Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

John Stuart Mill e la concezione del governo libero dalla fase più giovanile a quella più matura

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John Stuart Mill. Sulla libertà.

Introduzione


Analizzare la produzione di John Stuart Mill significa, innanzitutto, delineare il profilo di un autore che ha cercato di inquadrare storicamente e nella maniera più ampia possibile gli aspetti del suo dire. Non è semplice ripercorrere il pensiero milliano in poche righe, anche se è facile trovare un filo conduttore dell’intellettuale londinese sotto molteplici aspetti: in tutti i suoi scritti traspaiono, infatti, punti-cardine imprescindibili sia dal contesto storico in cui è vissuto, sia dalla sua formazione umanista e positivista, influenzata nella fase più acerba della sua esistenza dal fare del padre e dal precettore Bentham. Nonostante ciò, la sua autonomia di pensiero, lo colloca in una posizione differente rispetto agli uni, e rispetto ad altri autori del suo tempo.


Qui si è cercato di indagare – più o meno bene – non solo il pensiero milliano in riferimento al tema del “governo libero” particolarmente presente nelle sue Considerazioni, ma anche i collegamenti e le trasposizioni che di esso si possono trovare in altre sue opere, a partire dalle affermazioni su di una libertà imprescindibile dall’educazione e dalla moralità (Essay on liberty), passando per quell’esperienza che sta alla base del Sistema di Logica e per quel socialismo/liberismo economico da confrontare con ciaò che attiene alla libertà individuale e sociale (Principi di economia politica), fino ad arrivare ad estrinsecare la tesi di un Dio che ha bisogno dell’uomo quasi – e forse più – di quanto un uomo indipendente abbia bisogno di Dio (Saggi sulla religione).
Riunendo i suddetti aspetti, e aggiungendone molti altri, si arriverà alla formulazione di un concetto di governo libero, dove non solo è necessario il suffragio universale, ma in cui la tutela delle minoranze, il rispet-to della donna, il principio della rappresentatività, il progresso della moralità, faranno sì che l’essenza di quell’individuo e l’essenza della società tutta migliorino continuamente in un lento inarrestabile scorrere.

Appare imprescindibile, per conoscere John Stuart Mill, non parlare della sua infanzia e giovinezza, e dell’influenza che ha avuto su di lui il padre: già ad otto anni infatti, da quel 10 maggio 1806, aveva compiuto gli studi sul greco e sugli autori greci e iniziava quelli sugli autori latini.
La cultura appresa se la porta costantemente dietro e, anche se si rimprovererà più volte di mancanza di senso pratico, diverrà ben presto precettore di molte famiglie scozzesi, avendo abbracciato la carriera ecclesiastica quale predicatore della Chiesa di Scozia.
La fase giovanile londinese di Mill si estrinseca in tre direttrici principali, rappresentate da una parte dalla sua ammirazione per Ricardo e le sue teorie sulla popolazione, dall’altra dal pensiero utilitaristico del padre e di Bentham. Il padre, per una serie di deduzioni logiche, era arrivato a disprezzare la religione sotto qualsiasi forma, e questo passa completamente nelle convinzioni del figlio; allo stesso tempo, per connettere l’utilitarismo alle credenze filosofiche antiche, lo ricollega allo sconfessamento epicureo del piacere. È la Storia delle Indie coordinata dal padre che compie l’educazione del Mill giovane, sebbene non si riconosca nella radicalizzazione delle posizioni paterne a seguito della soppressione nel 1858 della Compagnia delle Indie.
Se il padre fu l’educatore, Bentham, che conosce a sei anni, fu il moderatore della gioventù e colui che lo fece specializzare in lingua e letteratura francese, anche per mezzo della “dolce vita” 1 del continente, di una Francia brillante, disinteressata e devota ai sentimenti dell’amicizia, all’opposto di una personalità inglese chiusa e calcolatrice. Una Francia che l’affascina sia per la rivoluzione di Luglio, sia per i contenuti girondini (sconfitti inizialmente dal giacobinismo e dal bonapartismo) circa un governo democratico rappresentativo presentato all’indomani del 1789.
A rendergli evidente il principio benthamiano è il Trattato di legislazione del Dumont di Ginevra, coadiuvato dall’Analisi dello Spirito del padre che l’avvicina all’analisi psicologica, ma anche economica, attraverso l’arma della logica, così come lo studio della Rivoluzione Francese completa la sua idea di una società mossa dallo spirito dell’utile, una lotta costante al pregiudizio aristocratico per cui si pensa che il ricco sia superiore al povero.
I suoi pensieri lineari, severi, ma non declamatori, lo avvicinano all’arte oratoria e all’idea della fondazione di una società Utilitaria con Graham, Grote e i fratelli Austin e alla socialista e benthamiana Rivista di Westminster, nata in opposizione alla moderata Edimburgo e alla liberale Quarterly. Il primo articolo fu del padre, scritto con l’intento di smascherare il circolo vizioso della Costituzione inglese, per via del quale un corpo aristocratico bipartitico con maggioranza e opposizione, e coadiuvato dall’opinione pubblica per la conquista del potere, in realtà non scarificava nulla di quella stessa preponderanza aristocratica.
Capire attraverso questi pochi cenni chi fosse Mill non è facile, anche perché forti sono i legami tra autori, società e pensiero politico: lo spirito della Rivista di Westminster ricalca infatti in pieno i sentimenti politici del XIX secolo inglese attraverso la volontà di dibattere sull’importanza del governo rappresentativo, sull’importanza di una completa libertà di discussione, sul disprezzo dei princìpi aristocratici e oligarchici qualsiasi forma avessero. Perfino in etica prevalevano sentimenti energici e rigidi verso il bene dell’umanità e contro la moralità volgare, mentre in psicologia si guardava alla formazione del carattere dell’uomo e la possibilità di una perfezione illimitata morale e intellettuale. Ed, infatti, Mill abbandona la rivista quando degenera, nel 1826, anno della crisi delle sue idee: inizia a pensare che la sua felicità non si sarebbe compiuta nemmeno se la società avesse raggiunto quell’ideale che lui si era preposto.
Nel frattempo, però, si rende conto, attraverso le Memorie di Marmontel, dell’auspicabilità della felicità non nell’immediato ma nel lungo periodo: è la Democrazia in America di Tocqueville che relativizza in lui il principio benthamiano rendendolo più malleabile alle esigenze della società, con la convinzione che utilità e dannosità, bene e male, fossero strettamente impressi nei sentimenti dell’educazione e del senso morale. Qui, il pensiero di Mill coincide con la fine della lotta per la riforma elettorale e parlamentare inglese, anno in cui dalle urne uscirono molti radicali, seppur la nascita di un partito socialista fosse preclusa dalla mancanza di un capo-partito in grado di coordinarne le forze.
Su suggerimento del padre, fonde la sua rivista con la London Review, dando vita alla London & Westminster Review, proprio nel momento in cui fra padre e figlio nasce una crepa profonda che opponeva il dogmatismo paterno al pragmaticismo di John Stuart Mill.
È, infatti, dopo la morte del padre che inizia il vero periodo produttivo di Stuart Mill, guadagnando in libertà e indipendenza di espressione: il fulcro cui si appoggia sono le conversazioni con e l’ingegno della moglie, per mezzo del quale completa il suo Sistema di logica nel 1841 (pubblicato nel 1843, un’opera di lunga gestazione), inizia la stesura dei Principi di economia politica e soprattutto nasce l’idea del suo On Liberty (tentato di stroncare più volte dagli oppositori), che dopo molte revisioni (dal 1854) viene completato nel 1858-59.
Da questo momento le sue opere non sono che uno sviluppo dei principi del sistema logico appreso dal padre, ispirato da Bentham e confermatogli dalla vita pratica, con l’immancabile aiuto dell’idealità della signora Taylor; tant’è che il periodo più florido in cui si estrinsecano i lavori sul governo rappresentativo è quello degli anni ’60 e ’70, le cui edizioni popolari l’aiuteranno nella carriera parlamentare (anche se breve): riesce eletto nel 1865 nella contea di Westminster come radicale, si batte per la difesa della causa irlandese, per gli interessi operai, e, dato il sistema di patronato e di voto plurimo vigenti, per le riforme elettorali. Prima di morire il 4 novembre 1873 pubblica la Schiavitù delle donne.
Dupont-White vede in Le gouvernement représentatif la continuazione naturale de L’Esprit des lois montesquiano, un’opera che completa la serie di saggi inglesi su partecipazione e liberalismo, con delle dissertazioni – per la prima volta - sul governo rappresentativo 2. Infatti, appare naturale che Mill abbia slancio e simpatia verso una forma di governo che rappresenti la forma di libertà fra le nazioni moderne, come ne dimostrano i vari prodotti storici. Esalta quella che è la storia della Francia, pur notando che, derive popolari e “terroristiche” della Rivoluzione a parte, ha raggiunto un punto di equilibrio rispetto a quella divaricazione del XVI secolo, che era rappresentata da un governo responsabile francese da un lato e da un Regno Unito procedente verso una libertà individuale e sociale dall’altro.
Il governo rappresentativo francese diventa anche il laboratorio attraverso cui mettere ordine al pericolo cesaristico tramite l’esclusione dal suffragio di coloro che non sanno né leggere, né scrivere, né compitare, e accordando più suffragi a certe categorie di persone per la loro intelligenza presunta: un suffragio non universale bensì ineguale, con l’interesse riequilibrato fra quello del numero e quello della proprietà. Si otterrà, così facendo, un grande stato dotato di forza morale e capace di resistere alla forza del numero, sebbene l’uomo non sia immune alle tendenze passionali e materiali ispirate dalla massa, tanto che il governo diretto, che dà voce alla forza del numero, va superato per mezzo del federalismo, o – ancor meglio – per mezzo del mandato imperativo dei rappresentanti.
Il concetto è sempre quello utilitaristico di Bentham, cui Mill aderisce più d’una volta, anche se mai con un testo o in una dichiarazione teorica espressamente dedicatogli, poiché vuole evitare processi di assiepamento su un principio assoluto. Lo studioso londinese, infatti, guarda sempre ad altre forze e legittimità rispetto all’interesse; guarda anche alla questione umana: alla dualità ricchi-poveri, alle minoranze, al principio di giustizia. Giudica - senza pietà, ma senza collera - le assemblee che non devono mettere mano a quei progetti di legge elaborati da mani forti, le religioni che elevano il mondo cristallizzandolo al punto in cui lo hanno elevato, le masse popolari e borghesi mediocri da cui potrà uscire solo un governo mediocre. Con la sua indipendenza di pensiero fa notare come il governo rappresentativo sia un governo per i governati. Gli uomini sapranno imporsi la disciplina che vuole la società, confidandosi gli uni agli altri sulle cose che li interessano, li accomunano, e sulle proprie appartenenze?
Stuart Mill risponde con l’auspicio di tenere il diritto al di sotto della società, e allo stesso tempo per elevarlo moralmente e verso il progresso, anche se con i costi dell’abbandono della “pace del re”, e dai rischi connessi ai proprietari “assolutisti”; la società deve agire, per questo, contro i monopoli e l’intolleranza, deve avere insita in essa il diritto d’elezione per i poteri pubblici secondo le capacità individuali, nonché prevedere un potere di controllo. Tale questione è riassumibile, mutuando Dupont-White, come “éducation universelle d’abord, ensuite suffrage universel”, un suffragio dove il numero si fa intelligenza, per arrivare ad un “suffrage plural”, dove l’intelligenza si fa numero, con lo spirito di una democrazia tendente a non violare i principi di giustizia riservati alle minoranze.
Rappresentando le Considerazioni sul governo rappresentativo un libro di una legislazione diversa da quella francese, segna una distanza notevole rispetto al liberalismo censitario, al di là dello spessore sistematico della sua teoria politica. Per questo non conta solo la protesta di Mill contro la superficialità delle argomentazioni politiche dei due secoli a lui precedenti, ma anche le sue aperture all’associazionismo e all’allargamento dei diritti politici.
In realtà, la matrice della sua analisi politica non è nuova, soprattutto al di fuori dell’Inghilterra, ma rappresenta comunque – e al tempo stesso – l’espressione del liberalismo e la sua crisi, fino ad abbracciare le istanze socialiste, passando per un radicalismo politico che lo porta a preoccuparsi per i difetti del capitalismo, a favore degli operai, a favore del sindacalismo. Il suo è un socialismo liberale, con i correttivi necessari per affermare le potenzialità espansive di una economia di mercato, anche se non accettata dagli ambienti economici ufficiali, restii a scalfire quel diritto di proprietà tanto osannato.
Con il socialismo si realizzerebbe l’autonomia politica del mondo del lavoro che concentra nella critica del presente il suo orizzonte ideale, pur tenendo conto dell’inutilità di un antagonismo di classe: il conflitto di interessi non deve spingersi troppo avanti, ma si deve guardare ai concetti morali del socialismo al fine di correggere le storture del capitalismo reale. L’idealità socialista insita nell’economia competitiva fa sì che si guardi verso una partecipazione degli operai ai profitti aziendali e allo sviluppo delle cooperative. Bisogna cambiare “la struttura fondamentale dei modi di pensare” 3 e tendere alla forma migliore rapportata al sistema individualistico, con l’intento di perseguire il massimo sviluppo della libertà e della spontaneità umana; espungendo dalla teoria socialista le idee confuse sul mercato e sulla concorrenza – poiché risultata chiaro che è la concorrenza a combattere il monopolio – si riuscirebbe a creare un mercato con lo stimolo necessario a contrastare la naturale indolenza dell’umanità.
Ovviamente è necessario un limite all’azione politica al fine di contrastare le catastrofi che sarebbero create dal troppo stato: si deve, insomma, sempre procedere per consenso, con uno Stato non pesante e una selezione dei governanti, con governi tendenti al miglioramento. Esaltando le virtù autocorrettive del mercato e centrando la propria attenzione sull’individuo, lo studioso inglese rileva come le opinioni, anche se non sono in grado di influire sulle leggi economiche, possono influire direttamente sulla distribuzione dei beni attraverso le istituzioni. La genesi della proprietà, infatti, non è venuta per opera dei razionali agenti del mercato, ma per conquista e violenza, cercando poi nell’accumulazione attraverso il lavoro la giustificazione: alla luce dei fatti del 1848 ne vanno perciò riconsiderati i principi, secondo le necessità o i meriti individuali e le norme sociali di giustizia prevalenti nella comunità. Si deve diffondere - e non concentrare - la ricchezza per ottenere una uguaglianza non tanto nelle opportunità finali, ma in quelle di partenza.
Parlando di governo libero, infatti, non si può prescindere dal valutare da che cosa sia data questa libertà, che ha in sé non solo l’accezione classica libertà di-libertà da, o la mera proprietà del proprio corpo, del proprio lavoro e dei suoi frutti, del fare tutto ciò che le leggi permettano, bensì più significativamente di essere liberi di scegliere le proprie opportunità per mezzo di una condizione di partenza svincolata da lacci e lacciuoli. Cardini possono essere l’eliminazione del diritto alla primogenitura e l’istruzione universale, ma anche – e lo si nota nel Mill più maturo – l’abolizione della divaricazione lavoratori-oziosi.
L’autonomia del soggetto, la pluralità dei percorsi che contraddistinguono l’esistenza, la sovranità dell’individuo su sé stesso, sulla sua mente, sul suo corpo, sono concetti così importanti che il codice penale nemmeno dovrebbe accogliere tutto ciò che l’individuo fa di negativo su sé stesso senza recare danno agli altri. La politica non deve assumere compiti etici, che invece sono da affidarsi all’individuo: le opinioni della maggioranza non devono essere imposte alla minoranza quando riguardano una condotta individuale. La politica ha bisogno di regole comuni, non di valori etico-religiosi comuni. La restrizione di tale autonomia è giustificata solo in nome di doveri sociali vincolanti e sulla base del contagio che una azione trasgressiva potrebbe provocare in chi la osserva. Esaltando l’originalità contro il dispotismo della consuetudine, Stuart Mill sa bene che nella scelta dei governanti bisogna considerare tre tipologie di interessi (i propri, delle persone vicine a noi, quelli pubblici), e sa bene che in realtà il mercato non può autoregolarsi: nel tenere sempre presenti i fini pubblici e il bene della comunità, non si tratta di ragionare sul troppo Stato o sul troppo poco, ma se lo Stato deve fare – come deve – il regolatore, più che il gestore della cosa pubblica.
È vero che lo Stato è sempre più invadente, e che l’opinione pubblica, non più formata dalla gerarchie ecclesiastiche o dai libri, ma da persone mediocri attraverso i giornali, è essa stessa mediocre. Però, con semplicità, il nostro – fedele al suo pensiero – parla di accentuare l’individualità dei pensatori più elevati. Certo, questo lo dice su On Liberty, laddove sulle Considerazioni rivaluta l’opinione pubblica che da insidiosa diventa una preziosa risorsa, utile nel momento della espressione del voto e sua garante: non bisogna, però, pensare ad una contraddizione dell’autore, ma ad una complementarità, poiché gli assunti sono ambedue valevoli. L’accentuazione delle eccellenze è necessaria, l’opinione pubblica è certo inferiore a queste, ma al tempo stesso acquisisce importanza in termini di orientamento e garanzia della società tutta. Il dovere di votare è un dovere pubblico e perciò va adempiuto in pubblico; l’obbligo politico deve essere per forza collegato all’ampiezza di tutti gli interessi rappresentati affinché sia legittimo: il monito kantiano della pericolosità delle passioni, attraverso il quale si escludono dal governo della città donne e operai non in grado di seguire affari di ragione, non va seguito. Anche nel voto ci deve essere un bilancio dell’utilità benthamianamente inteso. Gli interessi possono essere giustificati come uno meglio crede, anche irrazionalmente, e la politica deve essere funzione di questi interessi e non ratio separata (anche se per legge esistono incapacità giuridiche). Mill propone, perciò, l’esistenza di una pluralità di voti da assegnare non in base al censo, ma ad una dimostrata superiorità d’istruzione, che aprirebbe l’accesso alla cittadinanza (a suo modo egualmente elitario). Parlare di élite in base all’istruzione significa distruggere quel principio di uguaglianza e, ancor meglio, di uguaglianza della situazione di partenza auspicata dall’autore britannico? Il discorso élitista è solo di facciata: non si può certo parlare di élite laddove viene previsto il suffragio universale anche per le donne, dove si promuovo le eccellenze e l’autonomia individuali, il miglioramento della società tutta e delle classi inferiori in primis, dove si riconosce l’importanza dell’istruzione tramite una pluralità di voti, senza scalzare il metodo elettorale classico.
Piuttosto, se nella sua teoria una linearità manca, l’impasse teorica sta nel fatto che considera l’eguaglianza politica meno essenziale della libertà di coscienza o della libertà personale, cosicché gli interessi non riescono a dotarsi di una struttura razionale comunicabile, tanto che le Considerazioni sono attraversate dalla tensione tra ragione ed interessi, uguaglianza e competenza. Il volgere verso la rappresentanza proporzionale non scaturisce prettamente da una istanza egualitaria, ma dal trovare uno spazio d’azione politica per le minoranze colte, che vengono viste come ceto separato ed omogeneo, una sorta di forma embrionale di partito di intellettuali. Più che a favore del bilanciamento dei poteri, Stuart Mill è indirizzato verso una legislazione di classe, e al tempo stesso a favore di un allargamento del suffragio, come dimostra l’emendamento del 1867 a favore delle donne; non gli interessa tanto la concentrazione dei poteri, mitigata da un bicameralismo proporzionale, ma il sistema del voto plurimo. La novità e la portata inusuale di tali considerazioni le si capiscono perfino dal confronto con un lavoro precedente del padre James, Realtà non utopie ovvero del governo, in cui afferma innanzitutto la non adeguatezza dell’estensione del voto alle donne, e poi la preferenza per il voto – secondo le parole dell’Ugoni – “uniforme” francese, rispetto a quello “non uniforme” inglese.
In tutto questo discorso, colpisce il ruolo sbiadito che egli riserva al parlamento nel suo disegno istituzionale, organo inadatto a svolgere funzioni legislative per via della tempistica lenta e delle norme-dettaglio, problemi che gli impediscono di approvare norme più importanti, grandi leggi organiche che vadano a surrogare quel particolarismo e quella normazione caotica. Il collegamento che il deputato deve mantenere con il consenso popolare è, inoltre, un aggravante, quasi teso a destabilizzare il principio del governo rappresentativo: la confezione delle leggi andrebbe affidata ad un comitato molto ristretto sede di normazione, e non ad una sorta di arena di confronto ove la pura discussione non decide nulla. Su questo, la vera decisione non ha bisogno di tante discussioni perché è ratio, e non rappresenta la volontà: il compito di decidere spetta al governo, che dovrebbe assurgere al ruolo di redazione della norma, laddove il parlamento assolva la funzione di controllo, infatti “il compito più appropriato di un’assemblea rappresentativa non è di governare” 4. Il controllo non è opposizione al governo, ma vigilanza, tant’è che quando Mill parla di dialettica fra partiti la vede fra diversi ambiti istituzionali: il processo in atto in Inghilterra stava conducendo al party government, un “ottimo fondamento” per mezzo del quale il parlamento decide quale partito formerà il governo, il quale, però, non emarginerà il parlamento, ma avrà bisogno di una maggioranza a sua volta tenuta sotto controllo dal potere di scioglimento del premier. Sta qui il fulcro della discussione di Mill.
Il governo innanzitutto non è misto, ma semplice; poi, l’esecutivo deve essere legato per mezzo della fiducia al sistema parlamentare, andando a formare un sistema di rappresentanza dove i vari componenti non sono antitetici ma pressoché complementari l’un l’altro. Stando così le cose, è anacronistico un governo di guardiani, anche perché irrompe sulla scena la volontà politica attraverso il partitismo, tralasciando però l’aspetto della ragione rappresentata dall’expertise politico: e qui Mill – sia ben chiaro – prende le distanze dal fatto che gli elettori siano sempre più rappresentati da persone che professano le loro stesse credenze politiche, piuttosto che da persone capaci.
Infatti, la libertà non è soltanto un astratto diritto teorico, ma anche una condizione imprescindibile di saldo progresso civile, che abbia l’intento di sgombrare dalle menti le false opinioni, d’insegnare a qualcuno un po’ di tolleranza in fatto di religione e di politica.
Il pilastro portante espresso nell’Utilitarism e nell’Essay on liberty riguarda quell’élan vital del sentimento che ha la massima importanza nell’etica: secondo il principio utilitarista anche la felicità è desiderabile come fine, spinta dal desiderio poiché “non si può desiderare una cosa che non si ritiene piacevole” 5. Ma la felicità che determina il criterio utilitaristico di ciò che è bene, non è la felicità del soggetto agente, ma di tutti coloro che sono coinvolti dalla sua azione, perché la felicità individuale forma quella generale. Riprendendo Platone, Mill reputa di preferire il giudizio dei saggi, che in ogni caso prediligono il bene, ammettendo altresì l’errato metodo della filosofia del padre (ad esempio sull’inopportunità del suffragio universale) e accettando qualsiasi tendenza, compresa quella della Chiesa, nonostante la forte opposizione per il culto cattolico che lo porta ad elogiare uno Spencer “anticlericale fino ai limiti del possibile” 6. Anche questo, rappresenta non solo il valore che Mill dà all’intellettualità tutta, ma dimostra anche un’ampiezza di vedute in linea con quella libertà di pensiero, o – ancora meglio – quella libertà di manifestazione del pensiero, da lui predicata.
La felicità generale della comunità deve essere promossa dal governo, anche per mezzo di quella economia politica, vista come una branca della sociologia perché deve comprendere anche principi non-economici, oggetto del suo scritto. Nei Principi di economia politica ritorna a quella distinzione produzione-distribuzione che permette di estrapolare anche il concetto di eguaglianza sociale: se le leggi della produzione sono valide in ogni luogo, quelle della distribuzione dipendono dalla sistemazione politica degli interessi della classe dominante in una determinata società. Al fine di avere una eguaglianza delle condizioni iniziali, è perciò valevole il discorso che adeguate politiche distributive e redistributive aiutano al progresso e al formarsi di una società più equa, e tendenzialmente più giusta e più libera.
Poiché le istituzioni rappresentative non sono adatte a tutti i popoli, ma dipendono dai rapporti di forza interni alla società, non funzionano se ciascun uomo non è in grado di tutelare da sé i propri interessi: e ciò richiede un certo grado di educazione e intelligenza. Il governo rappresentativo popolare opera inevitabilmente per il progresso, anche se ciò comporta la liberazione di molte energie umane perché muove dallo scontento degli uomini, e al tempo stesso è l’unica forma politica suscettibile di miglioramenti, cosicché anche il popolo possa diventare collettivamente più grande e individualmente più acuto, fino ad una nuova fioritura della personalità interiore. Qualsiasi riforma rappresenta una potenziale minaccia ai risultati ottenuti, pertanto alle riforme deve seguire senso d’equilibrio più che entusiasmo, quel senso d’equilibrio che già di per sé è in grado di migliorare la democrazia. Il basso grado di democrazia raggiunto negli Stati Uniti era dovuto, secondo Mill, al fatto che pochi uomini colti erano nel governo e nella politica, e questi, a differenza delle classi di governanti ereditarie europee, si davano alla costruzione di fortune private. In ogni caso negli Stati Uniti la carriera politica aveva poco valore per via della non necessità di un “grande” governo. Di contro, la democrazia europea necessita sempre di tempi lunghi, tanto che l’arte di governo nei governi popolari è in linea di massima più efficiente perché possono essere cambiati nello spazio di una notte.
È consuetudine che l’opinione pubblica si formi sulla base dei fatti rivelati e delle prevenzioni dimostrate, e l’opinione della maggioranza costituirà, alla fine di questo procedimento, il provvedimento dello Stato. La maggioranza se dimostra normale ragionevolezza non vorrà farsi nemiche le minoranze: così facendo a lungo andare l’opinione della maggioranza si dimostrerà fondata e convergente, permetterà di progredire. È ovvio, però, che il presupposto di tutto è la suddetta ragionevolezza delle forze attive della società, che in definitiva detengono le istituzioni governative. Per Tocqueville la democrazia è in grado di diffondere l’esperienza della politica più largamente di qualsiasi altra forma, e in particolare è nel governo popolare più di tutti che il popolo deve sentirsi più adulto. Teoricamente il popolo impara a non ripetere nel futuro gli errori del passato. Quando però Tocqueville parla della tirannia della maggioranza, e perciò di una netta divergenza con le opinioni della minoranza, Stuart Mill rimane turbato: anche se tale tirannia non è esercitata per mezzo della violenza ma della pressione sociale, l’autore londinese preferisce attribuirla alla civiltà commerciale di carattere progressista, in sostanza all’indebito accrescimento del commercialismo nel Nord America. Per questo non solo afferma che la maggior parte di uomini e donne hanno bisogno della guida di una qualche autorità, ma continua dicendo che il libero commercio non può essere fatto in assenza dello Stato e con delle distorsioni di fondo sul piano competitivo, perché il governo di uno stato di massa, con un aumentato senso di giustizia e solidarietà, deve occuparsi anche di garantire che quella giustizia e solidarietà siano effettive; deve occuparsi, altresì, della miseria e della sofferenza. Ci saranno sempre settori in cui le decisioni dello Stato saranno migliori di quelle del privato, sebbene l’attenzione vada posta sulla razionalizzazione delle nazionalizzazioni, che significano un aumento di potere dello Stato, il quale deve comunque avere dei competitori. Inoltre, sono da rifuggire le limitazioni alla libertà di pensiero, in ogni loro forma, poiché si presumerebbe l’infallibilità di chi pone in essere quelle stesse limitazioni.
Si potrebbe anche pensare ad una sorta di sopravvalutazione da parte di Mill della discussione razionale in vista dell’entrata in scena anche di criteri etici e sentimentali, ma in ogni caso non avrebbe potuto prevedere la spossatezza del pubblico-massa di oggi. Certo è, che per la soluzione alla suddetta tirannia – o della maggioranza o di capi politici incompetenti -, ritorna come antidoto la concezione tacciata di elitismo del fattore educativo-sociale degli elementi migliori della società.
Nel discorso sul governo rientrano anche i libri su produzione, distribuzione e scambio del Principi di economia politica, ma, tralasciando le affermazioni sulle imposte, risultano più interessanti il quarto e il quinto sull’”Influenza del progresso della società sulla produzione e sulla distribuzione” e “Sull’influenza del governo”. È indispensabile capire che c’è stato un aumento dei poteri dell’uomo sulla natura, un aumento della sicurezza e maggiore capacità di cooperazione, tanto da presentare varie combinazioni in merito alla variazione alternata di produzione, capitale e popolazione. In effetti, una maggior sicurezza a livello individuale e sociale tutela il maggior consumo e la maggiore produzione e accumulazione, laddove la tassazione fissa può stimolare a sua volta quantità e qualità produttive: il governo può togliere una parte, ma deve al tempo stesso assicurare che non interferirà sul rimanente. Per questo Mill pone l’accento anche sull’importanza della cooperazione, che in vista di un auspicabile progresso farà – per via di fattori biologici e psicologici – aumentare anche la popolazione. Al contrario, gli effetti di insicurezza della persona e della proprietà, della tassazione eccessiva, dell’imperfezione del sistema delle leggi e dell’amministrazione della giustizia sono solo negative. È necessaria perciò una distinzione tra funzioni necessarie ed eventuali del governo, che devono avere comunque carattere multiforme: indispensabili sono la protezione dalla violenza e dalla frode, la protezione del diritto di proprietà (e non della proprietà materialmente concepita!), la garanzia di far rispettare i contratti senza regolare i rapporti privati e gli affari fra gli individui; corrispondono invece a convenienza generale le funzioni di conio della moneta e la manutenzione dei beni inalienabili. È ovvio che il principio cui Mill tende, anche per via della matrice utilitaristica del suo pensiero, è quello del lassez faire in via generale, ma con le dovute eccezioni, riguardanti i già citati monopoli e le nazionalizzazioni, quali l’istruzione elementare; l’intervento legale nel caso dei bambini, degli schiavi e delle “vittime disgraziate della parte più brutale dell’umanità”, delle donne, viste anche come mogli; gli impegni assunti “per sempre”; ciò che riguarda l’amministrazione della vita e degli enti pubblici (che teoricamente secondo Mill non risulta più corrotta di quella delle società per azioni); gli accordi collettivi di lavoro per una categoria di lavoratori; la carità; la gestione delle colonie; i servizi pubblici di informazione tramite esplorazione geografica o scientifica. In questi campi non vale la regola secondo cui “gli individui sono i migliori giudici dei propri interessi” 7.
Appare scontato – ammonisce Mill – che l’incremento della ricchezza non è illimitato, tanto che al termine di tale incremento vi è lo stato stazionario, in cui le arti produttive vanno migliorate e va interrotta l’emigrazione del capitale. La tendenza all’egualitarismo va invece favorita tramite un equa tassazione e una limitazione alla somma in dono o ereditata. Nel giudicare la Ricchezza delle nazioni come antiquata in molte parti e imperfetta, nonostante la sua ammirazione per Smith, Stuart Mill ricorda come “sembra a me che il grande fine del progresso sociale dovrebbe essere quello di far sì che l’istruzione rendesse l’umanità adatta ad uno stato sociale che unisse alla massima libertà personale quella giusta distribuzione dei frutti del lavoro che non risulta essere lo scopo delle attuali leggi sulla proprietà” 8: in definitiva, ritorna sempre l’ammonimento a raggiungere quello stato di educazione intellettuale e morale che sia in grado di portare la natura umana alla sua massima perfezione.
Ricordiamo, per inciso, che Mill dà alle stampe la prima edizione dei suoi Principi nel 1848, mentre l’ultima, la settima, è del 1871; quando scrive ritiene l’economia politica una forma di conoscenza parziale perché isola produzione e distribuzione dal tessuto unitario originale, quello dei fenomeni sociali. Mill, insomma, è uno storico relativo, perché si riferisce al ciclo scambio-concorrenza-accumulazione come ad uno stadio di evoluzione sociale che non domina ovunque: l’economia politica non è, per questo motivo, la scienza di punta per capire i fatti sociali.
Nel Sistema di logica del 1843 evidenzia come la scienza filosofica alla base del ragionamento è la logica, l’esame di quella parte del ragionamento che riguarda la maniera con cui sono formulate le conclusioni; allo stesso tempo, però, non è lo studio della logica che fa progredire il raziocinio, ma bensì l’esercizio del raziocinio stesso, quel ragionare ragionando che - pur non essendo per forza di cose disgiunto dal sentimento umano – è in grado di far progredire in meglio la propria individualità e utilitaristicamente la società tutta verso un governo più libero. Le teorie dell’induzione, soprattutto per enumerazione, valgono solo in una fase infantile delle persone; in questo, la logica di Mill si differenzia da quella trascendentale, aprioristica (sul piano spazio-temporale), e basata sul fenomeno, di Kant, da quella formale di Aristotele, e da quella metafisica di Hegel. A differenza di questi, lui mette l’accento sul fatto che per ragionare occorre che l’uomo cada in contraddizione, al fine di non produrre una non-logica di tipo kantiano, aristotelico e hegeliano. Le interferenze primitive umane procedono, come per tutti gli animali, dal particolare al particolare, tanto che tutte le dimostrazioni d’Euclide potrebbero essere compiute senza definizioni generali. Questo non vuol dire che gli animali ragionino nello strictu sensu delle parole, poiché l’associazionismo umano di rapporti tra termini è autoconsapevole; inoltre la differenza sta nel criterio della connessione e in quello della attribuzione. La funzione del ragionamento sta nel fatto di interpretare il memorandum dei nostri fatti e di quelli altrui, presenti o passati che siano, ma basato su prove ponderate. Ad esempio, la vera ragione di credere che il duca di Wellington morirà – dice il nostro – è che i suoi padri e i nostri padri, e tutti i loro contemporanei, sono morti. Il passare ad una proposizione generale è una salvaguardia contro le tentazioni dell’immaginazione e i pericoli della negligenza, anche se bisogna stare attenti non solo alla sua infondatezza, ma anche alla infondatezza delle conclusioni particolari da essa dipendenti. La scienza è sperimentale perché ciascun caso nuovo ha bisogno d’una nuova induzione, deducendo per mezzo delle induzioni già compiute.
Ma in tutto questo discorso, dove si rintraccia qualcosa di utile al fine di dimostrare che l’attenzione per il governo libero di Mill, e per la libertà, non è svincolata da tutte le sue opere e che, al contrario, è un pensiero costante e perseverante in lui per permettere quel progredire morale individuale e della società nel suo insieme? Il fulcro cui bisogna guardare, e che lega il tutto, è l’esperienza. Se le scienze della natura e la natura non obbedissero a principi e leggi, l’ordine dell’universo e le verità matematiche non si annullerebbero comunque nel disordine e nel caos perché la necessità dell’ordine rimane intatta per via dei rapporti concreti, ineliminabili e dei loro risultati. Il dogma milliano sta nell’ordine rigoroso della natura, dove l’esperienza è il documento depositato direttamente dalla natura. Mill apprezza malevolmente la mediazione dell’intelletto poiché distoglie dalla meta originaria: bisogna sfuggire al nominalismo e alle leggi causali per ritrovare le credenze fondate sull’abitudine e sullo scetticismo, in definita sull’esperienza. C’è una contrapposizione di fondo fra lo spirito oggettivistico dell’empirismo milliano e quello soggettivistico humiano di matrice berkeleyana: l’originalità dell’opera sta nella distinzione dello scopo dall’esito, infatti l’empirismo di Hume è criticistico nei confronti di un empirismo rigido demolitore, mentre quello di Mill è costruttivo, propositivo, complementare, sempre da accompagnare con l’esperienza.
Abbiamo detto della poca praticità nella sua fase giovanile: che tale punto fermo sull’esperienza e sul concettualismo come realismo sia dettato dal riscatto del suo passato? In realtà, la teoria milliana ci fa capire come chi aspirasse alla perfezione completa ed edonistica, quasi da esteta, rischierebbe di non tener conto delle altre cose positive della vita, seppur non “divine” dal punto di vista perfezionistico, però altrettanto importanti: ce lo fa capire con la quasi-metafora dei rapporti aurei della matematica, della fisica e dell’anatomia – perfetti in sé, contrapposti a quelli meno aulici ma componenti fondamentali della vita reale e della geometria. Ogni scienza è condizionata dall’oggetto di cui tratta, ma questo limite conferma il suo valore; infatti è un po’ come la componente del nostro intelletto che durante l’analisi e l’astrazione – dice Mill – fa attenzione soltanto ad una parte dell’idea e della percezione, piuttosto che – come sarebbe invece necessario – a più parti ed anche alle proprietà degli oggetti. L’astrazione vera deve prescindere dall’individualità dei dati per coglierne l’essenza, proprietà reali e generali: fatti e teorie una volta ritenuti impossibili e inconcepibili, per mezzo dell’esperienza storica e culturale sono divenuti possibili e concepibili 9.
Allo stesso modo, per cogliere l’essenza del “governo libero” bisognerebbe non solo far riferimento a quell’esperienza storica, ma analizzare le parti e le proprietà nel loro insieme che compongono il tutto, piuttosto che una parte sola e magari svincolata dal contesto.
In Mill le due anime, quella empirista-nominalista, che critica, e quella concettualistica, si confondono, e allo stesso tempo non vengono a mancare alle premesse: il pregio del suo spirito positivo sta nella comparazione e nell’uso della logica, quasi come fosse un rasoio di Ockham. L’induzione è il mezzo per scoprire e provare verità generali, il cui assioma sta nell’”uniformità del corso della natura”, a sua volta costituita da molte uniformità subordinate. Tutto questo però essendo consapevole che l’unica legge che permea l’umana esperienza è quella di causalità, per mezzo di un ordine invariabile di fenomeni e “cause permanenti” che esistono da un tempo indefinito e forse immenso (sole, terra, pianeti, comprensivi di loro elementi costitutivi). Perciò, la successione dei fatti, nel suo complesso, ci si presenta come un caos seguito da un altro caos. Per favorire l’induzione rispetto alla deduzione, l’intellettuale londinese non solo rifiuta l’enumerazione, ma vuole creare una prospettiva ontologica per cui la causa di un fenomeno è il suo antecedente, invariabile e incondizionato. I riferimenti agnostici sul non sapere nulla sull’origine delle cause primordiali, si accompagnano ad una fenomistica positivista milliana basata sul caso (piuttosto che sulla Provvidenza), che, come il caos – e poiché l’eterna variabilità e mutabilità di esso conferisce regolarità alla dinamicità -, finisce per essere una costante della natura, dell’esperienza storico-culturale, in definitiva dell’uomo stesso. Ora, se si accosta quanto detto al nostro tema in oggetto, per l’analisi del nesso causale tra consequenzialità del caos ed esperienza sensibile, è necessaria la sperimentazione (che crea essa stessa nuova esperienza), piuttosto che l’osservazione, che, invece, si basa su dati statici e temporalmente finiti. È per questo che in vista del governo libero, è necessario “osservare” le esperienze passate, ma è ancor più necessario sperimentarne di nuove, anche per mezzo della progressione di una educazione, che per il sol fatto di procedere e continuare (cioè di non essere statica) è in grado di creare, per forza di cose, parte di quelle stesse esperienze. Tanto che il progresso del sapere umano è legato allo sforzo di cogliere intellettualmente i rapporti essenziali e necessari dei nessi di causalità.
Invece, quando si parla di religione, si può parlare di esperienza? Nell’Essais sur la religion del 1875, volume composto di tre saggi scritti in epoche separate e che ci permettono di cogliere l’intero pensiero milliano sull’argomento, Mill parla di natura e dell’utilità della religione (nei primi due composti tra i 1850 e il 1858), e di teismo (il terzo è del 1868-1870). La differente datazione di composizione dei saggi, non influisce sul pensiero del nostro autore, come si capisce dal fatto che il primo dei tre fu ripubblicato per sua volontà non appena ebbe dato alle stampe quello sul teismo, visto che considerava il tema della natura inseparabile dagli altri due. Nell’Utilità della religione afferma che chi scrive di religione, lo fa per difenderla o accusarla; il desiderio di credere proviene sia da sentimenti egoistici che disinteressati, e non produce, com’è ovvio, la certezza perfetta. Ma se le credenze religiose sono necessarie all’umanità, alle genti costrette a conformarsi alle varie dottrine, c’è anche chi si dice credente per poi commettere mali irreparabili all’umanità.
Il punto che ci interessa è questo: Mill, tramite il discorso sulla religione, afferma come si debba tendere sempre alla verità e al bene generale, affinché si possano instaurare dapprima le condizioni che permettano lo sviluppo di un’armonica educazione, poi le premesse di un governo libero. Infatti, non c’è alcun conflitto tra verità ed utilità: se si prendesse la religione come semplice convinzione e non come verità assoluta, può essere anch’essa indispensabile al benessere dell’umanità, affinché si possano distruggere le inutili superstizioni. La contrapposizione tra i sostenitori della religione naturale e quelli della religione rivelata è, in fondo, la stessa che si ha tra le credenze-il soprannaturale e la scienza. La scienza della natura umana e la storia mostrano come le credenze siano un prodotto dello spirito umano nelle diverse epoche, credenze però necessariamente e gradualmente superate dalla questione della verità, tanto che i fondamenti del teismo godono della stessa fallibilità dell’intelligenza umana. Riconoscendo la validità storica della religiosità, non bisogna disconoscere quella dogmatica, che è comunque basata sulla verità o falsità delle prove sottoposte a verifica. È indispensabile, infatti, che le questioni religiose siano trattate di tempo in tempo come scientifiche, “et que les prouves soient vérifiées par les mêmes méthodes et d’après les mêmes principes que celles de toutes les conclusions philosophiques des sciences physique” 10: la storia, ad esempio, dimostra come sia più naturale credere a più dei che ad un solo essere.
La fusione nei suddetti saggi tra il positivismo comtiano con i temi tradizionali della filosofia inglese, porta Stuart Mill a riflettere anche sulle virtù e sulle indiscutibili limitatezze della borghesia del suo tempo, fattore culturale e di progresso, sebbene non vera forza rivoluzionaria. Le nuove vie aperte alle ricerche logiche degli studiosi del nostro tempo (soprattutto matematiche), hanno capovolto, però, la situazione mostrando le debolezze delle tesi di Mill. Egli, dando moltissimi contenuti concreti all’individuo, abbraccia anche molte esigenze ritenute anti-individualistiche, oltre che armonizzare i principi liberali con quelli socialisti. Per questo, ciò che ha portato Mill ad occuparsi del teismo, non è stato il desiderio di giustificare l’appello alla trascendenza, ma l’aspetto opposto: inserire nel mondo umano l’Essere ipotetico di cui parlano i teologi. Se è insostenibile la tesi della “religione dell’umanità” di Comte, al tempo stesso l’Essere Supremo positivista può essere coniugato con quella umanità, un Essere Supremo che, comunque, non ha niente in comune con quello metafisico degli antichi.
Dio ha bisogno degli uomini quasi quanto gli uomini hanno bisogno di lui, poiché riceve da loro la titanica forza divina, e – rifiutando il manichesimo come tentativo di divinizzazione del male – non può coniugare un’infinita bontà e un’infinità potenza; Egli non è il principio del mondo, ma un Dio completamente inserito nel mondo: la lotta del bene e del male non è perciò, un principio trascendente. I principi illuministici del Dio come compagno-collaboratore nell’attuazione del fine interamente umano dell’ottenere un mondo migliore, sono con Mill altamente spiegati: il fine di un mondo migliore può essere solo il fine di un uomo indipendente. Ognuno di noi ha la propria responsabilità e il proprio posto in queste azioni, anche se sono coordinate da un Essere divino.
Ed è con le ragioni di questo tipo di individuo che Mill tiene presenti quelle della società, perché ad un individuo libero ed indipendente si deve accompagnare il principio della rappresentanza politica, estrinsecata democraticamente nel suffragio universale, nel sistema proporzionale (l’avvio della riforma in Inghilterra fu dato da Hare, e sostenuto da Lord Russell), nell’attenzione per le minoranze. La graduale riforma degli assetti pre-governo rappresentativo, consentirebbe, infatti, a quegli stessi liberi individui di prestare il proprio consenso attraverso dibattiti pubblici, e attraverso la mobilitazione di tutte le sue componenti, compresa quella numerosa middle class sempre più in via di sviluppo (e rafforzata dall’aumento della ricchezza nazionale e dalla pratica della cooperazione). La riforma morale della società ed una nuova élite politica possono essere create con l’estinzione del privilegio e con l’aiuto di istituzioni di governo che – ricordiamolo – si devono basare esclusivamente sulle procedure costituzionali ed una lenta maturazione 11 dei processi culturali, rispecchiando quell’idea regolativa del Sistema di Logica tale per cui sono l’esperienza e il sentimento morale a formare regole di comportamento comuni. Con il fine, più o meno esplicito, di fondare una nuova scienza politica che compenetri ed abbia un rapporto di reciprocità con una nuova scienza della società.


Note
1 Biblioteca di Scienze Politiche – volume II, diretta da Attilio Brunialti, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1886
2 Le gouvernement représentatif, J. S. Mill, a cura di M. Dupont-White, Guillaumin et Cic, Libraires, Paris, 1865
3 Il governo rappresentativo, J. S. Mill, a cura di F. P. Fenili, Tipografia della rivista dei comuni italiani, Torino, 1865
4 ivi
5 Introduzione a John Stuart Mill, Karl Britton, Universitaria, 1965
6 ivi
7 Principi di economia politica, J. S. Mill, a cura di A. Campolongo, Torino, UTET, 1954
8 ivi
9 Come si ragiona (II e III libro del Sistema di logica di J. S. Mill), a cura di G. Giulietti, Libreria Editrice Canova, Treviso, 1957
10 Essais sur la religion, J. S. Mill, a cura di M. E. Cazelles, Librairie Germer Baillère, Paris, 1875
11 Alla ricerca del « governo libero » - il pensiero politico nell’Europa moderna da Montesqieu a Stuart Mill, C. Carini, Centro Editoriale Toscano, 2006, p. 435


Bibliografia:
Alla ricerca del « governo libero » - il pensiero politico nell’Europa moderna da Montesqieu a Stuart Mill, C. Carini, Centro Editoriale Toscano, 2006
Auguste Comte et le positivisme, J. S. Mill, a cura di G. Clemenceau, Librairie Germer Baillère, Paris, 1868
Biblioteca di Scienze Politiche – volume II, diretta da Attilio Brunialti, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1886, pp. CXLVIII-CLIV, 971-1181
Come si ragiona (II e III libro del Sistema di logica di J. S. Mill), a cura di G. Giulietti, Libreria Editrice Canova, Treviso, 1957
Considerazioni sul governo rappresentativo, J. S. Mill, a cura di M. Prospero, Editori Riuniti, Roma, maggio 1997
Elementi di economia politica, James Mill, Presso G. Ruggia e C., Lugano, 1830
Essais sur la religion, J. S. Mill, a cura di M. E. Cazelles, Librairie Germer Baillère, Paris, 1875
Il governo rappresentativo, J. S. Mill, a cura di F. P. Fenili, Tipografia della rivista dei comuni italiani, Torino, 1865
Introduzione a John Stuart Mill, Karl Britton, Universitaria, 1965
L’idea di libertà, a cura di I. Carter e M. Ricciardi, Feltrinelli, Milano, 1996
La libertà, J. S. Mill, a cura di A. Agnelli, Società Editrice Sonzogno, Milano, 1895
Le gouvernement représentatif, J. S. Mill, a cura di M. Dupont-White, Guillaumin et Cic, Libraires, Paris, 1865
Principi di economia politica, J. S. Mill, a cura di B. Fontana, volumi I e II, UTET, Torino, 1983
Principi di economia politica, J. S. Mill, a cura di A. Campolongo, UTET, Torino, 1954
Realtà non utopie ovvero del governo, articolo di Giacomo Mill, a cura di Filippo Ugoni, Tipografia Patriotica Borroni e Scotti, Milano, 1848
Saggi sulla religione, J. S. Mill, a cura di L. Geymonat, Universale Economica, Milano, 1953
Storia del pensiero politico europeo – dal XIX al XX secolo, S. Mastellone, UTET, Torino, 1998


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