perfezione.
Pertanto:
- 1) dal mondo sensibile
- 2) passando per gli enti matematici intermedi
- 3) per le Idee
- 4) e per i Numeri
- 5) si arriva ai Principi primi (Uno e Diade infinita)
Gli intermediari 2) 3) 4) fungono da collegamento 1)-5).
La dipendenza dell’inferiore dal superiore non è biunivoca: il superiore “vive”, esiste, anche senza l’inferiore, che è appunto una materializzazione.
(“ciò che dipende può essere tolto, senza che con questo venga tolto anche ciò da cui dipende”).
Il piano superiore offre la potenzialità per quello inferiore, da far ingravidare per mezzo della Diade, e un processo di de-limitazione di questa.
Reale è d’accordo con l’impostazione di Kuhn secondo cui la scienza non è un insieme di teorie gaudagnate mediante un incremento organico e un’accumulazione progressiva e costante, ma essa si sviluppa secondo diverse linee di sviluppo date da processi rivoluzionari.
Il paradigma per Kuhn fornisce un modello che utilizzano gli scienziati per la formulazione dei problemi.
La “scienza normale” è quella scienza che sta e si ritrova nel modello, quella “straordinaria” è un suo sviluppo che è dato da delle anomalie alle teorie che mettono in crisi il paradigma tradizionale, e quando le teorie non sono più compatibili avviene una “rivoluzione scientifica” con la creazione di un nuovo paradigma.
Ma è importante sottolineare che per Kuhn il progresso scientifico non avviene verso un fine predeterminato, e che le nuove teorie che fondano un nuovo paradigma sono accolte grazie a una fiduciosa aspettativa che possano rispondere alle domande irrisolte del paradigma tradizionale.
Gli elementi essenziali di un paradigma sono le concezioni e le credenze di fondo di una comunità scientifica, valide per quel paradigma soltanto, ossia quelle che danno il modello cui gli scienziati si atterranno.
Ciò implica la selezione di un criterio e di un metodo, su cui gli scienziati spesso si arroccano in maniera conservatrice, a tal punto da voler far assecondare nuove scoperte ed anomalie a quello stesso paradigma. Questo è anche dovuto al fattore umano in gioco, cioè di persone con opinioni, condizionamenti ambientali ed educativi, spesso influenza di fattori irrazionali.
Ma è nel momento di crisi che si crea lo spazio per una scienza straordinaria e poi una rivoluzione.
Per quanto riguarda i paradigmi che riguardano Platone, Reale individua:
1) il paradigma dato dai discepoli diretti di Platone:
- Aristotele (Vi Libro Metafisica) presenta la teoria delle Idee in generale, e le include come cause dei sensibili; parla delle cause prime e quindi dei Principi dell’Uno (che chiama “Forma”) e della Diade (“Materia”) e associa al primo il bene e alla Diade il male; parla degli enti matematici (“Numeri ideali”), che non si identificano in senso assoluto con le Idee.
Storicamente ciò che egli dice è da prendere in considerazione con maggiore fedeltà rispetto alla teorie ed idee degli autori che espone, perché tenta di ricondurle ad una propria visione personale, deformando l’interpretazione platonica originaria. Ciò non inficia però il fatto che ciò che Aristotele dice poggi su basi storicamente oggettive e vere;
- Speusippo dà prevalenza alle dottrine non scritte rispetto agli scritti, e agli enti matematici; egli non identifica il bene e il male con l’Uno e i Molti perché essi riguardano ciò che è generato (così anche nel Timeo);
- Senocrate tenta di dare una giusta interpretazione di Platone riprendendo la teoria delle Idee, ma subordinandola a quella dei Principi.
In sostanta tutti riconoscono dei Principi supremi, e per tutti gli enti matematici hanno una grande importanza.
Reale parla anche di una certa tendenza dei discepoli a sottovalutare i dialoghi, tranne il Timeo.
2) Dal III sec. d.C. predomina il paradigma medio e neoplatonico che considera importanti gli scritti, con ampio uso interpretativo dell’allegoresi, ma solo teoreticamente le dottrine non scritte.
Secondo il medioplatonismo (Albino in primis) predomina un interesse teoretico in senso totale, già iniziato in parte coi discepoli; di rilievo è la struttura gerarchica del soprasensibile e del divino (Primo Intelletto, Intelletto dell’Anima del Mondo, Anima del Mondo).
Il Primo Intelletto sveglia l’Anima del Mondo volgendola a sé e creando così l’Intelletto di questa; le Idee platoniche diventano pensieri di Dio che pensa se stesso.
L’Uno e la Diade rimangono ai margini, in quanto i neoplatonici parlano di principi non come generatori di tutte le cose a tutti i livelli, ma dei principi che spiegano il Cosmo (Dio, Idee, materia).
Il fine dell’uomo è l’assimilazione a Dio.
Con il neoplatonismo (Plotino, Giamblico, Proclo) si parla della struttura della realtà imperniata sulle tre ipostasi di Uno, Nous, Anima che procedono l’una dall’altra.
Per Plotino la causa, che chiama Spirito (Nous) (l’Idea platonica) ha un Padre (Bene); è lo Spirito che crea, e crea “in quella sua coppa” (ricettacolo?) anche l’Anima.
Anche secondo il neoplatonismo il fine dell’uomo è l’assimilazione con il divino, inteso come ricongiungimento con l’Uno.
Il Timeo resta il testo basilare, ma viene affiancato dal Parmenide come ossatura della metafisica.
Con Giamblico si amplifica l’interpretazione allegorica degli scrtti di Platone; inoltre egli dà il la all’idea che fosse possibile leggere un testo platonico su differenti livelli.
3) Nel Medioevo prevale il paradigma medioplatonico e in parte anche neoplatonico, ma in maniera molto semplificata. Le interpretazioni si basano sulla traduzione del Timeo da parte di Calcidio o sulle idee di Sant’Agostino che si rifà non direttamente a Platone, ma a Plotino; e Reale parla di “ridimensione” di Platone anche con la dottrina cristiana dell’Areopagita.
Con l’Umanesimo e il Rinascimento i testi di Platone vengono “riscoperti” e tradotti in latino, ma la chiave di lettura è sempre quella neoplatonica, data da dotti bizantini e Ficino.
3) Secondo il paradigma tradizionale di Schleiermacher (inizi ‘800), in Platone la preminenza è degli scritti, con una svalutazione delle dottrine non scritte.
Il paradigma vede negli scritti una unità dottrinale autonoma e totale, e quindi autarchica.
Quando tale paradigma si trova di fronte al problema delle dottrine non scritte, parla di “fraintendimenti”, o come dottrine residuali, o non importanti, per riaffermare l’autarchicità degli scritti.
Egli era un pastore luterano e ha trasferito all’interpretazione di Platone il metodo protestante che per l’interpretazione della bibbia nega la tradizione e considera solo la scrittura del testo. Con tale premessa, la tradizione indiretta diviene, quindi, superflua.
4) Il nuovo paradigma inizia con le analisi di Robin (studia il Timeo) sino alla scuola di Tubinga, che ricostruisce il rapporto fra i dialoghi e le dottrine non scritte (iniziando dalla Lettera VII e dal Fedro, sino al discorso Sul Bene).
Reale si domanda: ma perché se Platone aveva detto che era sconveniente mettere per iscritto ciò che riguardava le verità ultimative (che peraltro erano dialetticamente sintetizzabili in poche parole), i propri discepoli ne parlano?
Reale risponde che quello di Platone non era un divieto, o una impossibilità, ma una “sconvenienza” per chi avrebbe letto (e non capito, o interpretato male) quelle cose. Ma la superiorità della dimensione dell’oralità rispetto alla scrittura era sentita meno dai discepoli di Platone, anche perché più distanti anche dallo stesso Socrate.
La prova cui Platone sottoponeva chi intendesse avvicinarsi alla filosofia:
Platone dice che se il probazionista fosse stato idoneo, egli univa i suoi sforzi con quelli di chi lo guidava, sino al momento in cui avesse maturato da solo quelle forze che gli permettevano di proseguire da solo, anche impostando la propria vita privata coerentemente con la pratica della filosofia.
In caso contrario, sottoposto alla prova, reagiva in maniera negativa di fronte alle cose da apprendere, alla fatica e regole quotidiane da seguire, ai necessari impegni.
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