[Da chengshi de sheng yu si]
“Dushu”, 9, 2010, pp. 10-15
L’EXPO di Sciangai ha reso quest’estate ancora più torrida. In connessione con il tema dell’attuale esposizione universale, la città e la bella vita, si è tenuta tutta una serie di simposi accademici per discutere dello sviluppo urbano futuro. Poco dopo l’inaugurazione dell’EXPO, il forum “Disgelo” [Refeng] della rete “Cultural studies contemporanei” è stato animato da un profluvio di discussioni sulla città. I testi di discussione sul sito sono stati successivamente ripresi da “Liberazione”, dal “Wenhuibao” e da altri periodici; li hanno tradotti, ripubblicati e aggiornati anche alcuni siti di cultural studies stranieri. Con grande prontezza, la rete “Cultural studies contemporanei” ha scelto una parte dei testi più acuti e li ha raccolti sotto un titolo accattivante, “I fastidi della crescita urbana” [Chengzhang de fannao].
Nel 2002, il sociologo urbano Manuel Castells previde che nei trent’anni seguenti oltre due terzi della popolazione mondiale avrebbe abitato nelle metropoli, sottolineando in particolare che il principale fattore nello stabilire la cifra erano le variazioni di popolazione urbana dell’India e della Cina. La Cina di oggi sta attraversando bruschi cambiamenti e le città grandi e piccole stanno conoscendo una rifondazione accelerata in direzione dell’urbanizzazione, e non sarebbe esagerato descrivere la sensazione di un osservatore esterno nei rispetti delle trasformazioni della grandi città in termini di “sconvolgimento” e “vertigine”.
Nelle grandi città del giorno d’oggi, i grattacieli crescono come funghi, gli spazi verdi si moltiplicano, le strade si allargano, e definirle brutte non sarebbe oggettivo. Per il momento non parleremo di come l’idea di “città giardino”, di provenienza occidentale, abbia creato città vuote e città morte, di come abbia isolato le persone, di come le grandi arterie progettate per gli autoveicoli abbiano rarefatto i passanti; più importante è: donde viene l’impulso economico verso queste grandi e “belle” città? Sciangai è il caso mondiale di punta, è in grado di assorbire risorse economiche, manodopera ecc. da tutta la Cina, costituirà in futuro il centro della finanza mondiale, ha l’ambizione e il coraggio di attirare i capitali vaganti[1], senza curarsi minimamente della possibilità che possano diventare una patata bollente.
Le città delle regioni interne la imitano l’una dopo l’altra, riecheggiano Pudong, non sono poche le città che a sciami si lanciano nell’attività edilizia su vasta scala, nella costruzione di metropolitane, nell’acquisto di terreni, che alimentano il mercato con le case a imitazione di Sciangai, senza neanche immaginare che del cosiddetto “modello di Sciangai” o “miracolo di Sciangai” in tutta la Cina c’è un solo caso. Lo sviluppo di queste grandi città si basa sulla contesa delle risorse con le città dell’interno, è un modello di sviluppo e crescita non riproducibile, più le grandi città si sviluppano più si impoveriscono le regioni dell’interno.
Questo squilibrio strutturale compare anche nel rapporto fra città e campagna. Oggigiorno in Cina il movimento verso l’urbanizzazione colloca lo sviluppo urbano in un quadro di sfruttamento e trascuranza delle campagne, in una logica di sviluppismo. Di conseguenza le città si sviluppano e la campagna recede, le strutture pubbliche vanno in rovina, la gestione delle acque difetta di manutenzione. Oppure si applica la logica dell’edificazione urbana alla pianificazione dei villaggi rurali. La terra viene venduta, strade sontuose vengono portate fino ai villaggi, facendo risultare il villaggio un guscio vuoto, privo di dignità, desolato. In questa struttura di sviluppo, la campagna resterà sempre in posizione ancillare rispetto alla città: oltre a trasportare in città i prodotti agricoli, la forza lavoro, gli alberi, addirittura soldi, ne diventa la discarica. In questa logica produttivista, in questa struttura squilibrata, la campagna sarà sempre una piattola; in questa struttura gerarchica, le condizioni di vita dei contadini inurbati sono facilmente immaginabili. Le campagne potranno passare bei giorni soltanto il giorno in cui, arricchendosi rapidamente, saranno totalmente urbanizzate.
Il sociologo Sun Liping disse qualche anno fa: oggigiorno in campagna un albero che sia appena bello se lo comprano i cittadini, figuratevi il resto delle risorse umane e materiali, e riassunse il fenomeno con il nome di “movimento per l’entrata in città degli alberi”. Per il momento non menzioneremo la percentuale di sopravvivenza degli alberi trapiantati: nelle campagne delle periferie urbane del Jiangsu e dello Zhejiang, per alberare le città, vaste estensioni di risaie sono state trasformate in vivai di alberi della canfora; di conseguenza, per la concorrenza sleale e il numero straripante di vivai, la piantina in origine stimata 5 yuan non la vuole più nessuno neanche a 50 centesimi, le piantine che si stringono nei campi crescono in maniera abnorme e non c’è modo di venderle realizzando un profitto, ma poiché i vivai hanno gravemente compromesso la struttura dei suoli, è ormai estremamente difficile anche riconvertirsi di nuovo alla risicoltura. Il sogno delle campagne di arricchirsi grazie alle città si trasforma in una bolla di sapone.
Parimenti, la struttura dello sviluppo urbano di rapina si manifesta anche fra le città grandi e quelle piccole e fra le città costiere e quelle dell’interno: il modello di sviluppo unico induce i capitali vaganti ad affluire nelle più sviluppate città costiere, creando un “effetto San Matteo”[2] nello sviluppo delle grandi città odierne, per cui le grandi città e le città costiere diventano “vampiresche”. Questa struttura economica gerarchica è addirittura suscettibile di diventare, all’interno, un modo di vita, che non solo causa lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi, ma anche l’espropriazione del popolo da parte dello stesso popolo.
Un frequentatore del forum “Disgelo”, Saoyezhucha, rileva un fenomeno peculiare di Sciangai, quello degli yingpanren o “forestieri”.[3] Il termine yinpanren è un termine discriminatorio nei confronti dei forestieri (fra le denominazioni di questo tipo c’è anche “fenice maschio”[4] e altre ancora). I locali disdegnano i forestieri, soprattutto perché ritengono che questi ultimi rubino loro il piatto di minestra e le risorse e creino tensioni nella loro vita.
La contesa fra locali e forestieri si rivela come minimo nei problemi seguenti: (a) fra la gente dei bassifondi scoppiano lotte intestine; (b) nelle grandi città fa la sua comparsa un folto gruppo di giovani forestieri sfruttati. Questi forestieri confluiscono nelle città per lottare, ma dopo una vita di stenti non riescono neppure a comprarsi casa, e se la metropoli cresce ancora di più, loro che c’entrano? In contrasto con ciò, possiamo scoprire che nelle grandi città esistono gruppi di licenziati e disoccupati che vivono percependo l’affitto degli appartamenti con cui lo stato o l’agenzia immobiliare li ha indennizzati per la rilocazione; quindi possono non lavorare per tutto il giorno e passare il tempo a giocare a mah-jong oppure a gironzolare per i supermercati.
Non si vuole dire qui che il popolo non possa passare una vita oziosa, ma pensiamo che dietro questi fenomeni di passività e inazione ci sia da chiarire un problema: come trattare e disporre di queste persone che si sono staccate dalla società, come spiegare loro il senso della vita, come dare loro un futuro?
Dietro le scelte del modo di vita da parte di questi sbandati, possiamo rilevare non solo che in alcuni giovani si sono già verificati profondi cambiamenti nella concezione per esempio, del lavoro e della vita, ma anche come i nuovi modi di predazione economica facciano perdere la normale capacità lavorativa e di reazione, probabilmente la più importante è quest’ultima.
Cent’anni fa, l’urbanista francese Georges Haussmann, nel dirigere le trasformazioni su vasta scala del centro parigino trasformò i vicoli nei celebri boulevard. Cogliendo nel segno, Walter Benjamin rilevò come un simile movimento per l’ abbellimento urbano, che coniugava arte e tecnica, si fosse trasformato in un progetto di abbellimento strategico della borghesia. Per esempio, le rilocazioni e le requisizioni dei terreni promosse da Georges Haussmann diedero avvio ad una ondata speculativa e di truffe, ma nel corso delle rilocazioni la gente cominciò a rendersi conto dell’aspetto disumano delle grandi città e a cominciare a provare un senso di estraneità. In una parola, in questo periodo si verificò un cambiamento nella percezione della città. Thomas Bender rileva ulteriormente che nel corso delle grandi trasformazioni edilizie di Haussmann non solo i poveri persero il senso di appartanenza ma si creò un danno anche per la classe media: anch’essa ebbe la sensazione che questa nuova città costruita per lei fosse difficile da usare: Nel trovarsi di fronte a nuovi spazi aperti e a grandi viali vuoti non riuscivano a muoversi, erano paralizzati. Questa perdita della capacità di muoversi fu definita da uno psicologo berlinese “agorafobia”.
Esistono molte cause che provocano cambiamenti nella percezione che gli uomini hanno delle cose, ma il consumismo collegato al processo di edificazione urbana è una di quelle principali. Per esempio, se il fine della costruzione di metropolitana è quella di trainare il mercato immobiliare, la nostra percezione della metropolitana, se non sarà di odio profondo, sarà almeno di amore e odio.
Un altro esempio, rilevato da un internauta: una volta, nel movimento di abbellimento delle città cinesi, coesistevano i due fenomeni della “trasformazione naturalistica” e del “ripristino dell’antico”: realizzare rivi, zone verdi, boschetti, ciocchi d’albero di cemento, case all’antica, vicoli sciangaiesi, ecc... Il ripristino naturalistico probabilmente non ha alcunché di sbagliato, ma la questione è, nel corso dell’odierno riprestino della natura nelle città, la funzione di tali ripristini cambia, e trasforma ulteriormente il nostro rapporto con le cose, facendo decrescere di conseguenza la nostra capacità di restare impressionati. I ruscelli tortuosi creati dalle agenzie immobiliari nei comprensori mirano a vendere a un prezzo più alto le case sulle sponde con vista panoramica; ma si mira a trarne un profitto, a realizzare guadagni ancora maggiori.
Se il panorama è ancora più bello, le sensazioni di chi l’ammira si complicano. Dunque, oggigiorno il valore d’uso di molte “cose” è ormai mutato, esse sono svuotate del loro significato originario, ne resta solo il segno, il senso originario delle cose è ormai mutato. La trasformazione nella funzione del panorama naturale non si limita ai ruscelli e agli alberi. Quando usiamo case alla maniera antica in sostituzione delle vecchie case demolite, nel momento stesso che le riconosciamo, ne cancelliamo la storia.
Un’altra questione connessa a queste è quella dell’identità culturale delle città: come consideriamo il problema della pluralità culturale delle città? come consideriamo la diversità culturale? Nell’oggi globalizzato, ovvero omologato, cercare la pluralità culturale naturalmente è teoricamente legittimo, ma tuttavia non sempre è possibile perseguire fino in fondo la logica della diversità. Perciò, quando si riflette alla pluralità della vita urbana, abbiamo bisogno di superare il modello dell’opposizione binaria semplice. Ad esempio, per i difetti della città, vagheggiare la campagna; per il ritmo frenetico delle città moderne, resistere con la lentezza; per le manchevolezze delle metropoli, privilegiare il piccolo; per l’omologazione recata dalla globalizzazione, considerare senz’altro buona la pluralità.
Noi dobbiamo andare oltre questa ecologia urbana astratta. In The death and life of great american cities [tr. it. “Vita e morte delle grandi città”, Torino, Einaudi, 2009], Jane Jacobs afferma che bisogna rispettare “la diversificazione spontanea della popolazione urbana”, sull’ipotesi teorica di opporsi con tale diversificazione all’uniformazione dell’ordine sociale nelle città e al loro appiattimento sui gusti della borghesia. Tuttavia, David Harvey chiede: se si rispetta tale “estetica della diversità”, in qual modo “i senza tetto potranno essere interpretati come autodiversificazione spontanea?”.
È mai possibile che la ricetta della diversificazione che noi diamo ai poveri delle città sia una difesa della libertà e del diritto di dormire sulle panchine dei giardinetti? Per esempio, come consideriamo oggi le molteplici varietà di sottocultura urbana? in che misura hanno un significato di opposizione alla cultura dominante? oppure fanno tutt’uno con essa, all’interno delle logiche della cultura capitalistica? Non dobbiamo dimenticare che, quando resistiamo con la diversificazione alla struttura omologata dominante, anche il capitalismo si impadronisce e mette a frutto la diversità, al punto che anche il modello metropolitano unico, le sottoculture e le città satelliti ne sono un esempio. Dietro l’enfasi sulla diversificazione culturale, opera una forma di dominio unificata e ossificata.
A proposito di cultura urbana, la diversificazione è accettata con più facilità del modello integrato, perché nei geni delle persone sembra essere insita una richiesta di diversità.
Nei cultural studies, si prova un senso generalizzato di terrore nei confronti dell’idea di modello integrato che si ritiene essere artificiale, di Stato, addirittura totalitario, mentre la diversità “è primaria, naturale, più autentica” e dunque se ne deduce che la cultura diversificata è oppressa da quella integrata.
Se noi ammettiamo che la cultura dica agli uomini qual è lo scopo e il senso del vivere, che discutere di cultura significhi discutere e scegliere un modello di vita migliore, allora oggi probabilmente abbiamo un bisogno anche maggiore di condividere una cultura che sia un tutto integro alla ricerca di una vita bella a disposizione di tutti, di precisare la nostra soggettività, altrimenti, tu hai il cane, io allevo uccelli, il cane ha la sua cultura, l’uccello pure, non entrano in contatto vita natural durante: le differenze diventano relativismo e nichilismo culturale e l’approdo sarà il dilagare dell’individualismo urbano, o, come disse una volta Zhang Ailing, “il nostro spudorato egoismo e cinismo”.
Luxun ricorse a una metafora per descrivere l’indifferenza del cittadino: nello stesso palazzo, l’uno piange un morto, l’altro canta, altri ancora litigano, e ne trasse l’idea che “gioie e dolori non sono comunicabili”. Egli individuò una “malattia della contemporaneità” nelle città cinesi e fece di conseguenza appello alla “letteratura e all’arte” – questo fuoco dello spirito nazionale – per guidare e riscaldare i cuori, sentire i sentimenti altrui, infrangere le barriere fra gli uomini. Di fronte a una struttura di dominio che decide a suo arbitrio, bisogna cercare e creare una nuova universalità, onde sostituire il modello integrato fisso. Ovvero, con la premessa della diversità, abbiamo sempre bisogno di un’unità culturale superiore, che travalichi la diversità. Solo la condivisione di una cultura comune o di una nuova universalità può essere la via per rompere l’assedio.
Questa è parimenti la direzione da prendere nei valori dello sviluppo urbano futuro, se noi siamo ormai consci dei guasti dello sviluppo urbano moderno occidentale, allora dobbiamo riflettere al problema di come creare una nuova soggettività urbana o soggettività culturale urbana. Con “soggettività” si intende qui non soltanto l’incarnazione delle “caratteristiche cinesi”, di cui non si vuole certo enfatizzare la diversità, unicità o irriproducibilità, ma si vuole sottolineare che oggi, nell’ “emergere della Cina”, i Cinesi devono contribuire con immaginazione urbana a una “verità universale” veramente fattibile.
Prima dell’EXPO, a Sciangai non si fece che discutere di “spirito urbano”.
Quello di Sciangai non è lo stesso di quello di New York, né di quello di Nuova Delhi, né è il guazzabuglio di “tutte le strade portano a Roma”, lo spirito urbano di Sciangai dovrebbe essere cercato nel corso stesso dello sviluppo urbano cinese.
Le trasformazioni delle città cinesi non sono certo cominciate negli anni novanta del secolo scorso, essere sono costantemente in corso dalla fondazione della Cina, ma, ripercorrendone la storia, si possono rilevare progetti di rifondazione differenti e differenti idee di città. Per esempio, costruire belle città lussuose, oppure costruire città austere ed econome, città produttive o città consumatrici ecc. Il giorno in cui potremo immaginare un futuro comune, un senso comune, avremo un’idea esatta delle particolarità della nostra stessa storia.
Sotto questa angolazione, noi non stiamo semplicemente discutendo di città, né della ricerca di un buon modo di vita da mettere in pratica, ma discutiamo di via cinese, immaginiamo il mondo, ciò che richiede da noi una teoria creativa della cultura; come ha detto uno studioso in un suo libro, una prassi politica efficace dipende sempre dal superamento di una teoria della cultura.
Riguardo le città cinesi di oggi, non si finirebbe mai di parlarne, ma poiché le questioni ci portano troppo lontano, spesso non ci proviamo neanche. A differenza dei seminari specialistici, questa discussione si è sviluppata sul forum “Disgelo” della nostra rete e poi ha attirato l’attenzione dei media, a parteciparvi sono stati perlopiù studenti universitari e delle scuole superiori e cittadini. Nelle discussioni svoltesi in varie librerie, è intervenuto spesso chi era lì per comprare un libro o bere un tè, facendo la spola con la sala di riunione, sul posto c’era molta “mescolanza”, si fermava di continuo gente non del mestiere, alzava la mano e prendeva la parola.
Per la prima volta abbiamo dato una valutazione della nostra città come semplici “cittadini”, senza ricorrere a troppi tecnicismo da studiosi delle città, ma raccontando esperienze e ricordi della città nella quale abitiamo. C’è una grande disparità di opinioni sull’origine delle città, a Occidente e Oriente si hanno idee diverse, ma secondo un punto di vista in inglese il termine metropolis significa “città madre”, ovvero la città-Stato di origine detto in contrasto con la nuova città-Stato fondata dai coloni. Si dice che all’epoca tutte le nuove città-Stato fossero autonome, stessero localmente su un piano di eguaglianza con la città madre, questo è il significato di città-Stato, ed è anche l’origine della politica (politics) odierna, nata dalla vita nelle città-Stato.
Parimenti, il termine inglese idiot (idiota) viene dal greco, dove indicava l’uomo che non prende parte alla vita comune della città[5]
Che sia esatto oppure no, almeno ci dice che tutti discutono della città di tutti.
[2] Forma di ripartizione basata sulla cumulatività, in base alla quale ogni nuova risorsa che si renda disponibile viene ripartita fra i partecipanti in proporzione a quanto hanno già.
[3] In cinese yingpanren, da yingpan (normalmente hard disk) che in questo caso sta per westerni digital (disk), le cui iniziali, WD, sono quelle della parola cinese waidi “fuori, altrove”
[4] Fenghuangnan
[5] Thomas Bender, Dangdai dushi wenhua yu xiandaixing wenti (“La cultura metropolitana contemporanea ela questione della modernità”.
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