Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Le gesta di Matteo Ricci a Nanchino, dalla Vita, Taipei, 1960

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Le gesta di Matteo Ricci a Nanchino, tratte dal cap. XVII della “Vita di Matteo Ricci” [Li Madou zhuan 利玛窦传] dello studioso cinese Luo Guang 罗光, pubblicata a Taipei nel 1960


Per leggere tutte le Lettere di Matteo Ricci (1580-1609), il testo qui.

Matteo Ricci riceveva lettere dai suoi amici italiani e dai superiori, nelle quali si esprimeva la spe-ranza di avere notizia di molte conversioni fra i Cinesi. Era un modo indiretto di far notare che le sue esortazioni al bene avevano raggiunto troppa poca gente e che l’evangelizzazione non stava avendo successo.
Il 14 agosto 1599, il Ricci scrisse da Nanchino a un amico a Roma una lettera nella quale giustifi-cava il suo operato. Egli diceva:
Quanto a quello che mi chiede che là vorrebbero vedere alcune nove della Cina di alcuna grande conversione, sappia che io con tutti gli altri che qui stiamo, non sogniamo altra cosa né di giorno né di notte che questo; e per questo qua stiamo lasciando la nostra patria et i cari amici, e ci siamo già vestiti e calzati di habito di Cina, e non parliamo, né mangiamo, né bevemo, né habitiamo in casa se non al costume della Cina; ma non vuole anco iddio si veda più frutto che tanto delle nostre fatiche, sebbene con tutto questo ci pare che il frutto che facciamo si può comparare et anteporre con altre missioni, che al parere fanno cose maravigliose; percioché il tempo in che stiamo della Cina non è anco di raccolta, anzi né di seminare, ma di aprire i boschi fieri e combattere con le fiere e serpi velenose che qua dentro stanno. Altri verranno con la gratia del Signore che scriveranno le conversioni e fervori de’ christiani; ma sappi V.R. che fu necessario prima fare questo che noi facciamo, e ci hanno da dare a noi la maggior parte del merito, se però faremo questo che facciamo con la carità che dobbiamo. Oltre di questo accioché anco V.R. si rallegri di alcuna delle nostre cose, la Cina è differentissima delle altre terre e genti, percioché è gente savia, data alle lettere e puoco alla guerra, è di grande ingegno, e sta adesso più che mai dubia delle sue religioni o superstitioni; e così sarà facile, come io intendo chiaro, convertere infinita moltitudine di essi in bieve tempo. Solo habbiamo all’incontro il puoco comercio che loro hebbero né volsero mai avere con forastieri, et hanno grande paura di loro il popolo, e molto più il re, che è come tiranno i cui avi usurporno il regno per armi; et ha paura che anco alcuno glielo usurpi e toglia a lui; di modo che ogni bona quantità di christiani che si congregassero con noi sarà nella Cina la più sospettosa cosa che vi potesse essere; e questa è la causa perché ci pare il più solido frutto et il più sano consiglio che possiamo pigliare questa impresa è puoco a puoco vedere di guadagnare credito con questa gente e togliergli ogni sospetto, e dipoi entrare con loro alla conversione. E con la gratia del Signore in questa materia si è fatto in puochi anni più di quello che si sperava in molti[1]



Come conquistare la fiducia dei Cinesi? Essi avevano in grande stima la cultura e l’etica e dunque, per farsi avere in grande stima da loro, non restava che mostrarsi colti e animati da un alto senso e-tico.
Il Ricci si comportava solitamente con prudenza, controllava ogni parola e ogni atto, mostrava sempre un volto lieto quando riceveva il prossimo, ogni sua parola era fededegna, ogni atto cauto. Nei contatti con i notabili, a tutti ispirava l’idea di essere un vero gentiluomo.
A Nanchino, il Ricci tenne anche cattedra di astronomia. Si trattava di una scienza sperimentale, che rendeva impossibili le falsificazioni; le scienze occidentali si posero al di sopra di quelle cinesi. I notabili che intrattennero rapporti con il Ricci ne ammrarono tutti la grande sapienza. Di tale fidu-cia godette anche la religione che predicava.
Il “Grande Mappamondi dei Monti e dei Mari” [Shanhai yudi quantu] tracciato a Zhaoqing era già giunto a Nanchino. I notabili della città si recavano spesso dal Ricci a discutere di astronomia e geo-grafia. In Cina si credeva che il cielo fosse tondo e la terra quadrata, che il Sole e la Luna sorgessero a oriente e tramontassero a occidente e che girassero intorno alla Terra, che le eclissi di Sole e di Luna fossero una iattura per il mondo.
Ora sentivano dal Ricci che la Terra era rotonda e pendeva in mezzo al vuoto e che gli uomini la abitavano sia sopra sia sotto. La Terra girava attorno al proprio asse e attorno al Sole e le eclissi era-no provocate dall’interporsi della Luna fra la Terra e il Sole, mentre le eclissi di Luna si dovevano all’interporsi della terra fra la Luna e il Sole. I corpi celesti, come le stelle, erano tutti più grandi della Terra, vi erano le stelle fisse, che non si muovevano, e i pianeti, che invece si muovevano.
I notabili ritenevano quelle spiegazioni curiosità mai udite prima.
Il Ricci mostrava loro i suoi strumenti, sfere armillari, globi terrestri, sestanti e quadranti, e loro prendevano tutto per oro colato. Tuttavia, il Ricci non osò mostrarsi come l’unico sapiente e a Nan-chino volle visitare nel Padiglione del Polo Nord gli strumenti cinesi, globi e sfere armillari; più tardi, avrebbe visto strumenti astronomici anche a Pechino. Erano tutti strumenti fabbricati con grande perizia, non solo assai belli d’aspetto ma anche assai precisi nel calcolo della longitudine e latitudine e nella fissazione delle misure. Il Ricci sapeva bene che la strumentazione delle due capitali era della stessa mano, ovvero di un astronomo, e che in seguito erano stati impiegati da gente ignara di astronomia, che ne aveva sbagliato perfino la collocazione.
La strumentazione astronomica delle due capitali Ming risaliva ai Mongoli ed era stata fabbricata da Guo Shoujing. Gli strumenti osservati dal Ricci erano appunto quelli di Guo Shoujing. Il Ricci fu in grado non soltanto di comprenderne l’uso, ma anche di indicarne le manchevolezze. Ascoltan-do i suoi discorsi, i notabili nanchinesi ebbero la prova che non si trattava di vane ciance ed egli fu venerato da alcuni come un maestro.
Fra i discepoli di p. Ricci, figuravano Qu Taisu, istruito da lui da gran tempo addietro, e altri due, Zhang Yangmo e Li Xinzhai. Quest’ultimo era uno specialista di neoconfucianesimo, ma la sua passione era l’astronomia e aveva in passato dato alle stampe, sotto il nome del figlio, raccolte delle discussioni avute con altri discepoli. Dopo il suo incontro con il Ricci, mandò due giovani a studiare presso di lui. Zhang Yangmo era discepolo dell’accademico della Foresta dei Pennelli Wang Shun’an; quest’ultimo aveva una residenza fuori le mura di Nanchino, dove compiva studi di astronomia e geografia e coltivava i dettami del buddismo del Monte Sumeru. La teoria buddista poneva al centro il Monte Sumeru e attorno i Nove Monti e gli Otto Mari; i monti stringevano i ma-ri, sui quali sorgevano Quattro Continenti, quello al centro dei quali era abitato dall’umanità. Il Sole e la Luna giravano in continuazione attorno al Monte Sumeru e ai Quattro Continenti, separando il giorno dalla notte.[2]
Sentendo parlare della teoria astronomica occidentale del Ricci, Wang Shun’an mandò presso di lui il discepolo Zhang Yangmo.
Allorché poté vedere il mappamondo del Ricci inciso da Wang Pan, il direttore della sede nanchinese del Ministero delle Pene, Wu Zuohai, ritenendo troppo scarse le didascalie, invitò p. Ricci a farne uno più grande, con più spiegazioni. Lui avrebbe scritto la prefazione e l’avrebbe dato alle stampe e diffuso per tutto l’Impero e fino a Macao e al Giappone. Anche Guo Qingluo, governatore di Guizhou, ridusse il mappamondo in formato di libro, con l’elenco dei nomi delle nazioni dei cinque continenti e con il titolo di “Nomenclatura dei paesi antichi e moderni”.
I dotti nanchinesi Jiao Hong e Li Zhi viaggiarono insieme con il Ricci. Il primo, membro della Foresta dei Pennelli, fu commissario d’esame ed esaminò Xu Guangqi. Il secondo lasciò la carriera mandarinale in tarda età ed abbracciò il buddismo zen, facendosi romito, barba e capelli rasati. Nella sua raccolta di poesie, “Il libro da bruciare”, c’è una poesia dedicata al Ricci:
Scende beato dal Pondo settentrionale,
in marcia sulle vie tortuose del meridione.
In ogni delubro lascia il nome,
cala dal monte e prende la via d’acqua.
Volge il capo alle millanta leghe percorse,
alza gli occhi alla miriade di città.
Lo splendore della sua nazione
rivaleggia con la chiarità del cielo.
Qu Taisu, da parte sua, presentò il Ricci a Li Ruzhen, priore del Tempio di Nanchino e seguace del buddismo. Un giorno, durante un sermone, egli lodò pubblicamente il buddismo e denigrò il confucianesimo. Fra il pubblico sedeva un alto funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici, Liu Douxu, che lo contraddisse vivacemente, rimproverandolo di amare la religione dei barbari stranieri, pur essendo un Cinese e che a Nanchino perfino un dotto straniero, il Ricci, stimava assai Confucio. Gli astanti, scontenti, si allontanarono. Li Ruzhen allora invitò il Ricci a casa e gli apparecchiò un banchetto. Il Ricci, il quale sapeva che a casa di Li si tenevano spesso dibattiti, declinò cortesemente l’invito. Li Ruzhen lo invitò ancora svariate volte e alla fine lo persuase. Una volta entrato, vi trovò assiso il bonzo Sanhuai, nome laico Huang Hong’en, assai noto nella città. Il Ricci fu certo che Li Ruzhen lo aveva chiamato per sfidarlo.
Appena preso posto, di fronte a una vasta platea di invitati, il Ricci si sedette al posto d’onore. Mentre gli altri conversavano di letteratura, egli tenne le labbra sigillate, bevendo con moderazione. D’improvviso, Sanhuai si mise a discettare di natura umana e gli astanti gli si affollarono intorno, facendogli eco. Alcuni sostenevano che la natura umana era buona, altri che era malvagia, altri ancora che dipendeva dal temperamento. Il Ricci si limitava ad ascoltare, senza aprir bocca. Ritenendo che non comprendesse appieno il cinese e dunque non capisse di che si parlava, gli astanti lo guardavano con degnazione. Sanhuai, sempre più pieno di sé, gli chiese la sua opinione, mentre tutti gli tenevano gli occhi addosso, curiosi di come avrebbe risposto.
Con la massima calma, il Ricci riassunse innanzitutto le opinioni fino allora espresse dagli astanti, mentre gli sguardi di degnazione si tramutavano pian piano in sguardi ammirati e il sorriso sul volto di Sanhuai andava scomparendo. Il Ricci parlò in modo incisivo e vivace e alla fine concluse così:
- Tutte le cose sono create da Dio, e dunque anche la natura umana promana dal Cielo. Il Cielo è puro spirito, è infinitamente buono. Poco fa maestro Sanhuai ha affermato non esservi differenza fra natura umana e celeste; come potremmo allora dubitare della bontà della natura umana?
Un letterato seduto di fronte a lui lo acclamò e chiese sorridendo a Sanhuai come rispondeva. Sanhuai distese le folte sopracciglia e citò a piena bocca i classici buddisti, dove si dimostrava che tutto è vuoto e non si può parlare di bontà della natura umana e come, secondo Laozi e Zhuangzi, ogni cosa sia al tempo stesso vera e falsa, buona e cattiva. Il Ricci allora citò i classici confuciani, confutandolo. Sanhuai non gli fece caso, come se nemmeno esistesse, disgustando però alquanto gli astanti.
Tornato a casa il Ricci, buona parte dei discepoli di Li Ruzhen vollero andare a sentirlo predicare. Il Ricci spiegò loro l’origine di tutte le cose e definì creatore il Signore del Cielo. Più tardi, scrisse in forma di libro le conversazioni con i discepoli di Li Ruzhen e lo intitolò “La vera dottrina del Signore del Cielo”.
Il primo capitolo si intitolava “Dibattito sulla creazione del cielo, della terra e di tutte le cose da parte del Signore del Cieo, e su come lui eserciti la Sua autorità su di esse e le sostenga”; verso la fi-ne del capitolo si legge:
Che dottrina ricca! Spiega ciò che l’uomo è incapace di spiegare e dice esaustivamente ciò che l’uomo non è in grado di dire esaustivamente. Mentre la ascolto, vedo per la prima volta la Grande Via e il ritorno alla fonte suprema di tutti i fenomeni.[3]
[1] “Opere storiche del p. Matteo Ricci”, vol. II, pp. 246-47 (Lettera al p. [Girolamo] Costa [S.I.])
[3] “Fonti Ricciane”, vol. II, libro IV, capp. III, IV e VIII. “Lettera al p. Costa”. “Opere storiche del p. Matteo Ricci”, vol. I, p. 243 [Alessandra Chiricosta (traduzione e cura), “Il vero significato del ‘Signore del Cielo’ ”, Città del Vaticano, 2006, pp. 93-94]
(c) Prof. Giorgio Casacchia, Addetto Culturale Istituto Italiano di Cultura di Shanghai, settembre 2009.

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