Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Dalla VII Lettera di Platone

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A quali condizioni si devono dare consigli

Dopo di ciò, finalmente partii e poi, in seguito ai pressanti inviti di Dionigi, nuovamente tornai. Per quanto concerne la correttezza e la coerenza della mia azione e i motivi che l’hanno originata, per prima cosa vi consiglio sul comportamento che va tenuto nelle circostanze attuali, poi affronterò anche questo tema per coloro che mi chiedono che cosa mi prefiggevo col mio secondo viaggio in Sicilia. In tal modo, eviterò il rischio che nel discorso si confonda il superfluo con l’essenziale. Ed ecco che ho da dire.

Il primo dovere di chi dà consigli a un uomo infermo che segue una dieta [D] nociva alla salute è quello di cambiar sistema di vita; le altre indicazioni verranno solo se egli accetta con convinzione queste disposizioni. Se, invece, non vuole lasciarsi convincere, un vero uomo e un medico che io possa stimare tali rifuggiranno dal dargli altri consigli, perché chi continuasse a fare ciò sarebbe tutto l’opposto di un vero uomo e di un esperto di medicina. Lo stesso vale anche per lo Stato, sia quello in cui uno solo ha il potere, sia quello dove molti comandano. In effetti, se lo Stato procede sulla retta via, come si deve, e ha bisogno [E] di qualche utile consiglio, sarebbe una scelta intelligente darglielo, dato che si tratta di gente per bene. Ma io chiamerei uomini senza dignità chi accettasse di dare suggerimenti a quei politici che sono completamente fuori strada per quanto riguarda la giusta forma di governo e non vogliono rimettersi in carreggiata per nessun motivo, ed anzi obbligano i loro consiglieri a non modificare la costituzione e a lasciarla com’è, [331 A] pena la morte, forzandoli a prendere decisioni finalizzate alle loro voglie e ai loro desideri, per vedere in qual modo questi possano essere soddisfatti sempre più agevolmente e prontamente. Viceversa, chiamerei vero uomo chi non accetta di dare consigli in queste condizioni.

Attenendomi saldamente a tale criterio, quando uno chiedesse il mio parere sui problemi più importanti della sua vita – ad esempio l’acquisto di beni materiali o [B] la cura del corpo e dell’anima -, se mi risulta che egli vive giorno dopo giorno secondo una certa regola e, una volta orientato, è disposto a seguire le indicazioni che gli si danno, ben volentieri io gli darei consigli, e con lui non mi fermerei ad un rapporto superficiale.

Invece, io non andrei mai di mia spontanea iniziativa a consigliare uno che non sente affatto il bisogno dei miei suggerimenti e che, chiaramente, quand’anche li ricevesse non ne farebbe tesoro in alcun modo; neppure se fosse mio figlio lo forzerei in tal senso. Se fosse uno schiavo, però, gli darei ordini e pur contro la sua volontà, lo obbligherei a eseguirli. [C]

Non credo, poi, che sia lecito costringere a un certo comportamento il padre e la madre, anche se la condotta che essi hanno scelto non dovesse andarmi a genio, a meno che non siano stati colpiti da una malattia mentale. Non ha senso, infatti, né rendersi odiosi con continui ammonimenti, né diventare loro succubi a suon di lusinghe, soddisfacendo a desideri per i quali io stesso non vorrei vivere.

E’ questa, dunque, la mentalità che ogni uomo di senno dovrebbe avere riguardo alla sua città. Faccia sentire la sua voce se [D] lo Stato non gli pare ben amministrato, se pensa che le sue parole non cadranno nel vuoto, e se in tal modo non rischia la vita. Ma non ricorra alla violenza per costringere la patria a mutar regime, tanto più se questo suo miglioramento dovesse avvenire al prezzo di esili e stragi di cittadini. Stia calmo piuttosto, ed auguri prosperità a se stesso e alla collettività.

I consigli di Platone a Dione e a Dionigi

Dunque, solo a queste condizioni, io sono disposto a darvi consigli. E, del resto, è proprio sulla base di tali premesse che, insieme con Dione, cercavo di guidare Dionigi a diventare sempre più padrone di sé [E] e a procurarsi amici e collaboratori di fiducia onde evitare gli errori del padre, il quale, preso possesso di molte e grandi città della Sicilia messe a sacco dai barbari, non fu in grado, al momento della loro ricostruzione, di consolidarle con forme di governo affidate a uomini della sua cerchia. [332 A] Non importava che si fosse trattato di un qualche straniero o di un fratello, l’essenziale era che fossero persone più giovani di lui, da lui stesso formate ed elevate dalla condizione di oscuri cittadini a quella di comandanti e da poveri in gente straordinariamente ricca. Resta il fatto che, nonostante l’impegno, non ci fu verso di trasformare costoro in collaboratori nel governo né facendo opera di convincimento, né con l’educazione, né con le buone maniere e neppure contando sui vincoli familiari.

In tal senso Dionigi fu sette volte inferiore a Dario, il quale non ripose la sua fiducia né nei fratelli, né in uomini da lui stesso formati, ma solo in quelli che avevano preso parte con lui al colpo di mano [B] contro l’eunuco di Media. Fra costoro Dario divise l’impero in parti più estese dell’intera Sicilia, potendo contare sulla loro fedele collaborazione senza che questi tentassero di sopraffarsi a vicenda o di sopraffare lui stesso. Con ciò egli fornì il modello di quello che avrebbe dovuto essere un buon legislatore e un buon sovrano, tant’è vero che le leggi che diede ancor oggi permettono allo Stato persiano di sopravvivere. Peraltro, anche gli Ateniesi non colonizzarono le numerose città della Grecia a suo tempo invase dai barbari, [C] ma se ne impossessarono quando ormai erano popolate; eppure per settant’anni riuscirono ad averne il controllo, in quanto in ciascuna di esse si procurarono alleati.

Dionigi, invece, che pure era riuscito a unificare l’intera Sicilia in un unico stato, e che sospettoso com’era non si fidava di nessuno, riuscì a stento a salvare se stesso. Restò privo di amici fedeli, e non c’è prova migliore della virtù e del vizio di uno che la carenza o l’abbondanza di amici di tal genere.

Ecco dunque i suggerimenti che io a Dione davamo a Dionigi, [D] dal momento che il padre l’aveva cacciato in una gran brutta situazione: quella di mancare di educazione, e quella di non poter contare sulle giuste amicizie. Alla fin fine, lo esortavamo soprattutto a darsi da fare per trovare altri tipi di amici fra i congiunti e i coetanei, persone che condividessero con lui l’aspirazione alla virtù e in particolare ad essere in armonia con se stesso, perché appunto di questo aveva un assoluto bisogno.

Certo il nostro modo di esprimerci non era così esplicito – non volevamo correre rischi -, ma parlavamo per allusioni e cercavamo di sostenere le nostre tesi con forza di argomentazioni, mostrando che chiunque si fosse comportato nel modo che dicevamo avrebbe assicurato a sé e ai suoi sudditi la sopravvivenza, [E] mentre seguendo altre strade avrebbe raggiunto risultati del tutto opposti . Se, dunque, si fosse mosso nella direzione indicata, facendosi saggio e temperante, riformando le città della Sicilia ormai abbandonate e le avesse legate con vincoli giuridici e istituzionali, sì da farsele amiche e renderle solidali fra loro nel difendersi contro i barbari, [333A] non si sarebbe limitato a raddoppiare il potere del padre, ma l’avrebbe addirittura più volte moltiplicato. Dopo di che, invece di essere costretto, come ai suoi tempi lo fu suo padre, a versare un tributo ai barbari, sarebbe stato pronto a piegare la resistenza dei Cartaginesi molto meglio di quanto aveva fatto Gelone . Ecco dunque il tenore degli inviti e delle esortazioni che rivolgevamo a Dionigi.

Le calunnie contro Dione e il suo assassino

Intanto, però, da più parti si andava ripetendo che noi macchinavamo una congiura ai danni di Dionigi, talché questi discordi fecero breccia nel suo animo, causando l’esilio di Dione e in noi [B] uno stato di timore. Ma per completare il quadro di questi numerosi avvenimenti che si concentrarono tutti in poco tempo, Dione, di ritorno dal Peloponneso e da Atene ebbe modo di dare una bella lezione a Dionigi coi fatti. Però, dopo che ebbe per due volte liberato la città, restituendola ai Siracusani, costoro ricambiarono allo stesso modo con cui l’aveva ricambiato Dionigi, allorché egli cercava con l’insegnamento e con una educazione di renderlo degno del comando, sì da poter vivere con lui in comunità di intenti; in pratica Dionigi aveva dato ascolto a chi [C] calunniosamente insinuava che Dione faceva quel che faceva in quei frangenti per far cadere la tirannide sulla base di questo piano: mentre Dionigi era completamente preso dalla sua educazione, si sarebbe disinteressato del governo e l’avrebbe ceduto a lui. Così, alla fine, Dione gli avrebbe usurpato il potere esautorandolo con l’inganno. Questa maldicenza ebbe allora il sopravvento e poi l’ebbe ancora una seconda volta, allorché si diffuse presso i Siracusani; fu però una vittoria insensata, causa di vergogna per chi ne fu l’artefice.

Bisogna dunque che le persone che oggi chiedono il mio aiuto nelle attuali circostanze stiano a sentire come a quei tempi andarono le cose. [D]

Io, cittadino ateniese, amico di Dione, suo alleato, mi recai dal tiranno per cambiare in amicizia un rapporto di ostilità; combattei contro i calunniatori, ma ne fui sconfitto. Tuttavia, per quanto Dionigi con onori e ricchezze cercasse di tirarmi dalla sua parte per usarmi come prova a favore della legittimità dell’esilio di Dione,in questo fallì miseramente.

Dopo qualche tempo Dione, ritornando in patria [E] si fece accompagnare da due fratelli provenienti da Atene. La loro amicizia non era fondata sul comune interesse per la filosofia, ma su quella familiarità superficiale che di solito sa all’origine della maggior parte delle amicizie; si trattava di un sentimento che nasceva dall’ospitalità e dalla comune iniziazione e partecipazione ai misteri. Questi dunque erano gli amici che Dione aveva portato con sé; e gli erano cari, oltre che per motivi menzionati, anche per l’aiuto che gli avevano dato nel viaggio di ritorno. Come però giunsero [334 A] in Sicilia, non appena si resero conto che Dione era ingiustamente sospettato da parte di quegli stessi Siciliani a cui aveva restituito la libertà di tramare per diventare tiranno, non si limitarono a tradire in Dione l’amico e l’ospite, ma sembra perfino che fossero esecutori materiali del suo omicidio, divenendo complici in armi dei suoi assassini. Ora io sono ben lungi dal voler sminuire la gravità del loro comportamento vergognoso ed empio, né d’altra parte intendo soffermarmi su di esso – non mancano gesta di tal genere, [B] né mancheranno in futuro- ; quello che mi preme dire, riguarda invece gli Ateniesi, contestando il fatto che questi individui abbiano potuto coprir di vergogna la Città; faccio notare che anche quello che non lo abbandonò, nonostante le ricchezze e i molti onori che avrebbe potuto trarre da questo suo gesto, era ateniese. Questi però non era legato a lui da un’amicizia di bassa lega, ma dalla condivisione di una educazione liberale; e d’altra parte l’uomo intelligente non fa mai affidamento sulle affinità psicologiche e fisiche, ma solo su questo tipo di amicizia. In tal senso, dunque, [C] gli assassini di Dione non procurarono alcun danno al buon nome della Città, in quanto non son degni di alcuna considerazione.

Excursus filosofico

Gli elementi della conoscenza

Ciascuna delle cose che sono ha tre elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla; quarto è la conoscenza [B]; come quinto si deve porre l’oggetto conoscibile e veramente reale. Questi sono gli elementi: primo è il nome, secondo la definizione , terzo l’immagine, quarto la conoscenza. Se vuoi capire quello che dico, prendi un esempio, pensando che il ragionamento che vale per un caso, vale per tutti. Cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro, questa è la definizione di ciò che [C] ha nome rotondo, circolare, cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce; nulla di tutto questo subisce il cerchio in sé, al quale si riferiscono tutte queste cose, perché esso è altro da esse. Quarto è la conoscenza, l’intuizione e la retta opinione intorno a queste cose: esse si devono considerare come un solo grado, ché non risiedono né nelle voci né nelle figure corporee, ma nelle anime, onde è evidente che la conoscenza è altra cosa dalla natura del cerchio e dai tre [D] elementi di cui ho già parlato. La intuizione è, di esse, la piú vicina al quinto per parentela e somiglianza: le altre ne distano di piú. Lo stesso vale per la figura diritta e per la figura rotonda, per i colori, per il buono per il bello per il giusto, per ogni corpo costruito o naturale, per il fuoco per l’acqua e per tutte le altre cose simili a queste, per ogni animale, per i costumi delle anime, per ogni cosa che [E] si faccia o si subisca. Perché non è possibile avere compiuta conoscenza, per ciascuno di questi oggetti, del quinto, quando non si siano in qualche modo afferrati gli altri quattro.

La superiorità della conoscenza delle essenze

Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno [343 A] la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. Bisogna però che io spieghi di nuovo quello che ho detto. Ciascun cerchio, di quelli che nella pratica si disegnano o anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario del quinto, perché ogni suo punto tocca la linea retta, mentre il cerchio vero e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria. Quanto ai loro nomi, diciamo che nessuno ha [B] un briciolo di stabilità, perché nulla impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando le cose col nome contrario, avrebbero lo stesso valore. Lo stesso si deve dire della definizione, composta com’è di nomi e di verbi: nessuna stabilità essa ha, che sia sufficientemente e sicuramente stabile. Un discorso che non finisce mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri; ma l’argomento principale è quello al quale ho accennato poco fa, e cioè che, essendoci due princípi, la realtà e la [C] qualità, mentre l’anima cerca di conoscere il primo, ciascuno degli elementi le pone innanzi, nelle parole e nei fatti, il principio non ricercato; in tal modo ciascun elemento, quello che si dice o che si mostra ce lo presenta sempre facilmente confutabile dalle sensazioni, e riempie ogni uomo di una, per cosí dire, completa dubbiezza e oscurità. E dunque, là dove per una cattiva educazione non siamo neppure abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo delle immagini che ci si offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati di fronte agli [D] interroganti, capaci di disperdere e confutare i quattro; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il quinto, uno che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti che chi espone un pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di quello che dice o scrive; e questo avviene appunto perché quelli che ascoltano ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene confutata, ma la imperfetta [E] natura di ciascuno dei quattro.

A che condizioni si verifica la conoscenza intellettiva

Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che a sua volta ha buona natura. Se invece uno non ha una natura buona, come avviene per la maggior parte degli uomini, privi d’una naturale disposizione ad apprendere e incapaci di vivere [344 A] secondo i cosiddetti buoni costumi, e questi sono corrotti, neppure Linceo potrebbe dar la vista a gente come questa. In una parola, chi non ha natura congenere alla cosa, né la capacità d’apprendere né la memoria potrebbero renderlo tale (ché questo non può assolutamente avvenire in nature estranee); perciò quanti non sono affini e congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a conoscere, per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtú e sulla colpa, anche se abbiano capacità d’apprendere e buona memoria chi per questa e chi per quella cosa, né la conosceranno quelli che, pur avendo tale natura, [B] mancano di capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti insieme si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi [C] compie tutti gli sforzi che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose piú serie, perché queste egli le serba riposte nella parte piú bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero piú [D] profondo, "allora, sicuramente"; non certo gli dèi, ma i mortali "gli hanno tolto il senno".

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