Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Il “socialismo di mercato” in Cina

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· Sentir dire a Pechino che “esiste in Cina come ovunque una destra e una sinistra” è certamente positivo, se si pensa al carattere unanimistico dei discorsi del socialismo di ieri e del “pensiero unico” del capitalismo liberale in Occidente. Il dibattito contrappone i molti sostenitori di un capitalismo mondiale, ai sostenitori della proposta socialista
· La discussione a sinistra è limitata all’insufficiente analisi della fase maoista (1949-78), anche se vi è accordo su alcuni punti essenziali 1) nel 1952-78 il Pil è cresciuto del 6,2%, tasso di crescita doppio rispetto all’India 2) l’ineguaglianza è stata ridotta a un livello minimo, con un coefficiente di Gini oscillante fra lo 0,16 e lo 0,22
· Rimangono le differenze regionali e fra città grandi-medie-campagna
· Secondo Liu Wenpu la povertà in Cina rimaneva solo nelle campagne, e anche qui andava gradualmente scomparendo, mentre la tragedia delle bidonville che ha sostituito quella dei contadini senza terra è un fenomeno generale nel mondo capitalistico periferico
· La situazione non può essere ridotta ai soli tassi di crescita analizzati dagli economisti, perché la rivoluzione cinese ha restituito al popolo cinese la dignità e l’unità, oltraggiata dalla aggressione imperialista, creando un clima di solidarietà sociale
· William Hinton nota co0me al contrario della riforma in Unione Sovietica avutasi a partire dagli anni ’30, quella cinese è stata sostenuta dallo stesso mondo contadino; anche se gli errori – spesso non riconosciuti – ci sono stati, tra cui anche quello di non prevedere una fase di transizione
· Hinton dimostra anche come non ci siano prove o tracce demografiche di quella immensa “carestia” e dei “crimini” provocati dalla rivoluzione culturale
· c’erano comunque delle distorsioni, come la concentrazione sulle industrie pesanti piuttosto che sul terziario, anche se particolare attenzione era data al settore cereagricolo, garantendo la propria sicurezza alimentare meglio di altri Paesi del Terzo Mondo, attraverso il mantenimento di 4/5 della popolazione nelle campagne (e non creando le bidonville)
· lo sforzo nelle industrie di base è andato troppo oltre, e poiché l’investimento nelle industrie pesanti non dava troppo lavoro, la manodopera rurale in eccedenza è rimasta, e in parte si è ricollocata nelle industrie urbane, con sforzo insufficiente nell’industria leggera e nei servizi (e l’efficienza degli investimenti decrescevano a mano che aumentavano queste distorsioni)
· la direzione della Cina dal 1978 è quella di “attraversare il fiume per piccoli passi, passando da un sasso all’altro”, con evidenti implicazioni micro e macroeconomiche, con una riforma basata sul principio della divisione del sistema, in cui uno Stato proprietario esclusivo era efficace fintanto che si fosse dovuta creare una base solida per l’industrializzazione e la produzione agricola; ma in un contesto di aumento della domanda, si dovevano abolire controlli amministrativi, consentire spostamenti individuali, aumentare occupazione e redditi
· ma questo è anche il motivo per cui la situazione cinese non è pessima come i Paesi del Terzo mondo capitalista; e ciò in progressive tre fasi che vanno dalla responsabilizzazione delle famiglie dopo la scomparsa delle comuni (1978-84), diffusione delle regole di mercato ed allocazione microeconomica delle risorse (1984-91), imposte sui profitti (uguali sia per imprese private che pubbliche) piuttosto che imposte dirette (dal 1992)
· l’opzione scelta è quella di un sistema relativamente centralizzato, nel senso che le autorità locali non hanno diritto a mantenere un’economia locale in deficit e che il tipo di fiscalità che possono imporre è determinato dalle autorità centrali; anche se ciò non risolve le ineguaglianze sociali ma le riproduce (prelievo del 30% nelle regioni più povere, e del 120% in quelle più ricche), senza una sostanziale redistribuzione
· la razionalità capitalistica non produce una allocazione ottimale delle risorse, così come non lo fa una proprietà esclusivamente pubblica, ma politiche macro e microeconomiche devono essere armonizzate, e la Cina si trova nel mezzo fra pianificazione centralizzata e pura libertà dei mercati, un “socialismo di mercato”, che continua il trend positivo, soprattutto a livello di consumi, posto dalle basi maoiste
· La strategia scelta è infatti come quella indiana, ma le basi poste sono diverse, e il divario tra i due (come sta accadendo) si dovrà attuare: il tutto è fondato sul vantaggio comparato della manodopera buon mercato, che non massimizza lo sviluppo ma è fonte di sprechi crescenti e aumenta le disuguaglianze sociali
· È negli ultimi 20 anni che è cresciuto molto il settore dei servizi ed è diminuito dal 56% (1978) al 41% (1996) il ruolo dello Stato
· Si costruisce una nuova classe media di professionisti e piccoli imprenditorie i “nuovi ricchi”, grandi imprenditori che per lo più si associano allo Stato o a imprese straniere; c’è poi stata la urbanizzazione della popolazione con l’abbattimento della barriera amministrativa delle campagne, che paradossalmente ha fatto aumentare i licenziamenti e la disoccupazione (alto turn over); creando più “carestie” dell’epoca maoista
· Le aziende rurali sono ancora centinaia di migliaia e si appoggiano per lo più agli organismi locali, distribuite in modo omogeneo a vantaggio dei distretti ricchi
· Amir non ha mai visto nelle campagne cinesi una miseria estrema su vasta scala come nei Paesi del Terzo Mondo
· ad ogni modo il sistema dei salari e dei prezzi, omogeneo in tutto il paese, dava alle città un grande vantaggio rispetto alle campagne, che risentivano delle differenze regionali
· se c’è meno ineguaglianza apparente città-campagne in India, o nel resto del Terzo Mondo, lo si deve semplicemente al fatto che la povertà è simile sia in città che in campagna
· Amir è scettico sulla riduzione della povertà incentrata su progetti ad hoc, in assenza di una pianificazione centrale a livello nazionale che si assuma questo obiettivo, come quelli della Banca Mondiale
· Le ineguaglianze negli ultimi anni si sono accentuante con le regioni costiere, ma non solo perché a più stretto contatto col capitalismo mondiale e sedi di innovazione industriale, ma i motivi sono più complessi: crescita della produzione agricola favorita della domanda urbana, subappalti concessi da industrie rurali a piccole industrie urbane che niente hanno a che fare col capitalismo mondialeLa pianificazione maoista è stata relativamente efficace nella eliminazione delle ineguaglianze, ma il capitalismo l’ha accentuata (priorità ai mercati esterni e all’Est della Cina), tanto che una pianificazione centrale può correggerla


Fonti:
Samir Amin, Il capitalismo del nuovo millennio, Il punto rosso, 2001

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