Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Dopo quanto tempo che ci si abita si puo' considerare casa propria

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Su un’autorevole rivista letteraria, il “Nuovo cinese universitario” [Daxue xin yuwen], pubblicata dall’Università di Pechino, vengono pubblicati testi che si auspica gli scrittori cinesi possano tenere in considerazione come esempi di bello scrivere. Per documentare questo nuovo tentativo di influenzare autorevolmente la creazione letteraria locale, si traduce qui la prima parte di uno dei racconti più interessanti.

Liu Liangcheng
DOPO QUANTO TEMPO CHE CI SI ABITA SI PUÒ CONSIDERARE CASA PROPRIA
in Xia Zhongyi (a cura di), Nuovi testi universitari, Pechino, 2008, pp. 207-210

A me piacerebbe abitare sempre nello stesso posto – in particolare, in una casa di campagna. In una casa solida abiterei tutta la vita, senza pensare a trasferirmi altrove. Passare per tutta la vita per lo stesso portone, dormire nello stesso letto, resistere al freddo e prendere il fresco sotto lo stesso tetto. Se la casa fosse pericolante, a quaranta o cinquant’anni, quando i travi fossero ormai marci e i muri crepati, la demolirei volentieri per costruirne un’altra, ma nello stesso posto.
Mi rallegra il fatto di aver già vissuto più di una casa. È una sensazione che si ha solo dopo aver abitato a lungo in un posto. Allora scopri che molte delle cose intorno non hanno resistito al tempo come te. Un giorno, all’improvviso, uno dei passeri sull’albero precipita giù, non sai se perché è morto di vecchiaia o di malattia; un altro giorno, un albero viene abbattuto, per farne mobili o legna da ardere; il bue che ti ha tenuto compagnia per tanti anni, un autunno alla fine non si muove più per quant’è vecchio. Fatti i conti, ha molto meno della tua età, al massimo gli anni del tuo figlio piccolo, e a te non resta che macellarlo o venderlo.
Normalmente, io sceglierei la prima alternativa. Io mi staccherei con riluttanza e non sopporterei di vendere un vecchio capo di bestiame che è stato ai miei comandi per metterlo ai comandi di qualcun altro. Attaccherei la pelle al muro e, dopo averla seccata, ne farei fruste o pellame; le ossa e le carni le stuferei in pentola e me le mangerei, un pasto dopo l’altro. Solo così mi sentirei meglio, non perderei completamente il bue, alcune parti di esso mi servirebbero ancora nella vita, continuerei a tenerlo ai miei comandi. Anche se, prima o poi, pure il pellame sarebbe consumato e la frusta arrotolata stretta si allenterebbe e io li getterei in un canto. È normale.
Perfino certe cose che per me non cambiano mai, dopo varie decine di anni di vita, scopro che sono mutate e sono diventate irriconoscibili. Ma io, che sono sempre vivo e vegeto, anche se alquanto decrepito, non morirò certo di vecchiaia.
Anni fa, quando rifeci il vicolo sul retro della casa, pensai di star compiendo una grande impresa, che sarebbe durata per generazioni: i miei figli e nipoti ci avrebbero camminato sopra. Le strade sono la cosa più durevole di tutte, distese come sono sul terreno, non si spezzano, non sono soffiate via dal vento, possono reggere a cose anche pesanti.
Una volta, un grosso camion entrò nel villaggio, carico di ferro; forse sbagliò strada e voleva fare una conversione a U. La strada principale del villaggio era troppo stretta e il camion non ci girava. L’autista mi vide, mi disse gentilmente che voleva fare marcia indietro nella strada sul retro di casa mia e mi chiese il permesso. D’accordo, dissi io, fa’ con comodo. In realtà volevo scoprire se quel tratto di strada che avevo rifatto sarebbe stato solido abbastanza. Dopo che il camon se ne fu andato scoprii che sulla strada erano rimasti solo due solchi di pneumatici, leggeri leggeri. Io mi sentii più tranquillo, pensai fa me e me che in futuro avrei potuto trasportare fino a casa anche un camion carico d’oro, per quella strada.
Un anno dopo, tuttavia, durante un acquazzone, metà della strada fu portata via e la carreggiata rimasta si ammollò tutta, al punto che quasi non ci si poteva più passare neanche a piedi. Quando, dopo che fu spiovuto, mi misi di nuovo a ripararla, non pensavo più che le strade fossero eterne, ma solo che io sarei sopravvissuto un po’ più a lungo. Avevo sempre creduto che la vita fosse breve e di dover affrettarmi a compiere una qualche impresa di lungo periodo da lasciare al mondo. Adesso invece avevo l’impressione che io sì, sarei potuto restare a lungo su questa terra, ma che tutto il resto era come nebbia al sole.
Nell’addestrare il bestiame giovane, qualche volta mi scappava una bestemma: bestia! tuo nonno quando era un mano mia era tanto buono e lavoratore! Dopo d’improvviso mi rendevo conto che erano passati un bel po’ di anni. Il bestiame e gli attrezzi che mi avevano accompagnato erano già scomparsi da un pezzo, mentre io continuavo le stesse solite cose di tanti anni prima con uguale vigore giovanile e fiducia. Riaffiorava alla mente anche il villaggio com’era tanti anni fa.
Chi potrebbe ancora ricordare così felice come me cose di tanti anni prima! Il puledrino di tre anni, la scrofa di un anno e mezzo, i tre pioppi che crescono da appena tre estati nella cintura verde lungo la strada, come potrebbero sapere che cosa succedeva al villaggio qualche decina d’anni fa? Sono arrivati troppo tardi, non possono che vivere in paese con rimpianto, a guardare con quegli occhi ingenui che non hanno visto niente quello che possono, ad ascoltare quello che gli fischia alle orecchie. Non sanno niente della storia del villaggio, né sapranno mai chi fu a tirare su quel muro, chi a scavare quel canale, chi fu a guadare il fiume per mettere a coltura quella vasta distesa brulla, chi a sospingere fuori del paese la mandria di cavalli, profittando dell’oscurità notturna, chi a svacalcare il muro prima dell’alba coi calzoni rimboccati e a sgattaiolare a casa... Conservo gelosamente tutto, insieme con un lungo tratto integro di anni. Fa di me quello che sono. A meno che non lo dica io, nessuno ci può più entrare.
Naturalmente, quando una persona vive a lungo, possono aumentare anche i fastidi. Proprio come quelli che incidono volentieri il nome sui muri vecchi mille anni o sulle pareti di roccia di diecimila anni per godere dell’immortalità, sono molte le cose in paese che hanno lasciato volentieri la loro impronta su di me. Esse riconoscono che io sono immarcescibile, e comunque sia irriducibile alla morte. Sui miei lombi a tutt’oggi resta l’impronta del mezzo zoccolo di una vacca. Mi sbalzò di groppa e mi diede un calcio sui lombi scoperti. Una volta schiacciatomi, non ebbe fretta di spostarsi e tolse lo zoccolo solo dopo che ritenne che l’impronta mi sarebbe rimasta incisa addosso. Sulle gambe portò le tracce violacee dei denti di parecchi cani, alcune di maschi, altre invece di cagne. Proprio come la gente che lascia il nome sui monumenti, che si affretta a nascondere la mano che l’ha tracciato, rendendo vano ogni tentativo di prevenirli. In faccia, quasi dappertutto, ho i segni delle morsicature delle zanzare, alcuni profondi, altri superficiali. Alcuni sono spariti in pochi giorni, ma molte di più sono le cicatrici che resteranno per sempre. In certi punti celati alla vista ci sono i segni dei denti e delle unghie delle donne. Però sono di più le cose rimaste nel cuore.
Mi sono fatto carico delle tracce preziose della moltitudine di cose insieme alle quali ho vissuto e che mi danno la sensazione di aver vissuto pienamente, e senza alcun senso di stanchezza. Talvolta, quando mi fanno male le reni nel cuore della notte, mi viene in mente la vacca che mi aveva calpestato ormai molti anni or sono, il colore e gli arabeschi del pelo, le mammelle smisurate e la vulva lustra nel periodo dell’estro; talaltra, con le gambe stanche per il gran camminare, ricordo la pelle del cane nero che mi aveva morso, stesa ben spiegata sulla mia stufa di mattoni, che mi è servita da materasso per molti anni. Io sono diventato il tramite vivente della storia del paese, dovunque mi si tocchi, a caso, di là sgorga un vivido racconto.
A vivere a lungo in un paese, si può aver l’impressione che il tempo su di te si sia fermato, mentre sulle altre cose passa come il lampo. È la dimostrazione che sei diventato tutt’uno con il tempo del luogo. Il clima, il raggi del sole e gli spazi si sono assuefatti a te, sanno che sei una persona onesta e rispettosa, che non sarebbe di nessun grave danno se pure vivesse qualche altra decina d’anni. Altri sono diversi, ci sono cose che scorrazzano per il mondo e ti fanno correre dietro per il mondo dal tempo. Forse, anche loro qualche volta evitano il tempo e vivono giovani e comodamente. Il giorno in cui il tempo corresse loro dietro potrebbe vendicarsi crudelmente e toglier loro di botto qualche decina d’anni; i fatti dimostrano che molte persone che abbiano lasciato il villaggio per girare il mondo alla fine non sono più tornate indietro e sono morte altrove. Non hanno avuto il tempo di fare ritorno.
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