Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Renato Guttuso - Pathos espressionista trasfigurato nell'élan vital della Resistenza

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Un ottimo libro con le opere di Renato Guttuso, lo trovate qui.

Introduzione

Analizzare la produzione artistica di un pittore non è mai facile se si prescinde da quello che è il contesto completo delle opere poste in essere, senza limitare la trattazione ad un periodo determinato.
Perciò, parlare di Guttuso e limitare il discorso alle forme stilistiche del periodo fascista risulterebbe infruttuoso ed improduttivo senza considerare non solo il Guttuso maturo e attivamente coinvolto nella Resistenza e caratterizzato da uno stile neo-realista, ma anche la fase giovanile più prettamente realista.
Sarebbe azzardato, infatti, esulare i fatti di uno stil neo-caravaggesco, imperniati da vari contesti spazio-temporali che vanno dalla Sicilia natìa e passano dal periodo giovanile perugino e milanese, per approdare alla fase compiuta romana e bergamasca.
Va considerato, inoltre, come una maturazione stilistica sia di pari passo accompagnata da una compenetrante maturazione interiore, e come, per capire il neo-realismo post-fascista, sia necessario entrare nell’ottica dell’adesione del Maestro all’espressionismo, al cubismo, all’adesione mai convinta fino in fondo al futurismo fascista, ed estrensicando anche la fase acerba.
Affinchè il tema non risulti noiosamente imperniato su argomenti biografici, si è ritenuto opportuno analizzare per gradi quella che è la produzione significante di Guttuso, poiché si crede che il valore iconografico e simbolico di una composizione abbia in sé la quintessenza non solo delle visioni del mondo e delle idee dell’artista, ma vada oltre ed approdi ad anticipazioni di quello che sarà il modello futuro.
Si è fatto questo per mezzo esclusivo di testi che coinvolgano direttamente l’autore (come Primato) – o riguardino sue mostre -, esulando quella produzione scritta da terzi che non lo coinvolga personalmente, poiché l’adozione di un punto di vista terzo può straniare sempre la visione complessiva della realtà, senza capire appieno quella forza centripeta fra soggettivo ed oggettivo tanto cara all’autore.

Partendo da una prospettiva ermeneutica ed iconografica, e dal convincimento che il simbolo sia la quintessenza più profonda e più impermeabile di ciò che è detto e di ciò che non è esplicitamente esternato, si propone innanzitutto di analizzare il cambiamento di prospettiva di Renato Guttuso ante, durante e post il periodo fascista, attraverso l’analisi stilistica del suo linguaggio pittorico.
Non è un caso, infatti, che egli dopo essersi formato al liceo classico di Bagheria e poi presso la bottega di un pittore di carretti siciliano, a seguito del quale lavora nello studio di Pippo Rizzo che aveva rapporti precisi col futurismo, si ritrovi a Perugia nel 1932, su testimonianza del 1987 di Crispolti, ospite dei coniugi Brajo e Bettina Fuso. Invitato dal Soprintendente alle Belle Arti Achille Bertini Calosso per il restauro di dipinti, trova un ambiente ostile, in linea col carattere dei perugini, tanto da considerare i coniugi, di mentalità aperta grazie a quel salotto frequentato tra gli altri da Mafai, Argan, Ungaretti e Binazzi, “unico soffio di calda amicizia e di affetto sincero”. Il soggiorno segna una fase importante della sua maturazione artistica: non solo ha la concezione del “mestiere” di fare arte come “mistero” che nessun insegnante potrà mai spiegare (in riferimento all’osteggiato Arturo Checchi), ma nella fase del dopo-Perugia lascierà quel linguaggio non ancora omogeneo che si ritrova nel ritratto fatto a Bettina Fuso o quello per gli Oddi.
È nel contatto epistolare successivo che dimostra il nascere in lui dell’avanguardia futuristica, per mezzo di quella terza lettera inviata a Perugia e composta nella maniera classica del ’10: con le parole in libertà.
È in quella lettera che emerge anche la sua sensibilità verso un Dio elergente il dono della Fede e verso i problemi di trascendenza: l’anima è per lui qualcosa di molto presente e insostituibile con cose terrestri. Ciò non sarebbe importante se non lo si ricollegasse al suo importantissimo articolo, riguardante i Pensieri sulla pittura apparso in Primato il 15/08/1941 1, che illustra in maniera assolutamente non equivoca ciò che ha rappresentato nella sua fase matura, e in un contesto dove teoricamente non si sarebbe potuto esprimere liberamente, l’ ispirazione divina per il pittore.
Ispirazione da ricercare, da filtrare con sentimenti espressionistici che avrebbero portato ad un realismo di maniera, lasciando da parte quei tanti anni di pittura pavida, solo preoccupata a salvarsi da “ibridazioni” e “compromessi” con la vita; pittura che ad ogni costo ha voluto farsi una lingua e una grammatica astratte, senza capire che non ci sono lingua e grammatica valide e comprensibili se l’artista non le crea al primo atto della sua immaginazione.
Non è – per Guttuso – l’artista che deve obbedire al pubblico, ma l’esatto contrario: invece, le nuove leggi estetiche sono talmente strette e logiche e documentate e circostanziate, che ogni atto di coraggio, ogni libera azione creativa, ogni puro gesto della fantasia, diventa un delitto; una sorta di “maledetta rete” che uccide ogni attitudine fantastica posta dalla mano di Dio dentro di loro.
Gli uomini non sono disposti, di solito, ad accettare il gesto divino: neppure i geni perché, come tali, essi credono solo ai propri gesti; e se è vero che c’è più dramma in una natura morta di Morandi che in tutti gli affreschi pseudoeroici propagandati dal fascismo, è altrettanto vero che quella idolatria della qualità osteggiata dal pittore siciliano oppone l’espressività più strettamente plastica e inerente alla forma in sé dell’impressionismo.
Il tutto non è una questione divina, bensì di polemica contro una forma che abbatte il contenuto, un impressionismo sopravvalutato rispetto ad un espressionismo più vitale: un manierismo della sensualità, insomma, dove i dati sensibili dell’opera d’arte costruissero espressività allo stesso modo di un cubismo che destruttura la tensione formale (Cèzanne si stringe, si stringe poi si scompone), nella sua volontà di costruire una forma vivente non per similitudine, ma tramite una architettura di forme sgradite.
Cèzanne impiegò la sua vita alla ricostruzione di un linguaggio moderno, per la sua esigenza espressiva di uomo moderno; il cubismo acuisce il senso di questo dramma morale e pur cercando una più crudele aderenza coll’espressione e con la vita, si ingegna a distruggerne e a ricostruirne gli elementi, a scomporli e a riordinarli secondo un nuovo ordine, vuotando le singole forme.
Parlare di Cézanne non è andare fuori tema: è piuttosto capire il percorso ciclico di Gche apre e si Guttuso de allo stesso modo, e riassumibile nella nozione artistica circolare di realismo-futurismo/cubismo-neo-realismo, sempre sovrastata dalla idea espressionista.
Se la pittura moderna ha sentito l’esigenza di un linguaggio più libero e vivo per esprimere la condizione dell’uomo moderno, si è tuttavia tessuta una rete nella quale potrebbe restare perduta per sempre: la lotta, ci avverte il Nostro, è forma inevitabile della speranza umana, c’è il pericolo, cosciente o meno, che l’uomo entri in un ingranaggio che non è il suo, “edonista egli stesso, agisce per procurare piacere ad altri edonisti”, sia pure pochi altri, sia pure edonisti del cosidetto “piacere estetico”.
Perché un’opera viva, c’è bisogno che l’uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo: “un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata. Intendo dire che non è necessario per un pittore essere d’un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione”.
Questa testè citata è la colonna portante del pensiero guttusiano, che rivela già di per sé, nel contenuto filologico e semantico delle parole, quanto in lui che – ricordiamolo – scrive per una rivista fascista, ci sia di redente e quanto no.
Non sono importanti le noti biografiche, o il fatto che sia nato il 29 dicembre 1911 a Bagheria: sono ben più importanti i suoi “passaggi di stato”, che lo maturano stilisticamente, ma soprattutto e par excellence intellettualmente; durante il servizio militare fatto a Milano nel 1935 ha occasione di stringere grandi amicizie con artisti come Birolli, Sassu, Manzù, Fontana con cui dividerà lo studio, ed intellettuali come il poeta Salvatore Quasimodo, Raffaele de Grada, Elio Vittorini, il filosofo Antonio Banfi, Raffaele Carrieri, Edoardo Persico.
Già a questo punto, si nota come le opere di questi mesi superano e vanno al di là di quelle preoccupazioni reiterate di crescere in fretta e di autoapprendere, cercando maturità di linguaggio, che caratterizzavano la fase perugina, per approdare ad una fase ritrattista sen’altro più matura, che parte dal suo Autoritratto (1937) [fig. 1], per arrivare al Ritratto di Elio Vittorini (1942) [fig. 2] e al nuovo Autoritratto (1943) [fig. 3].
Malgrado queste amicizie, che saranno fondamentali per l'esperienza politica e culturale di Corrente, i tre anni del periodo milanese sono contrassegnati da una profonda depressione e tensione interna testimoniata dalle poesie scritte in quegli anni, causata probabilmente anche dalle durissime condizioni economiche che lo opprimono nel capoluogo lombardo.
Corrente di vita giovanile è il nome del quindicinale nato nel 1938 per iniziativa del pittore ed amico Ernesto Treccani, esperienza che si concluderà nel 1942, e sarà alimentata da una solidarietà umana che circola nelle opere senza alcun presupposto teorico o ideologico che serva a ricostituire un tessuto di rapporti tra artisti e collettività e dia voce a speranze che rischiavano di rimanere mute. Si tratta di un foglio che raccoglie le speranze di giovani artisti italiani e si pone come un balurado in difesa della libertà dell’arte contro la dittatura culturale. Sull’esempio degli espressionisti tedeschi e del Guernica di Picasso, questi artisti rinnovano un tipo di impegno politico e di critica sociale, negando l’idea di un’arte celebrativa e asservita, per una più coinvolgente azione espressiva. Ivi, gli artisti animano il dibattito intorno alle forme del realismo e dell’espressionismo, linguaggi scelti prer esprimere la loro appassionata rivolta artistica. I riferimenti culturali spaziano dal realismo francese dell’Ottocento all’espressionismo, passando per Van Gogh, i fauves, Picasso; sono attenti agli aspetti della vita quotidiana, ma il problema da loro più fortemente sentito è quello drammatico della guerra, rappresentato attraverso temi indiretti ma molto efficaci. “Questo è tempo di guerra e di massacri: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi”, scriverà Guttuso nel suo diario.
Tali influenze si staglieranno nelle opere del pittore anche di molto successive, come dimostrato da quel Van Gogh porta il suo orecchio tagliato al bordello di Arles, dipinto nel 1978 [fig. 4].
Certo è, che la maggiore influenza deriverà dall’amico Picasso, che ha conosciuto personalmente e con cui avrà un’amicizia per tutta la vita: si riconosce perfettamente nella sua alternanza della struttura autosufficiente, tanto da non considerare Guernica come un’opera di compilazione (da cui nascerà un dissidio con Birolli); anche se, come fa notare Cesare Brandi 2, il cubismo classico resta in Guttuso come spoglie erratiche, essendo morto da un pezzo: impugna la spazialità cubista senza imitarla.
Ed è proprio sulla “questione Picasso” che nasce il dissidio con Mazzafionda sul caso di Soffici 3: in tutte le sue esperienze Soffici – dice Guttuso -, sia in quelle impressioniste che in quelle cubiste o futuriste, c’è la medesima sordità rispetto alla fantasia e rispetto alla natura, anche se ammette che non sa spiegarne il motivo (“in fondo l’arte non può essere spiegata…”); per Mazzafionda, invece, fra i giovani e Soffici non sussiste un vero e proprio dissidio; è vero, come dice Guttuso, che la nuova pittura va verso un certo realismo, ma gli studi pittorici e gli esperimenti attuali del Guttuso intorno a Picasso hanno l’ambizione di fare “umano” Picasso, mentre si dimentica che il Soffici ha vissuto in mezzo alle faccende dell’arte europea dei primi anni del secolo, che di quest’arte ha veduto con i suoi occhi tutte le glorie e le miserie.
La nota espressionistica insita nel cubismo e l’espressionismo stesso lo porta a considerare come “il problema per un artista è solo quello di conoscere, e certo conoscere è trasformare. Il pittore dipenge le cose, non le idee”, e – continua - quando nei giovani si sente dire che è l’ora di Marx, tutto ciò è dichiaratamente ideologico: “in un artista, in un uomo cioè, c’è tutto: l’amore, gli amici, le sue letture, il cielo, l’infanzia, i viaggi, c’è il complesso mondo della sua esperienza. E se egli è uomo impegnato, responsabile civilmente di sé stesso, ciò si vedrà in tutto quel che fa”.
Il fatto di dover essere più comunicativi è fondamentale in Guttuso, considerato che per lui il pubblico non sono né gli amici, né gli addetti ai lavori, ma gli uomini; sebbene voglia eliminare del tutto la sua tendenza ad intervenire troppo soggettivamente, benchè anche agli antipodi, in tutti gli aspetti del formalismo, è implicita una tendenza autoritaria, avverte come “oggi si agisce per modificare quello che sembrava fatalmente essere lo sviluppo storico dei mezzi di produzione (…). Oggi non possiamo cavarcela dicendo che l’arte è in crisi perché la società è in crisi (…). La realtà muta, agisce per uscire dalla crisi: l’arte dovrà dare il suo contributo” 4.
Ricordiamo come le scoperte formali e le invenzioni sono sempre un modo di “dire cose”, di generare vita, o meglio, impulsi vitali, in richiamo, sempre onnipresente a quell’élan vital bergsoniano futurista, di cui il fascismo ne ha fatto bandiera, e che Guttuso, riprendendolo, l’ha però superato ed è andato oltre, guardando al neo-realismo espressionista e a coloro che di questo ne sono stati promotori, come Mafai, Pirandello, Rosai e Maccari, di cui ritroviamo sostanziali riferimenti nella stessa Primato.
Mafai 5, insieme ad Alicata e Trombadori, è uno degli amici di Roma: i rapporti di questa amicizia furono di “umana armonia” ma anche di “fronte” ( e Fronte si chiamò la rivista che Mafai, insieme a Scipione e Mazzacurati fondarono); e, in linea generale, gli antecedenti stilistici furono i medesimi, sebbene sin da principio indirizzati ad opposte conclusioni; lo stile era arcadico per Scipione con moventi fastosamente visionari e secenteschi nell’ordine di una nuova classicità disegnativa, e drammatico per Mafai, grazie all’analisi formale e alla plasticità delle opere. La sua efficienza drammatica deriva dal processo di raffinamento del colore-forma fino a raggiungere le più sottili e decadenti situazioni poetiche risalendo sino ad una sintesi morale. E Mafai, come Guttuso, è un pittore vivo che si rifiuta di accontentarsi di quel che accontenta i suoi ammiratori ed amici: non solo l’esperienza comunista rafforza i due, ma anche gli atteggiamenti rivolti al cubismo, considerato una chiarificazione, in senso mentale, dei valori architettonici e compositivi del disegno; espressione che viene a trascorrere il suo senso primo in quello di “cosa sensoriale” dato che la percezione del fatto plastico si appaga di una nuova, astratta, compiutezza formale, che resta nel campo puramente decorativo ed edonistico, ove non pervenga a realizzare un’apparizione, a esprimere un sentimento, a farsi cioè azione di poesia.
Il gioco del contorno è trasportato verso più emblematiche geometrie e in modo alternativamente rettilineo ed ellittico, mentre nel suo cammino la penna si appoggia a scavare la carta, poi si alleggerisce, poi gioca a filigranare o a irretire lo spazio con griglie, grovigli, geroglifici ed altre fantasie: queste mosse del segno sono tanto lontane dal divertimento quanto le sculture in fil di ferro di Picasso; un continuo tendere, quindi, all’espressione nello scaldarsi sempre più appassionato della emozione.
Anche la pittura di Fausto Pirandello 6 è di natura fantastica e segreta; il colore rientra in questo ingranaggio con funzione sussidiaria: non provoca, né tanto meno crea, né nasce con la forma; le figure di Pirandello si aggrumano nello spazio della pagina come elementi di un bassorilievo; niente ombre parlate, niente chiaroscuro; è il momento in cui il pittore dà mano a un’astratta e fantastica ricostruzione anatomica delle cose e dell’uomo e del quadro; questi straziati personaggi portano in giro la loro forma disumana; e ogni sua notazione apparentemente realistica è invece il segno di una setimentale necessità espressiva che conserva con la natura un rapporto puramente casuale.
C’è in Rosai 7 la stessa denuncia, come una feroce tristezza, un modo violento e perduto di scendere sulle cose, e tuttavia estatico, anche quando i suoi ritratti intorvano gli occhi, digrignano i denti o i nudi danno dell’anatomia del corpo umano una più intima nozione; il contatto col reale avviene in modo così violento e amoroso che gli elementi formali si innestano successivamente con un progredire poetico che fa pensare al Picasso della manière rosée, artista sempre presente nel retaggio della composizione stilistica. Il Rosai vero non è mai popolaresco né caricaturale: i suoi personaggi sono di carne umana prima di essere contadini o teppisti; appartengono cioè prima di tutto ad una più universale categoria prima di essere questo o quel mestiere.
Ma anche Maccari 8 è per Guttuso un disegnatore di cose segrete; sul suo “moralismo “ ci sarebbe da fare un lungo discorso, o perlomeno sulla sua attitudine a vedere le cose e gli uomini sotto due aspetti stabiliti: l’angelico e il diabolico, l’occhio del bene e l’occhio del male, il bello e il brutto. Per Maccari non c’è, tra queste due categorie della realtà, alcun punto intermedio, esse si oppongono irremissibilmente, in un modo cattolico di interpretare il peccato, che gli permette un’indagine concreta e reale escludendo ogni orrore puritano; c’è in Maccari il senso del Paradiso e dell’Inferno e il segreto pensiero della morte come condizione della vita: le ballerine, le prostitute, i gangster sono più dei disgraziati che dei colpevoli. Il disegno di Maccari è quindi più nell’ordine di una testimonianza che di una denuncia, dato che è tutto teso all’”espressione”.
E come al Nostro piace l’espressionismo maccariano, allo stesso modo Maccari elogia il (giovane) realismo guttusiano sin dal primo numero di Primato9, di colui che ha saputo opporre sul terreno concreto dei fatti una seria e nobile smentita al vaniloquio sulle presunte colpe e degenerazioni della nostra produzione artistica contemporanea. Anche per l’età (29 anni), Guttuso si trovava nel felice periodo durante il quale lo stile stava per nascere; i segni della sua imminenza si rivelavano sollecitati dalla personalità già piena e ricca, sempre più precisa se si confrontano le opere in ordine di data. “Pittore di buona razza e di talento sveglio” – ci fa sapere il Maccari – “quella di Guttuso è infatti una pittura che autorizza a parlare senza equivoci e senza circonluzioni della “pittura” come mestiere”: insomma, la vasta gamma di elementi guttusiano sono tutti in funzione pittorica.
Lo stesso Mino Rosi 10 parla dell’esordio di Guttuso come di un valido moto estetico, una prima maniera che implicava, da parte dell’artista, una necessaria ma transitoria adesione ai modi della pittura post-novecentista. Ma era evidente il fermento di una inquietante e intensa volontà polemica ulteriore: atteggiamento polemico rispetto ai canoni post-novecentisti ed ad ogni ricordo di museo, un inedito attraverso un linguaggio privo di schemi convenzionali, di compromessi di gusto e di accorgimenti gratuiti, e – soprattutto - una validità transitoria.
Il Guttuso ripercorre tutto il suo cammino per una necessità cartesiana di ricominciare, sostando stupefatto e attento all’insegnamento di Cèzanne e poi Picasso, riuscendo a liberare la pittura dai substrati post-impressionisti e neo-romantici, non pemrmettendo alla sua poetica soste stagnanti; egli crede nei suoi colori e respinge il preconcetto dell’idealizzazione della forma attraverso una retorica della pittura. Per incompatibilità di linguaggio si abbandona ad una drammatica polemica contrastante con ogni forma di compiacenza e di modo, che lo porterà ad essere uno dei prediletti di Bottai ma anche un redente convinto, in grado di far crollare tante torri d’avorio e tanti schemi del gusto.
E lo si vede nell’opera più significativa del periodo, la più discussa e apprezzata, ma allo stesso tempo anche denigrata, che rappresenta un continuum della fase realista e neo-cubista pre-fascista, attraverso quella futurista fascista, per approdare al neo-realsimo espressionista post-fascista.
La Crocefissione del 1940-41 [fig. 5] rappresenta in questo senso l’estensione del cavallo di Guernica, con una Maddalena nuda che urta fascismo imperante e pietismo ipocrita, e dopo il premio Bergamo del 1940 (creazione di Bottai) per Fuga dall’Etna, nel 1942 ha il secondo posto per quest’opera, molto apprezzata dal gerarca (e anche dal Mazzafionda) che la commenta in Primato come il superamento dell’astrattismo delle Nature morte per arrivare all’approdo dei miti umani, esigenza morale che per questo è stata premiata.
In effetti Mazzafionda nel Corriere delle arti del ’42 11 vuole un uso più casto del colore, non un abuso, che diventa in qualche giovane un vecchio gusto impressionistico complicato dalla improntitudine; in un “caramelloso, lumacoso mare di tinte e di accordi: in un’orgia di confetti e di gianduiotti”. E ritrova tutto ciò nella natura morta di Guttuso Tavola sedia gabbia e finestra che però è del 1937 [fig. 6] che è “troppo intelligente e sa troppo bene come la pensiamo, per aspettarsi una lode ditirambica di quel suo quadro; e che cosa c’entra poi quel fiasco, quella sedia? Si capisce, un bell’impegno; e gli spicchi del tavolo con la salvietta e la sega, la bottiglia verde etc., sono parti assai belle. Ma ci sono problemi di forma”.
Ma la Crocefissione è diversa: per Cesare Brandi sarà la “prima miccia degli italiani contro il fascismo”, mentre il Corriere della Sera l’attacca accusandola di essere blasfema, allo stesso modo dell’Osservatore Romano che rileva l’ignobilia della Maddalena nuda e pentita. In Mostre e mostri 12 l’Autorità ecclesiastica è intervenuta con severissime censure, “orrenda e oscura figurazione, che non ha simigliante nemmeno fra gli schemi e le bestemmie illustrate che la famigerata Lega degli Atei, andava ponendo insieme in certe sue mostre relligiose”, “inqualificabile offesa alla religione, alla decenza, all’arte, alla cristiana gentilezza della città di Bergamo”, mentre in Deposizione 13 la vede come una frana e una disaggregazione dell’arte e dell’Insegnamento dell’arte, cioè dello stesso mestiere che è la prima condizione d’ogni arte. Gli artisti vengono perdendo - per il quotidiano - non solo il sentimento, ma anche la passione necessaria all’arte sacra, e sovente la stessa capacità di dipingere. Ma quel raffronto col ricordo di Raffaello e di quel suo Cristo morto ed esangue portato di peso dai suoi fedelissimi verso la Madonna svenuta non tiene: i tempi e la maturità artistica sono diversi, ma diverso è anche il commitente, di parte per il secondo, un po’ meno per il Guttuso redente.
Vi sono però motivi meno sentimentali e familiari per difendere il pittore dalle critiche ecclesiastiche: in un discorso al direttorio del PNF il 3 gennaio 1942 Mussolini aveva sferrato un potente attacco al mondo cattolico, accusato di essere poco partecipe allo spirito della guerra. Da quel momento ogni occasione è buona per rivendicare la libertà del dogma ecclesiastico e la difesa della libertà dell’arte rientra in questo gioco.
A testimoniarlo anche quei Tetti di Roma del 1942 [fig. 7] in cui il primo piano è occupato principalmente dalla romanità delle case e solo lo sfondo dalla Cappella Sistina, simbolo della cattolicità, relegata, emerginata ed offuscata da tutto il resto. Posizione che ritornerà anche ne I funerali di Togliatti (1972) [fig. 19], opera analizzata in seguito.
Nel Diario di Guttuso la sua opera è il “simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee”: personalità talmente affermata da passare indenne alle polemiche fasciste e clericali.
Il Guernica di Picasso è momento di fratellanza ecumenica, in un dolore tutt’altro che rassegnato e cattolico: in questo la Crocifissione racchiude tutti i colori del pathos che Picasso ha escluso nella determinazione di Guernica: mani tremanti, piani sfaccettati, colori incastonati come preziose gemme di sudore, sangue, pallori e lividori di morte; inoltre gli oggetti in primo piano sono i simboli della passione ma riferiti alla contemporaneità.
Dopo la Crocefissione, la gittata di spazio si amplifica e inizia l’articolata viabilità di piani, tagli spessi come masselli, melma cromatica: altissimo e dominante è il registro della luce, regolato dai sottotoni dell’ombra con un rosso che non è più sangue ma fiamma incorporata, quasi a simboleggiare con la luce la ri-nascita dalle tenebre fasciste.
Il caso di Guttuso viene visto come necessità di libertà totale dell’arte e viene addirittura confrontato con quello di Caravaggio, considerato erronemaente blasfemo per l’audacia dei temi trattati, e dalla Crocefissione al 1953 si apre il periodo di maggior libertà del modello, in cui si sviluppa una duttilità di immaginazione atemporale. Lo stesso Valsecchi interviene per la non chiusura della mostra, mentre Crispolti rileva la volontà affermativa e contestativa dell’opera, il suo riscaldamento di tensione e retorica al rovescio, la frizione culturale e demitizzante col fascismo.
Non c’è da stupirsi, comunque se Guttuso prende a modello, si ispira e ammira il Caravaggio, che vede con grande passione creativa, senso acuto della fruizione culturale che gli impediva tentennamenti e dispersioni, e dotato di quella straordinaria arma creativa e di rinnovamento che è il dipingere frutta e fiori, come a voler affermare nuovi contenuti e forme: pittura stretta alle cose reali, nata dall’osservazione inalienata del reale. C’è in lui una conoscenza della realtà e non concetti filosofici: “dalle cose si sprigiona il presente, il suono, la nuova condizione umana, i nuovi concreti rapporti tra gli uomini e degli uomini con le cose e la storia”, oltre che ad essere presente quella tesi rivoluzionaria che è lo smantellamento delle gerarchie dei temi: più idonea ad accostare la verità, a scrostarla da miti, ideologie e falso decoro, che per Caravaggio potevano essere i fasti baroccheggianti di fine ‘500 o i temi pittori classici di matrice papalina, mentre per Guttuso i falsi miti fascisti.
Non si tratta di arte plebea o popolare ma deriva da una profonda conoscenza artistica, culturale e storica: infatti, “i suoi personaggi mitologici e (…) i suoi santi non scenederanno nel suo studio da nessun Olimpo (…): saranno gli uomini con i quali aveva commercio di giovinezza e di vita”, contro le inutili leggi accademiche della composizione.
In questo la Vocazione di S. Matteo è per Guttuso esemplare: uno dei dipinti chiave della storia dell’arte che determina lo “scoppio” del Caravaggio, in cui Matteo non ha né decoro né aspetto di santo, gambe accavallate e piedi rozzamente esposti al popolo.
Ma l’Opera, la maggiore, non può esularsi dal contesto in cui è inscritta, e Guttuso arriva ad essa per fasi: superando le fasi giovanili siciliana, perugina e milanese, che lo formeranno, è Fuga dall’Etna (1938-39) [fig. 8] che rappresenta il primo aggregato criptico antifascista.
In contrasto con la pittura dei valori plastici e allo stesso tempo con il suo retour à l’ordre finiva per essere in sintonia col regime, il colore rosso e il sangue “nero come il carbonchio” sono lo specchio della violenza fascista, “il pittore che è agito dalla sua terra, percorso da un fuoco che, come per l’Etna, sale dalla terra, ed è ardore, malore, pittura” (Cesare Brandi). Picasso, insomma, non agisce in modo servile, ma dirompente, aiuta all’artista ad avere coscienza di sé; la critica, con Piovene e seppure con riserve, riconosce il valore dell’opera: l’inspiegabile e inespressivo terrore, la precisazione dei campi attraverso il colore crudo e il disegno tagliente, il temperamento genuinamente drammatico; il moto comunicativo verso avanti, si trasforma in avanzata violenta, paesaggio denso, passaggio dal semplice al complesso e dal privato al pubblico, dalla figura unica e in posa all’assembramento; riprende il suo amato Caravaggio quando lascia la figura isolata per passare alla azione, alla moltiplicazione, al dramma; e apre anche due diagonali a ventaglio verso l’osservatore.
In fin dei conti, Guttuso deve toccare terra: all’inizio la sua Sicilia e i suoi carretti, poi tutto il resto con un realismo concezionale che è l’unica cosa che lega le sue opere, perché non si identifica con un determinato stile.
Nonostante non sia pittore del plein air i suoi dipinti ignorano l’atmosfera e, sebbene, i suoi ritratti non siano le cose più belle (si veda quello di Vittorini o gli autoritratti), Guttuso bambino cerca la massima fedeltà al modello.
Anticipatorie del modello guttusiano vero e proprio degli anni ’40 sono però le opere che vanno dal 35° al 45° anno del XX secolo: Tavola sedia gabbia e finestra del 1937 [fig. 6] né è un esempio, poiché è uno dei quadri tipici del periodo Corrente: aggressività del colore e tensione degli oggetti riflettono il senso della tragedia sul mondo sconvolto della guerra, a comiciare da quella spagnola.
Fucilazione in campagna del 1939 [fig. 9] rappresenta in questo l’apoteosi perché riprende il Goya de Las fucilationes, con un’identificazione profonda della cultura con la vita e perfezionata con l’intuizione: “A Milano conobbi Venturini e abitammo per due stagioni nella stessa pensioncina a Bocca di Magra: lui, alllora, era un corriere del P.C.I., viaggiava con la valigia piena di manifesti e di stampa clandestina, correva l’Italia e scriveva Conversazione in Sicilia. Fu sulla scia di quel libro rivoluzionario e riecheggiandone il titolo, che dipinsi la mia Fucilazione in campagna, dedicata alla morte di Garcia Lorca, ucciso in quegli anni dai fascisti spagnoli”.
Il bucranio della Natura morta con lampada (1940) [fig. 10] era il segno della Spagna e della Resistenza, della morte inferta che recava in sé la fuggente ribellione alla vita, che diventa teschio ne La piana di Bagheria (1966) [fig. 11], sempre simbolo di morte, ma compensato da quello slancio vitale proveniente dalla terra, dal realismo, e in fin dei conti dalla liberazione del fascismo, che è dato dal pregnante sapore della vita dei limoni.
E non è sprecato quel paragone ad Ecce homo di Calvesi.
Gli anni che vanno dal 1937 al 1939 sono gli anni tra i più importanti della vita di Guttuso: si trasferisce definitivamente a Roma, i suoi studi saranno spesso al centro di sue composizioni pittoriche e diverranno uno dei centri intellettuali più vivaci ed interessanti della vita culturale della capitale. In questi anni nasceranno le amicizie con Moravia, Antonello Trombadori e Mario Alicata che avranno un ruolo determinante nella sua adesione al Partito Comunista, nel quale si iscriverà nel 1940.
È chiaro che Guttuso viene dalla fucina dei Littorali, soprattutto quelli del 1937 di Napoli, dove si è classificato al secondo posto per la critica d’arte e ben posizionato per il concorso di pittura.
Come spiegava Zincone in Critica fascista, i giovani che si mettevano in luce nel Littorali “venivano subito utilizzati in incarichi a carattere nazionale, spesso depauperando la periferia di elementi che sarebbero stati preziosi” 14: assicuravano una “riserva di energie alla classe dirigente e allo stesso tempo l’enfasi retorica della cerimonia della premiazione aveva il sapore di un’iniziazione” 15. In alcuni convegni, soprattutto artistici, si verificarono dissensi anche aspri tra i partecipanti e i commissari, all’origine dei quali vi era però spesso l’impressione dei giovani che i maestri non rispondessero alle esigenze imposte all’arte dal clima rinnovato della “rivoluzione” fascista.
La partecipazione ai Littorali offriva numerosi vantaggi, non solo nella prospettiva di futuri impieghi presso ministerie gerarchi, ma anche durante lo stesso corso degli studi, tanto che il Ministero dell’Eduazione Nazionale sollecitava i docenti a tener conto nel voto di laurea dei risultati conseguiti ai Littorali.
Guttuso fa risalire la sua scelta antifascista agli anni della collaborazione a Corrente, e quando il servizio militare lo porta a Milano, è il momento di una presa di coscienza di fronte alla degradazione politico-sociale e intellettuale della vita artistica italiana.
Alicata parlerà dello studio romano di Guttuso come di un vero e proprio “centro di ritrovo”, adibito alla stampa della propaganda clandestina contro la guerra fascista. E con l’inizio della guerra si consolida infatti la coscienza antifascista del pittore in una linea coerente che lega antifascismo e naturalismo di maniera in campo stilistico.
Guttuso scrive in Primato con dovizia di interventi a differenza di altri redenti attivisti nella successiva lotta di liberazione (come Trombadori) che hanno un ruolo più defilato.
Il numero del 1 giugno 1941 è l’adesione formale di Guttuso all’antifascismo per via dell’importante copertina di Primato raffigurante Un bombardamento in città [fig. 12]: si tratta di un disegno speciale, e la rivista sottolinea come egli deve essere preso a modello nella rappresentazione della guerra fascista poiché esalta i moderni miti militaristi e la volontà bellica della nazione.
I disegni e le illustrazioni presenti in Primato sono vari e numerosi: tale varietà è dimostrata dai vari temi rappresentati, dal classico tema della guerra e dei miti moderni (calessi e paracaduti) [figg. 13 e 14], al tema familiare e del modello patri-matriarcale allargato [fig. 15]; e ancora: rappresentazione equina come volontà di potenza [fig. 16].
Quello che colpisce in tutte le rappresentazioni in Primato è il tipico tratto di transizione guttusiano: transizione da uno stile simil-futursita ad uno più maturo neorealista, ma soprattutto fase temporanea di passaggio da uno stato mentale dell’essere giovanile portante idee sinistroidi acerbe fino ad arrivare alla riflessione più matura del Fronte e dell’desione alla Resistenza con idee apertamente di sinistra.
Ed i tratti sfuocati, quasi velati, sembrano celare, nel momento di disvelare, quello che l’apparenza può per certi versi sottacere.
Il 15 maggio 1940 Guttuso non solo elogia i pre-Littorali di Roma per via della “libera competizione”, ma valuta come una scultura di gran valore quella di Biggi, evidenziandone la nostalgia dei gesti fascisti della prima ora riguardanti i tragici fatti di Sarzana del luglio 1921 avvenuti tra socialisti e fascisti. Glorificando quel culto dei morti che caratterizza la mitologia fascista, rileva che lo scultore ha contenuto la commozione in una giusta dose e saputo superare ogni eccesso di retorica.
Ma il rievocare uno delgli episodi più drammatici dello squadrismo non è casuale: è un monito al ricordo del martirio degli squadristi da mantenere vivo nella memoria dei giovani. La celebrazione di tali azioni eroiche avviene proprio nel momento in cui prende avvio quella complessa operazione culturale di pedagogia di massa per i giovani italiani: si cercherà di alimentare nella gioventù il desiderio di emulare l’eroismo delle prime milizie fasciste. Quanto poi Guttuso fosse convinto di ciò è tutto da dimostrare, anche se un certo spirito patriottico tagliava trasversalmente l’Italia del tempo.
Ad ogni modo per Guttuso la vita non è facile per via delle continue perquisizioni e irruzioni, tanto che Alicata, tratto in arresto, gli consiglia di lasciare Roma: si rifugerà presso Quarto dall’amico pittore Dalla Ragione, continuando a collaborare alla rivista fino alla fine grazie alle sovvenzioni di Bottai.
É solo dopo il 25 luglio che gli equivoci si dileguano: Guttuso rientra a Roma in rappresentanza del Partito Comunista e partecipando al Comitato di accoglienza per gli antifascisti confinati, non solo produce un altro Autoritratto (1943) [fig. 3], quasi a simboleggiare il cambiamento non solo esterno, bensì anche interno à lui même, e dunque una rinascita imminente e al contempo remota, ma immola nottetempo quelle Fosse Ardeatine (1944) [fig. 17] che amplificano quel passaggio di stato d’essere fino a contrapporsi – direttamente o indirettamente – a quell’elogio dei fatti di Sarzana percedentemente raccontato.
L’apologia della Resistenza de Il pugno chiuso (1946) [fig. 18], questa sì vista come slancio vitale bergsoniano che travalica il futurismo, è data dalla serie di disegni di Gott mit Uns (letteralmente: “Dio è con noi”) del 1944 [fig. 19]: della lotta partigiana ha lasciato una struggente testimonianza artistica con inchiostri delle tipografie clandestine.
Trombadori ne riconosce il tema umano con compiutezza poetica, l’universalità simbolica, il saggio realismo psicologico: non esiste particolare studio di singoli atteggiamenti e fisionomie, ma il tutto si puntualilzza nelle figure e nel volto dei carnefici, il fuoco della visione è nelle masse degli oppressi che rivelano un epico trasporto.
Guttuso nell’immediato dopo guerra aveva accentuato la scomposizione delle forme fino a giungere all’eliminazione della prospettiva, mentre il suo impegno politico gli ispira temi di carattere sociale realizzati con una violenta carica espressionista. È negli anni seguenti che continua il suo interesse verso le forme del reale, per trasformarsi in un linguaggio ancora fortemente plastico ma scevro da spinte emotive, da cui rifuggirà sempre con maggior vigore.
La derivazione picassiana è comunque sempre evidente anche se accompagnata da una volontà di figurazione semplice e immedita. Dopo il 1945 il gallerista Cairola fonda, assieme ad alcuni artisti ed amici tra i quali Birolli, Vedova, Marchiori, il movimento Fronte Nuovo delle Arti, un raggruppamento di artisti molto impegnato politicamente con l'obiettivo di recuperare le esperienze artistiche europee che a causa del fascismo erano poco conosciute in Italia.Riprendono in Guttuso con vigore i temi sociali e di vita quotidiana: picconieri della pietra dell'Aspra, zolfatari, cucitrici, manifestazioni di contadini per l'occupazione delle terre incolte, la lotta partigiana contro le truppe tedesche, tanto da ottenere a Varsavia, nel 1950, il premio del Consiglio Mondiale per la Pace.
L’opera che coeteris paribus racchiude quello che è stato Guttuso, lo sintetizza, lo svela e lo racconta in tutti i suoi punti di vista, stilistici, emotivi e morali, e che per sua natura è di molto seguente al periodo fascista, è senz’altro quei Funerali di Togliatti del 1972 [fig. 20].
L’intento celebrativo è implicito nel soggetto, e ciò che più colpisce è la novità e l’audacia della concezione: il quadro è infatti concepito come un grande disegno acquarellato, dove l’elemento caratterizzante non è il rosso delle bandiere ma il bianco delle 144 (centoquarantaquattro!) teste diegnate (invece che dipinte), un bianco che alleggerisce il significato del quadro e trasforma la scena in qualcosa d’irreale. Era un’idea inseguita da tempo (estate 1965, anno della morte) e realizzata da Guttuso sette anni dopo, in seguito a numerosi tentativi. Visto da principio come un quadrato di due metri per due, si è trasforrmato in un enorme rettangolo di quattro metri e quaranta per tre e trenta, per “crescere come la plastica in espansione”, dal rosso delle bandiere, dai colori violenti dei fiori, gli stessi del tramonto romano che domina la composizione. I centoquarantaquattro volti sono stati studiati uno ad uno, tramite fotografie ingigantite da proiettori per scavare nell’intimità dei personaggi: compaiono Neruda, Quasimodo, Sartre, Eduardo De Filippo, Di Vittorio, Elio Vittorini, Gramsci, Stalin, Luchino Visconti, Brznev, Nilde Jotti. Non compare Kruscev su precisa scelta di Guttuso perché fra loro non c’era discorso né affinità di cultura.
Tale dovizia stilistica dimostra più di ogni altra cosa l’attaccamento ai valori della Resistenza e al P.C.I. da buon redente del Ventennio.
Il suo è anche un discorso emblematico: compare cinque volte Lenin, da giovane, da vecchio, di mezza età, riscoperto da una iconografia rituale e popolare. Compare anche, con determinazione, Roma: non il Cupolone per ragioni ideologiche , le stesse di Tetti di Roma, e nemmeno il Colosseo che appare scarnificato a in alto a sinistra, ma il tramonto, il colore, l’aria, le nuvole.
Detto questo, appare evidente che se lo si chiama “pittore di Bagheria” si limita la sua portata europea, poiché oltre al suo ricorrente richiamo a oggetti e fatti intensamente vissuti, “egli non misura le sue sensazioni come Monet sull’orologio della Cattedrale di Rouen” 16.
I motivi del mutare della visione pittorica originaria siciliana sono legati al crescere delle esperienze e delle vicende del mondo: questo “avvalersi” della vista, questo travaglio del vedere come riflesso profondo del sentire e del pensare, era partito da posizioni ancora naturalistiche, anche per via di quell’indirizzo essenzialmente laico della cultura bagherese, non ancora del tutto omologata dal fascismo, rappresentata dal nonno Ciro, combattente garibaldino, repubblicano e libero pensatore.
L’opera giovanile Il palinuro, effettuata dopo la partecipazione alla I Quadriannale a Roma celebra l’affermazione siciliana, così come la Famiglia nell’aranceto (1937) [fig. 21], giardini di terre non ancora corrotti dal fascismo e, dunque, “paradisiaci”.
La pittura non deve essere patrimonio esclusivo della borghesia e degli intellettuali, ma un “patrimonio di tutti”, espressione autentica della vita e della lotta del popolo: nel post-fascismo il linguaggio si è sciolto in larga comunicatività, dopo la violenza e il terrore, trasposto stilisticamente in più piani tagliati e corpi armonicamente scanditi, costruiti su segni forti, a testimoniare che la libertà del segno è anche libretà fisica in generale, e individuale in particolare.
La libera elaborazione della sintassi cubista fa sì che il Guttuso si lasci andare, dopo la rottura del Fronte, ad una più diretta aderenza ad una realtà fisica e storica, mentre prima le nature morte prevalevano su corpi e fatti o paesaggi.
In questo senso, sono significative le opinioni rilasciate da studiosi famosi in occasione della Mostra di Venezia del 4 aprile-20 giugno 1982 17.
Mauro Valeri Manera parla della sua irrefrenabile voglia creativa e dei suoi slanci di generosità, ma soprattutto del suo impegno politico da cui dissenta ma che rispetta. I suoi scatti d’ira tradiscono sensibilità, fede, dedizione appassionata ad una continua battaglia ideale.
Cesare Brandi, invece, parla di un realismo guttusiano che risulta dal filtro dell’intelligenza, che non parte senz’altro da una forma preconcetta neppure nei momenti più espressionistici o cubisti, non impone una forma all’immagine, e anche quando si appropria di immagini di Durer, Michelangelo o Leonardo, non le forza mai, come non viene influenzato da quella ammirazione per De Chirico o per Morandi. In questo, il vero fatto fondamentale è che il suo realismo non è mai socialista e la sua fede comunista non influenza la pittura: le sue nature morte non illudono certo ad una realtà fisica al di là della tela, e al tempo stesso la suprema padronanza del mezzo espressivo non fa notare la discontinuità del passaggio dal monocromo al colore: si vedano I Funerali di Togliatti, dove il colore dichiarato delle bandiere rosse è forza espressiva senza nessuna forzatura di marcia trionfale.
Realismo ed espressionismo di protesta, incitamento, apologia, epica di affermazione vitale, sono per Maurizio Calvesi quei segnali di protesta contro le imbalsamazioni e le retoriche del ‘900. È come se la figura prendesse corpo nello scarto tra aspettativa e realtà, in questo assestarsi tra tempo lungo della memoria e tempo improvviso dell’apparizione.
La guerra di Spagna e la Seconda Guerra Mondiale caricano ancor di più la pittura di Guttuso di espressionismo e catastrofiche metafore, fino al Gott mit Uns, sommovimento squassante e ossessivo che infrange gli schemi della classicità coadiuvato dal dramma post-guerra con Delacroix e la sua Libertà che guida il popolo.
La comunicazione e la frontalità dei suoi ritratti rimarrà anche nei non-ritratti e l’epifania dell’immaginazione è l’epifania della realtà: non fa che rispecchiarne e dominarne gli impulsi violenti, l’animazione irrequieta, non distinzione fra cose animate e inanimate, quasi fossero un’unica manifestazione dell’esistente.
Trasmuta anche la distinzione del Maccari fra bene e male: male è la liberazione della furia e del dionisiaco dalla ragione e dal sentimento; il bene nasce, invece, dalla loro attrazione e mitigazione per soddisfare l’urgenza vitale, incontro trasfigurante che dà luogo al pathos.
La parentesi neo-cubista degli anni ’40 è, infatti ed in realtà, una ricapitolazione linguistica dove ritornano con forza quei piani che simboleggiano le diverse forme exoteriche dell’esistenza e colori forti a rappresentare passaggi di stato emozionali: lentamente si smorzano i rossi in rosa, non per anemia ma per sottile rapimento e fanno il gioco i diversi gradi di angolazione che richiamano ancora una volta quella prospettiva in diagonale caravaggesca.
Successivamente prevale l’informal, l’informe, dunque le successive nature morte, che, ricordiamolo, difficilmente caratterizzano il periodo di Primato, quello in media res.
Gli articoli di Guttuso in Primato sono una critica quasi professionale, che si pongono a latere dell’attività di pittore, ma che confermano notevole capacità d’orientamento, in anticipo sui tempi, prorpio in accordo con lo scopo della rivista e cioè in sostanza di Bottai: “il problema non è quello di trasformare lo scrittore in soldato ma quello di alimentare la cultura adatta per un paese che è tra le grandi potenze e che deve vincere, dal momento che la vittoria non sarà il frutto esclusivo delle armi, ma anche delle forze della cultura” 18.
Ciò che non perderà mai è quella mancanza di preclusioni ideologiche, che lo porterà a crirticare perfino il suo stesso espressionismo, prendendo le distanze dal sé stesso acerbo in favore di una violenza “delle” cose, piuttosto che “sulle” cose: “io non sono violento, sento in me un grande amore del mondo che, per un pittore, deve essere anche amore di pittura. Eppure mi sono espresso prevalentemente in forme violente. Ciò era dovuto al fatto che non valutavo giustamente possibilità e tempi, e mi lasciavo trascinare dalla speranza e dalla impazienza” 19.
Fa un appello ai giovani affinchè non abbiano paura della pittura, affermando che pittura e riflessione critica non sono indipendenti, bensì compenentranti: l’arte come raffigurazione e testimonianza della realtà è diventerebbe così un mono-moto di pittura-critica patrimonio di tutti e simbiosi perfetta.
È in questo contesto che si colloca il celeberrimo articolo di Primato del 15/8/41 Pensieri sulla pittura: Guttuso scava a fondo sul problema della funzione dell’artista di fronte all’eccezionalità della situazione, che in questo caso, al pari degli intellettuali non deve chiudersi nella forma e staccarsi in un ritmo metafisico che segue – anziché preparare e costruire – il ritmo della civiltà; il pittore non deve soggiacere alla collera per una civiltà senza progresso che occorre rifare, come invece fa l’arte moderna.
È proprio da questa critica dell’esterno, dell’arte moderna, che parte per conoscere sé stesso e migliorarsi, per avere giusto nutrimento: “la pittura non è un concetto, né una idea, né una religione, neppure una stanza immunizzata da ogni umano batterio, una cella dove non entrano rumori di mondo, sangue, amici, amore, rissa” 20.
La memoria è il nostro vero spazio in cui agire, strumento di ricognizione del proprio presente: l’atto del dipingere è spesso caratterizzato dalla paura degli altri e di sé stessi, dell’oggetto come oggetto, paura di essere alla moda e di esserne fuori.
Ebbene, Guttuso destruttura questa paura, destruttura la moda e con essa sé stesso: dipingere può significare dar concretezza e identificazione al proprio arbitrio, sino ad arrivare alla totale libertà in arte, libertà che, come nella vita, consiste nella verità.
Tenendosi fuori dalle convenzioni, struttura nuovi valori, questa volta senza miti, poiché il mistero – quello vero - è nella ruotine, spesso nell’arte povera, senz’altro nella rottura con l’accademismo, nel richiamo al richiamo al semplice, elemento banale ma primario.
Ciò che permea il pensiero guttusiano è il voler che l’arte, come la cultura, non sia in funzione delle classi dominanti, ma deve essere intermittente e portare con sé esplorazioni particolari, parziali, per tendere ad una “unità dialettica tra fattore soggettivo e fattore oggettivo”, quasi richiamando quel principio di armonia dell’Uno insito nella filosofia orientale taostista.
E questo non è certo un pensiero anti-borghese o socialista.
Tutt’al più questo fa verificare un nuovo vuoto per problemi linguistici, ma se è vero – com’è vero - che è dal vuoto che si crea la materia, la soddisfazione diventa un tratto anarchico: l’apertura semantica non può essere una fisicizzazione vitalistica, ma mentalistica, che porta a prodotti estetici dove però soggettivazione e oggettivazione non alienano ma ottengono quel rimedio che è l’umanizzazione del rapporto uomo-oggetto, di cui aveva già parlato, filosoficamente, Marx.
“Il problema arte-vita è già oggi, e qui, un problema rivoluzionario”, ci dice il Nostro, di volontaristiche imprese dove l’arte deve essere perciò uno dei mezzi di unificazione tra lavoro intellettuale e manuale, che non può più chiamarsi lavoro ma mestiere.
Come dice Feuerbach non si tratta di interpretare il mondo, ma di trasformarlo senza pensare per generazioni, poiché si impedirebbe la formulazione di un giudizio obiettivo sui fatti e sulle opere, mettendo in luce soprattutto significati e valori provvisori, mai definitivi.
Il giudizio di Guttuso è critico anche coi movimenti d’avanguaradia del ’10 e del ’20, sebbene lui sia nato nel e col futurismo, e vi cresca, è critico col carattere accademico della cultura italiana e col suo distacco aristocratico dalla vita e dal popolo: la fedeltà alla cultura e l’ermetismo erano automaticamente giudicati come antifascismo.
Il maestro non si dimentica però che i libri di lettura erano quelli di Croce o di Longhi, l’unico storico dell’arte che vedesse gli antichi con occhio contemporaneo, nonostante le forti suggestioni futuriste avute da Boccioni e Carrà.
Quando nel 1938 Brandi invia una cartolina a Guttuso con la riproduzione di Guernica, lui la terrà come tessera ideale di un partito ideale: le più audaci esperienze di avanguardia dopo il futurismo, furono quelle dei movimenti giovanili 1939-45, con giovani che non si chiusero nel loro guscio, anche se contrastati dalla linea morandiana. Da loro si enucleò il movimento realista del dopoguerra, successivamente alla decandenza di quello avanguardista, ripensamento inteso dai cenacoli degli artisti ma anche dai gruppi di direzione politica.
Anche se la pressione astrattista, del non-oggetto, la propaganda statunitense, e la fregola cosmopolita dei critici d’arte del periodo in parte gli furono ostili: arriverà ad affermare, infatti, che “il successo e la diffusione della’arte astratta non è un caso, né soltanto una pura operazione marcantile”, e che “senza una concreta prospettiva ideale ed ideologica, senza l’obiettivo del socialismo, cioè di un mondo rinnovato nelle strutture, la sola soluzione che rimane aperta è l’arte astratta”.
Guttuso non ha mai nascosto la sua fede comunista, questo va detto chiaramente. Ma va detto anche che, nonostante tutto, ha sempre parlato e agito con lo scopo di migliorarsi, e questo fa di lui un artista da rispettare, senza scivolare in assurde pretese utopistiche o romantiche.
“Delle idee socialiste non se ne può fare a meno” – dirà – “anche se a contrastarle c’è il liberalismo dell’avversario”: l’arte per lui non può essere di tipo liberale perché entrerebbe (ed entra!) in una rete ideologica ed economica, come tenta di fare la stessa arte astratta, perdendo quello slancio, quell’élan vital ideologico, filosofico e scientifico.
La realtà deve servire a dimostrare il trapasso dell’Informale dadaista, tanto che per lo stesso Brandi il surrealismo e il dada sono fronde e Otto Dix è l’esempio di anti-avanguardia del realismo socialista, quel realismo post e ante le avanguardie che si colloca in una prospettiva anti-informalistica.
Nemico di ambedue – avanguardie e realismo - era il provinciale cosmopolitismo italiano della Fronda all’interno del Fronte Nuovo nata successivamente al 1948. A sostegno finale del discorso che Guttuso sia un antifascista di maniera ma non impronti il suo discorso esclusivamente ed elusivamente sul socialismo, che significherebbe solo retorica e stasi stilistica e morale, c’è la sua affermazione della Pop-art come realista: benché tacciata di “irrealismo capitalista pubblicitario” da altri, al fondo di tutto c’è per Guttuso il ritorno all’oggetto.
Espressionista fino in fondo, dunque, col collante centripeto di un’armonia fra soggetto ed oggetto, alla maniera dantesca:

“Non perché più d’un semplice sembiante
fosse vivo nel lume ch’io mirava
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardavo, una sola parvenza
mutandom’io a me si travagliava”


Opere analizzate:
Disegni e Illustrazioni in Primato, dal 1 marzo 1940 al 15 luglio 1943
Autoritratto, 1936
Famiglia nell’aranceto, 1937
Tavola sedia gabbia e finestra, 1937
Fuga dall’Etna, 1938-39 (Premio Bergamo 1940)
Fucilazione in campagna, 1939
Autoritratto, 1940
Veduta romana, 1940
Natura morta con lampada, 1940
Un bombardamento in città, 1940
Crocifissione, 1940-41
Tetti di Roma, 1942
Ritratto di Elio Vittorini, 1942
Autoritratto, 1943
Gott mit Uns, 1944
Le fosse ardeatine, 1944
Il pugno chiuso, 1946
La piana di Bagheria, 1966
Funerali di Togliatti, 1972
Van Gogh porta il suo orecchio tagliato al bordello di Arles, 1978


Note:

1 Renato Guttuso, Pensieri sulla pittura, in Primato, anno 2 numero 16 del 15/8/41, pp. 21-22
2 Guttuso – Opere dal 1931 al 1981, Sansoni Editore, 1982
3 Mazzafionda, in Primato, anno 2 numero 17 del 1/9/41, p. 20
4 Mestiere di pittore. Scritti sull’arte e sulla società, Renato Guttuso, De Donato, 1972
5 Renato Guttuso, Nota a Mafai, in Primato, anno 1 numero 13 del 1/9/40
6 Renato Guttuso, Una mostra di Pirandello, in Primato, pp. 18-19
7 Renato Guttuso, Appunti su Rosai, in Primato, anno 1 numero 11 del 1/8/40, p. 20
8 Renato Guttuso, Su Mino Maccari, in Primato, p.18
9 Mino Maccari, Sei giovani, in Primato, anno 1 numero 1 del 1/3/40, p. 22
10 Mino Rosi, Nota a Guttuso, in Primato, anno 3 numero 4 del 15/4/42, p.168
11 Mazzafionda, Corriere delle arti, in Primato, anno 3 numero 10 del 15/5/42, p. 206
12 Mostre e mostri, in l’Osservatore Romano, anno 82 numero 219 del 20/9/1942
13 Deposizione, in l’Osservatore Romano, anno 82 numero 250 del 16-27/10/1942
14 I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938, 1948, Mirella Serri, Corbaccio 2005 – III ed., p. 211
15 I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938, 1948, Mirella Serri, Corbaccio 2005 – III ed., p. 212
16 Renato Guttuso, Tringale Editore, 1982
17 Guttuso. Opere dal 1931 al 1981, Sansoni Editore, 1982
18 Prospettive Primato, a cura di Lorenzo Polato, Canova, maggio 1978, p. 173
19 Mestiere di pittore. Scritti sull’arte e sulla società, Renato Guttuso, De Donato, 1972
20 Mestiere di pittore. Scritti sull’arte e sulla società, Renato Guttuso, De Donato, 1972


Bibliografia:

Caravaggio, Renato Guttuso, Classici dell’arte, Rizzoli, 1967

Guttuso. Antologia critica a cura di Vittorio Rubio, Cesare Brandi, Fabbri, 1983

Guttuso. Opere dal 1931 al 1981, Sansoni Editore, 1982

Guttuso a Perugia nel 1932, Collanarte, n. 1 del 10 novembre-1 dicembre 1990, Guerra Edizioni

I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938, 1948, Mirella Serri, Corbaccio 2005 – III ed.

Letteratura, anno XXX-XIV Nuova Serie, n. 79-80-81, De Luca Editore, gennaio-giugno 1966

Mestiere di pittore. Scritti sull’arte e sulla società, Renato Guttuso, De Donato, 1972

Osservatore Romano, Anno 82, n. 219 del 20 settembre 1942 e n. 250 del 16-27 ottobre 1942

Primato, dal 1 marzo 1940 al 15 luglio 1943

Prospettive Primato, a cura di Lorenzo Polato, Canova, maggio 1978

Renato Guttuso, Tringale Editore, 1982
www.guttuso.com - Archivi Guttuso - p.zza del Grillo, 5 - 00184 - Roma - tel:fax 06/6788461
“la fede dell’intelligenza di immaginare un futuro che è la proiezione di quanto è desiderabile nel presente, e di inventare gli strumenti per realizzarlo è la nostra salvezza”
Dewey

[purché il desiderabile sia inteso come esigenza della collettività, e non come intuizione e speranza soggettiva]

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