Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Interviste di Jia Zhangke: "Con cosi' tante organizzazioni, in una bisogna pure entrarci"

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Presentiamo qui in traduzione italiana uno stralcio da una delle interviste che il regista cinese Jia Zhangke, premiato al Festival del Cinema di Venezia, ha raccolto come materiale preparatorio per il suo film inchiesta sulla condizione operaia “Le ventiquattro città” e pubblicato in volume l’anno scorso (Zhongguo gongren fangtan lu, sottotitolo inglese “A collective memory of chinese working class”).

INTERVISTE DI JIA ZHANGKE

[CONVERSAZIONI CON GLI OPERAI]
CHEN KEQIN
“CON COSÌ TANTE ORGANIZZAZIONI, IN UNA BISOGNA PURE ENTRARCI”

Chen Keqing, maschio, 58 anni
Nasce nel 1949
Nel settembre 1965, a sedici anni, entra nella Fabbrica 420 come operaio
Negli anni Settanta, riceve una menzione di merito come attivista nello studio delle opere del presidente Mao
Nel 1982, passa l’esame d’ammissione per l’Università Professionale della 420
Nel 1985, dopo la laurea, torna in fabbrica come contabile
Nel marzo del 2006, con 41 anni d’anzianità di lavoro, paga di tasca sua i contributi e va in pensione anticipata, torna a casa e si occupa esclusivamente di compravendita di azioni

Per le strade animate di Chengdu dove sfrecciano le macchine, cerchiamo la casa di Chen Keqin.
La macchina si ferma in un piccolo condominio di case nuove, intorno ci sono uno Starbuck’s, la Banca dell’Industria e del Commercio, un banco del lotto e un supermercato appena aperto, con lo striscione rosso spiegato.
Chen esce dal condominio, fa un giro davanti alla macchina, poi vede la scritta “Ventiquattro Città” sulla macchina della produzione e ci chiede ad alta voce, con un forte accento del Sichuan:
-      Chi è il capo?
Noi facciamo un salto, crediamo che sia l’Ufficio di Pianificazione Urbana che ci vuole cacciare dalla strada animata; interviene il capo della produzione e dice con cautela:
-      Capo, sono io.
-      E io sono Chen Keqin, dice Chen.
Scoppiamo di botto tutti a ridere.
In fila lo seguiamo attraverso il supermercato; all’uscita sul retro c’è il condominio dove abita. Arriviamo in ascensore al pianerottolo di casa sua; la conversazione cade sulle azioni. Ieri le azioni sul mercato di Shenzhen sono crollate improvvisamente, ne parlano tutti. Un tempo Chen faceva il contabile in fabbrica, oggigiorno se ne sta a casa e campa comprando e vendendo azioni. Parlando della tempesta azionaria di ieri, si vede che lui ci pensa ancora, però ne ride:
-      A me non mi tocca, ne ero uscito da un pezzo.

Lui dice che è meglio trattare in azioni che andare in fabbrica, ogni giorno muove le dita davanti al computer e gli entrano 18.000 yuan al mese, e nessuno se ne deve impicciare. Dello smantellamento della fabbrica sembra che non gli importi nulla!
Quando parla ha molto lo stile di Stephen Chow,  molto spiritoso, spesso autoironico. Mentre si muove la camera da presa e lui sta seduto a farsi intervistare formalmente, scopro che ha la stessa prodigiosa memoria del segretario di Partito Guan. Può ripetere a memoria, con precisione, il testo della “Circolare del Sedici Maggio” di Mao Tse-tung del 1966 e imitare il discorso di Hua Guofeng ai funerali di Mao. Hua Guofeng era di Jiaocheng, nello Shanxi, vicino del mio paese natio, l’accento di Jiaocheng mi è familiare e Chen lo rifà perfettamente.
Non so per quale ragione lui abbia una memoria tanto ferrea, si ricorda ogni singolo editoriale del passato, il nome di ogni singolo compagno di lavoro, perfino che tempo faceva il tale giorno, chi incontro quel tale giorno per la strada e sbrigando quale faccenda. Ascoltarlo raccontare mi ha fatto pensare a me, nella mia vita invece è tutto confuso. Lui è stato ai margini in ogni fase, non si è mai voluto mettere al centro, e dunque ha acquisito una capacità di autocoscienza e autoironia di tipo postmoderno.
Quando la storia ci è arrivata, si è alzato in piedi e ha preso da un cassetto un mucchio di distintivi e bracciali del tempo della rivoluzione culturale; la rivoluzione culturale è il centro dei suoi discorsi, ma non sputa fuori i ricordi tristi e parla piuttosto di lotta armata su vasta scala in fabbrica, dice che una volta con un compagno di lavoro andò a guardare il trambusto; quel suo compagno si era appena congedato e poteva distinguere chiaramente i tipi di arma dal suono. Dopo la prima fucilata, disse, è una carabina di piccolo calibro, non è niente, non ferisce nessuno; dopo il secondo, sono proiettili di gomma, non sono granché; dopo il terzo, gli disse, sbrigati, arrivano le armi vere.
Parla molto raramente dei fatti di prima del 1966 e molto poco anche dei fatti di dopo il 1976; tutto per lui si è solidificato intorno ai dieci anni della rivoluzione culturale, come cemento colato in un edificio.
Quando non parla, si toglie gli occhiali e pulisce meticolosamente le lenti con la camicia, poi, quando se li rimette sul naso e volge lo sguardo su di me, di nuovo gli compare il sorriso da Stephen Chow. Per lui, la storia non è altro che un gran via vai.

JIA ZHANGKE: In che anno sei entrato alla 420? Quanti anni avevi allora?
CHEN KEQIN: Avevo sedici anni, ricordo che entrai in fabbrica all’inizio di settembre, nel 1965, e che compivo sedici anni il 24 di quel mese. Sono del 1949, sono un coetaneo della Repubblica.
JIA: Che circostanze fortuite ti hanno portato alla 420?
CHEN: All’epoca la 420 assumeva operai a Hechuan . Nel 1964, la 420 aveva ultimato la speri-mentazione di un macchinario, l’811, e aveva perciò molto bisogno di operai specializzati. A quel tempo io mi ero appena diplomato alla scuola media e ci andai dopo le vacanze estive. Entrai con un gruppo di oltre cento persone, altri cento venivano da Jiangjin , un po’ di più di quelli da Hechuan.
JIA: Allora si era nel primo anno della rivoluzione culturale, tu quindi sei stato testimone della rivoluzione culturale?
CHEN: È ovvio, la rivoluzione culturale la conosco tutta abbastanza bene. Nel 1966, nelle fabbriche non ci furono grosse reazioni alla “Circolare del 16 Maggio”. Ce l’ho ancora con me, la “Circolare”. All’inizio ce la studiavano solo noi operai quando staccavamo, alle cinque e mezza, organizzati in reparti o squadre, non si faceva altro, solo più tardi facemmo la rivoluzione culturale. Prima pubblicarono gli editoriali, poi vennero i datsebao, all’apoca erano affissi per tutto il reparto, si stendeva un filo sul muro e poi ci si incollavano sopra i datsebao. A quel tempo dicevamo quello che ci pareva – naturalmente seguivamo gli insegnamenti del presidente Mao, ma all’epoca non facemmo mai sciopero, continuammo a produrre, questa era la situazione prima di ottobre. All’epoca le fabbriche grandi, e la 420 era una di quelle, non potevano agire avventatamente, non si muovevano. La nostra fabbrica era molto sorvegliata, ai portoni montavano la guardia i soldati, due a ogni portone, l’uno con il mitra, l’altro con un fucile semiautomatico con la baionetta inastata, così all’epoca l’ordine nella nostra fabbrica non fu minimamente compromesso. Ma poi non funzionò più, a novembre, dopo che il presidente Mao ebbe passato in rivista le guardie rosse per l’ottava volta, gli studenti che scesero a sud per le prese di contatto, dell’Universita di Aeronautica e Astronautica di Pechino o che so io, “soffia il vento della rivoluzione, divampano le fiamme della rivoluzione”, vennero giù. All’epoca il cavalcavia non era stato ancora costruito, all’ingresso della fabbrica arrivavano un sacco di veicoli di propaganda, soprattutto da fuori, urlavano a tutto volume con gli altoparlanti verso la fabbrica, “Classe operaia, levati in piedi!” “partecipa alla grande rivoluzione culturale”... gli operai che attaccavano e staccavano dovevano passare tutti dal portone e così cominciarono a fare caso a queste cose. Più tardi si mosse anche la fabbrica, fondarono organizzazioni di massa, comiciammo a seguire il passo. C’era la stessa situazione in tutto il paese.
JIA: All’epoca c’erano varie organizzazioni, si dividevano in “filoimperiali” o come?
CHEN: Sì, i conservatori, cioè i “filoimperiali”, c’erano. A quel tempo c’erano fondamentalmente due fazioni, l’una si chiamava “Scintilla”, l’altra “Bandiera rossa”. “Bandiera rossa” erano i conservatori, “Scintilla” erano i ribelli. Naturalmente, anche i ribelli erano divisi, c’era la “Brigata di combattimento Primo Ottobre”, soprattutto soldati congedati e riconvertiti, poi c’era la “Brigata dei Ribelli della Lega Rivolzionaria”, c’era anche una “Sezione di Civitanova della Brigata dei Ribelli Operai di Chengdu” – allora la 420 si chiamava anche Fabbrica Metalmeccanica di Civitanova, no? e così c’era la “Sezione di Civitanova”. A quel tempo fra le organizzazioni di ribelli quella con più gente era sicuramente la “Brigata di Ribelli Scintilla”. Io avevo solo sedici anni, ero un ragazzino, ma mi ricordo ancora benissimo di tutte queste cose. All’epoca fra conservatori e ribelli c’era una contraddizione, gli uni volevano conservare qualche cosa, gli altri si volevano ribellare. Questo non me lo ricordo tanto bene. Naturalmente i ribelli dicevano che stavano sulla linea rivoluzionaria del presidente Mao, che erano ribelli proletari, ma i conservatori non ammettevano di essere conservatori, anche loro erano rivoluzionari proletari, solo non erano d’accordo con certi modi di fare dei ribelli, per esempio i ribelli all’epoca volevano lottare contro i “dirigenti incamminatisi sulla via del capitalismo”, facevano manifestazioni di strada, era così in tutto il paese.
JIA: Fondamentalmente, che gente fu colpita? All’epoca vennero attaccati tutti i responsabili della fabbrica?
CHEN: I resposabili principali della fabbrica furono tutti attaccati, per esempio il segretario di Partito della nostra fabbrica, fu il primo a essere attaccato, all’inizio vennero affisi datsebao contro di lui, poi fu criticato e alla fine le cose arrivarono al punto che le organizzazioni di massa lo combatterono. Anche il vicesegretario, e pure il direttore di allora, qualche cosa come Huang Shaohua, furono combattuti. Mi ricordo che si fece sul serio, però non in modo tremendo, perché all’epoca producevamo ancora.
JIA: Tu avevi sedici o diciassette anni, alle attività della rivoluzione culturali ci partecipasti anche tu?
CHEN: È naturale, facevo parte di un’organizzazione di massa. In ogni reparto ce n’erano parecchie, ci dovevano entrare tutti. Che ci si entrava a fare? Se ci ripenso adesso non mi capacito, ora un’azione qui, ora un’altra lì. Una volta andarono al “Quotidiano del Sichuan” a stampare non so che, ci andai anche io, camminammo tutta la sera, avevo fame e sete, poi l’indomani tornammo indietro chissà come. A dire la verità, non me lo ricordo più che cosa stampammo, allora, al “Quotidiano del Sichuan”. Mi sembra che fosse il 1966, all’epoca la produzione era ancora normale, io lavoravo ancora.
JIA: Ho sentito dire che si verificarono grandi “lotte armate” dopo che sorsero problemi nella produzione.
CHEN: La lotta armata? Quella è del 18 agosto 1967, io l’ho vista. Qualche giorno prima della lotta armata, l’atmosfera si fece pesante, c’era un grande nervosismo in giro, io in effetti stavo pensando di andarmene. Perché poi non me ne andai? All’epoca a Chengdu avevo uno zio e una zia, li andavo a trovare tutte le settimane, così pensai di far loro un saluto prima di andarmene, magari più tardi sarebbe stato difficile sentirli. Erano tutt’e due vecchi quadri di Partito, vecchi rivoluzionari, quando andai da loro mia zia disse: “Non te ne puoi andare, tu sei un operaio, devi occuparti di produzione, non devi cadere nella trappola dei nemici di classe.” Io lo trovai giusto, non me potevo andare, e così non mi mossi. Però di sei che dividevamo la camera rimanemmo solo in due, gli altri se ne andarono tutti. All’epoca la produzione già subiva dei contraccolpi, così parecchi impiegati e operai lasciarono la fabbrica. Il 18 agosto, quel giorno per caso ero andato in centro, a trovare mia zia a casa sua; dopo cena, tornai, saranno state le sette passate. Sulla strada del ritorno vidi che ai Due Ponti  si era radunata un sacco di gente, alcuni li conoscevo bene. Si stavano prendendo a sassate, da una parte urlando e gridando partivano all’assalto del tubificio, il tubificio all’epoca era la fabbrica 249 – si chiamava così dal numero della buca delle lettere – caricavano da una parte, e dall’altra parte contrattaccavano. All’epoca alla 249 c’era un’organizzazione, mi sembra fosse la “Lega Generale”, era alleata di “Scintilla” della 420, sotto l’attacco non riuscivano a reggere, gli avversari si diceva fossero una squadra venita da Chongqing. La “Lega Generale” non riusciva a respingerli, così la 420 era andata di rinforzo al tubificio, poi forse davanti al tubificio non riuscirono a reggere e si dispersero. Chi erano quelli di Chongqing? A Chongqing non erano riusciti a sconfiggere la 815, così erano venuti a Chengdu a allacciare rapporti. A Chengdu ne combinarono di tutti i colori, a Chengdu chi l’aveva mai vista la lotta armata come a Chongqing? Mettevano la benzina nelle bottiglie, poi le accendevano e le tiravano, facevano un gran fuoco. Io rimasi a guardare che succedeva: poco dopo le undici, sentii gli spari, pum! pum! Qualcuno disse che erano piccoli calibri, non ammazzavano nessuno. Io però mi misi a rimuginare: non ammazzeranno, però se mi pigliano in un occhio che faccio? Pensai a questo, me ne dovevo andare di lì, avevo solo sedici diciassette anni, non ne valeva la pena, non aveva senso, così mi misi a guardare da più dietro. A mezzanotte circa, cominciarono le carabine semiautomatiche. Io non le conoscevo, nel nostro reparto c’era un militare congedato, era stato nei servizi di terra dell’aviazione, disse che il suono è diverso, erano semiautomatiche. In quel momento stava accanto a me, io stavo più indietro, pensai che non c’era niente da ridere. Dissi, me ne vado, in quel momento uno fu ferito, io allora lo portai alla mensa numero 2, più indietro, a farsi bendare, era ferito all’orecchio, e anche in faccia. Quando entrai, per terra c’era sdraiato uno, il medico venne a visitarlo, non respirava già più. Io in quel momento lo riconobbi, lo conoscevo, era Tang Wa’er, aveva trentasei anni, giovcavamo insieme a pallacanestro, saltava molto alto. Era entrato in fabbrica nel 1958, io nel 1965, aveva parecchi anni più di me. L’avevano preso al petto, un buco grosso così, la pallottola di piombo era rimasta dentro. Pensai, si muore sul serio! In quel momento entrò in azione l’altoparlante, era quello sopra l’edificio n. 18: vibrata protesta, non so che reparto della 826 ammazzava i commilitoni, i compagni d’arme che partecipavano ai gruppi rivoluzionari, il debito di sangue andava pagato col sangue... Io pensai, basta, basta, ho visto tutto, volevo tornare nella mia camera, a dormire. Per combinazione era rientrato anche un compaesano, disse, accidenti, mi hanno ferito alla gamba, m’hanno beccato. Gli guardai la coscia, entrava da una parte e usciva dall’altra, gli avevano fatto un bel buco... anzi, due! Non lo sapeva neanche lui chi glieli aveva fatti, l’avevano trapassato e basta. Io ci rimasi malissimo, un compagno di stanza, di reparto, e pure compaesano, eravamo tutti e due di Hechuan, gli dissi, andiamo, torniamo in camera. Mi resi conto allora che erano già le tre di notte, non potevo più prendere sonno, era agosto, faceva caldo, si soffocava. [...]

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