Guardo fuori della finestra, vetro trasparente, nel cuore un sussulto. Cuore verde, il panorama stesso me lo dice, sento che si può respirare lì fuori, aria fresca e pulita, polmone naturale a metà fra cielo e terra. Manon posso, non qui dentro. Non fra queste mura, che tutto m’impediscono, l’interezza stessa della vita m’è negata. Eppure io qui, giunto da lontano per vivere, per respirare, per aprire la mia esistenza, mi trovo ancor più chiuso in me, nel e dal mondo; il dragone mi parla, mi dice: “Non eravamo venuti in questo luogo per dimenticare, per non ricordare, e per cambiare?”.
Io non so cosa rispondere. Con la testa rivoltata indietro alla mia china parlante, non proferisco parola; le mie aspettative erano diverse, ho viaggiato per autoconservarmi, non per morire lentamente. Ma non posso raccontarlo apertamente: la gente non mi crederebbe, ne va della mia reputazione. Quelle che bevo sembrano foglie schiacciate d’euforbia, chiuse in sé stesse, come me. E poi, la gente che mi sta intorno, troppo conformista, inclusa nel grigiume del sopravvivere non mi piace. Mi circonda, mi dà attenzioni, ma alla fine non sento niente; non so contare fino a dieci, anzi, non posso. Il nove è il mio numero preferito, ma non per scelta: nel prendere una tazza – o un bicchiere – lo rammento sempre; quell’inutile dito, il più piccolo, non serve a niente, e neppure a me serviva tanto, però mi faceva comodo come segno di non esclusione sociale. Disabilità, o qualcosa del genere? Forse, ma non c’entra, è più un marchio d’infamia, di non rettitudine; eppure io continuo a bere quelle che sembrano foglie d’euforbia, e continuo a ingollare velocemente – e anche mentalmente – pillole d’inclusività dal sapore di verbena. Ma continuo a non star bene. Ho scoperto che realmente chi mi sta intorno è uguale a tutti gli atri, par excellence a tutti quelli vestiti di bianco, e paradossalmente non riesco a capire l’essenza delle cose: fuori un paesaggio così colorato, dentro così insulso. So anche che non è colpa mia, di ciò che ho fatto, di ciò che ero abituato a fare, e non mi aiutano nemmeno le storie di Banana Yoshimoto che conservo gelosamente nella mia mente. Però sono qui: mi hanno rinchiuso in questo panopticon claustrofobico, la mia coscienza è stata soffocata, il mio pensiero accecato. Volevo solo viaggiare, non uccidere me stesso, o gli altri. Quest’isolamento non è solo fisico, ma anche culturale: non posso conoscere ciò che mi circonda, sono percorso e scosso da un istinto gregario verso altri uguali in questo posto. Ma è pericoloso. La responsabilità di una connivenza cittadina non è tenerci tutti insieme in camere come questa, legati – ma nemmeno quella di non tenerci, né qui, né altrove. La verbena degli altri, che qui è reale, lì è invisibile: regressione psicomentale, purché produttiva. Poter venire fin quaggiù è stato un processo permessomi, e poi negatomi: la multinazionalità, come la multiculturalità, dovrebbe essere senso di responsabilità, invece non lo è. È solo diffusione di coscienziosità, e perciò non-responsabilità. Le persone non esistono più, esiste l’istituzione che sembra non esser fatta di persone. Vedo il verde, ho un numero che mi torna sempre in mente – chissà perché – è 180. La lucidità di ciò che c’è fuori mi consola, ma non mi rallegra; se potessi, ritornerei da dove sono venuto, anzi, ritornerei da dove sono venuto e ripartirei di nuovo alla volta dello stesso luogo in cui sono adesso, ma non per mezzo di un aereo che mi ha riportato indietro nel tempo di ventotto anni, bensì con un ordine di idee che colleghi il mio cuore a quello verde della natura, e che mi faccia vivere un’istituzionalità più civile, com’è oggi (oggi, per me, prima del viaggio) qui.
Io non so cosa rispondere. Con la testa rivoltata indietro alla mia china parlante, non proferisco parola; le mie aspettative erano diverse, ho viaggiato per autoconservarmi, non per morire lentamente. Ma non posso raccontarlo apertamente: la gente non mi crederebbe, ne va della mia reputazione. Quelle che bevo sembrano foglie schiacciate d’euforbia, chiuse in sé stesse, come me. E poi, la gente che mi sta intorno, troppo conformista, inclusa nel grigiume del sopravvivere non mi piace. Mi circonda, mi dà attenzioni, ma alla fine non sento niente; non so contare fino a dieci, anzi, non posso. Il nove è il mio numero preferito, ma non per scelta: nel prendere una tazza – o un bicchiere – lo rammento sempre; quell’inutile dito, il più piccolo, non serve a niente, e neppure a me serviva tanto, però mi faceva comodo come segno di non esclusione sociale. Disabilità, o qualcosa del genere? Forse, ma non c’entra, è più un marchio d’infamia, di non rettitudine; eppure io continuo a bere quelle che sembrano foglie d’euforbia, e continuo a ingollare velocemente – e anche mentalmente – pillole d’inclusività dal sapore di verbena. Ma continuo a non star bene. Ho scoperto che realmente chi mi sta intorno è uguale a tutti gli atri, par excellence a tutti quelli vestiti di bianco, e paradossalmente non riesco a capire l’essenza delle cose: fuori un paesaggio così colorato, dentro così insulso. So anche che non è colpa mia, di ciò che ho fatto, di ciò che ero abituato a fare, e non mi aiutano nemmeno le storie di Banana Yoshimoto che conservo gelosamente nella mia mente. Però sono qui: mi hanno rinchiuso in questo panopticon claustrofobico, la mia coscienza è stata soffocata, il mio pensiero accecato. Volevo solo viaggiare, non uccidere me stesso, o gli altri. Quest’isolamento non è solo fisico, ma anche culturale: non posso conoscere ciò che mi circonda, sono percorso e scosso da un istinto gregario verso altri uguali in questo posto. Ma è pericoloso. La responsabilità di una connivenza cittadina non è tenerci tutti insieme in camere come questa, legati – ma nemmeno quella di non tenerci, né qui, né altrove. La verbena degli altri, che qui è reale, lì è invisibile: regressione psicomentale, purché produttiva. Poter venire fin quaggiù è stato un processo permessomi, e poi negatomi: la multinazionalità, come la multiculturalità, dovrebbe essere senso di responsabilità, invece non lo è. È solo diffusione di coscienziosità, e perciò non-responsabilità. Le persone non esistono più, esiste l’istituzione che sembra non esser fatta di persone. Vedo il verde, ho un numero che mi torna sempre in mente – chissà perché – è 180. La lucidità di ciò che c’è fuori mi consola, ma non mi rallegra; se potessi, ritornerei da dove sono venuto, anzi, ritornerei da dove sono venuto e ripartirei di nuovo alla volta dello stesso luogo in cui sono adesso, ma non per mezzo di un aereo che mi ha riportato indietro nel tempo di ventotto anni, bensì con un ordine di idee che colleghi il mio cuore a quello verde della natura, e che mi faccia vivere un’istituzionalità più civile, com’è oggi (oggi, per me, prima del viaggio) qui.
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