Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze, Norberto Bobbio

Breve accenno alla storia economica cinese

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Dott. Gionata Ricci Alunni, (c) 2008.


Per comprendere, seppur sommariamente e superficialmente, quella che può essere considerata la storia economica della Cina, si dovrebbero analizzare anche le sue condizioni culturali passate, soprattutto quelle anteriori al XIX secolo.Impossibilitato a far ciò in poche pagine, ripercorrerò, stringentemente all’aspetto capitalistico, quella che è stata la storia economica degli ultimi anni, e la sua evoluzione; pur tuttavia ricordando, in primo luogo, alcuni aspetti riferibili al capitalismo in generale.
Innanzitutto, va detto che se il capitalismo è una interdipendenza di accumulazione di ricchezza, capacità imprenditoriale e capacità tecnica, non si può prescindere da una dimensione sistemica cui deve essere inglobato, poiché «non è né una persona né una istituzione. Non vuole e non sceglie. È una logica che opera attraverso una modo di produzione: cieca e ostinata logica di accumulazione»; dipende dal tempo e nello spazio, modificandosi in essi.

La «affascinante capacità creativa e ossessionante capacità distruttrice»in seno al capitalismo, nel senso beaudiano del termine così come mutuato da Schumpeter, fa sì che si focalizzi spesso l’attenzione sul modello occidentale, quale modello di riferimento, di produzione e di consumo, fondato sulla progressiva incorporazione e distruzione di risorse; destrutturazione di sistemi economici in crisi più o meno endemica.
Ricordando Beaud, «in ogni epoca il capitalismo ha operato su scala locale-regionale-nazionale e mondiale; ciò vale soprattutto oggi, per la presenza di un sistema imperialista gerarchizzato che copre i 5 continenti, di un mercato mondiale, di gruppi multinazionali, dell’indebitamento internazionale»: nonostante la progressiva gerarchizzazione in ottica mondialista c’è anche una riaffermazione dei valori locali, laddove il capitalismo, come processo storico, implichi una scommessa sul futuro e diventi un punto cardine di trasformazione dell’uomo, senza una fine imminente, poiché collocata in un’ottica di perenne trasformazione.
Quello che Baran e Sweezy affermano a proposito del surplus, il cui potenziale viene in gran parte sperperato nell’irrazionale sviluppo del capitalismo nel tempo, tra cui crisi di sovrapproduzione, bolle speculative, scarsa trasformazione del processo produttivo senza innovazioni, cattiva allocazione della manodopera, ben si addice all’attuale fase di trasformazione dell’economia cinese, in cui si denota anche quella appropriazione della relazione sociale sottintendente al capitalismo stesso di cui parla Marx.
Ripercorrere la storia economica cinese, di non facile lettura, è però necessario per comprendere la fase attuale, poiché, come ammonisce il Pantaleoni: «gli elementi del sistema economico che interagiscono in un dato istante di tempo sono evidentemente il risultato di precedenti configurazioni; il modo stesso in cui essi interagiscono è non meno evidentemente influenzato da ciò che la gente si attende che siano le configurazioni future».
Se secondo Nietzsche: «…l’uomo teoretico, che io definisco intellettuale, gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di disvelamento che gli dimostra tutta la sua abilità», bisogna considerare i tempi storici di disvelamento dell’entità cinese agli occhi europei, che avviene molto prima rispetto alla stessa matrice occidentale americana: fin dagli inizi degli anni Cinquanta, a dispetto della fatidica data del 28 febbraio del 1972, assunta come indicatrice del viaggio-simbolo nixoniano.
A partire dall’Illuminismo, si è sviluppata una credenza secondo cui il progresso materiale avrebbe portato anche a delle conquiste spirituali, e che le grandi, straordinarie, realizzazioni dell’uomo avrebbero trasformato non soltanto la natura, ma anche gli esseri umani, certamente in meglio. Il progresso materiale diventa oggetto di un’approvazione incondizionata, un elemento unificatore, anche per via delle sue capacità di eliminazione delle sofferenze: un progresso realizzato senza la moderna tecnologia, con il lavoro manuale di masse sterminate, spesso con il rischio di essere doloroso – cioè non assorbibile in tempi brevi dal Paese -, e senza tenere in dovuta considerazione le conseguenze fisico-ambientali.
Contrariamente a quando credeva Galbraith, la valutazione dell’attività dell’economia cinese non è una questione semplice, poiché in sistemi economici fortemente centralizzati si tendono a fare degli errori di presunzione che sono molto difficili da correggere; e perciò attiene al periodo post-Mao, è ovvio che per capire il progresso reale – non solo economico, ma anche civile – molte cose vadano ridimensionate. Infatti, quando è caduta la prospettiva ideologica filocomunista, gli intellettuali e anche gli economisti hanno iniziato a guardare ad altri Paesi la cui crescita era similare a quella cinese, come Corea del Sud e Taiwan.
Il leaderismo è stato un fattore importante della percezione del mondo cinese agli occhi degli occidentali – da Mao a Zemin, passando per Zhou En-Lai e Deng Xiao Ping -, e ha permesso di capire quanto il popolo cinese fosse influenzato da una figura carismatica, divinizzata, e lontana dalle masse, per ispirarle o commuoverle in modo più diretto; rapporto emblematizzato in un “libretto rosso” quasi motivo di ispirazione sacra, a portata di mano dei cinesi, e oggetto di ammirazione – quasi un «filosofo-re» alla Edgard Snow – da parte degli occidentali, caratterizzato da puritanesimo, spirito di abnegazione, idealismo ed incorruttibilità, qualità che molto raramente possedevano gli occidentali. C’era la percezione di un leader che non abusava del potere, non concorreva per il potere in sé, tanto che si poteva mostrare indifferenza nei confronti dell’intolleranza politica e della concentrazione del potere.
In ogni caso c’era un fine nobile in Cina che aveva il potere di redimere e ridefinire ogni cosa: nella sua rappresentazione la Cina era «un Paese di filosofi».
Le cose non sono più così oggi, poiché la tendenza è diversa; quello che è importante definire, però, è il fatto che l'ombra di Mao continua a incombere sulla Cina: la sua eredità è ancora consistente malgrado l'evoluzione capitalistica del paese, in un'era in cui si appresta a contendere agli Stati Uniti la leadership mondiale, l’interrogativo è da porsi sul rischio del dominio o meno di un Paese non democratico, caratterizzato dal "complesso del padre", e la cui ascesa può voler dire anche esportare un modello autoritario. Partiamo, per capirlo, con un breve accenno al versante opposto. In un commento fatto sabato 16 settembre 2006 da Federico Rampini, noto articolista e sinologo di Repubblica, si afferma come la Cina veda un’Italia che «è famosa per i suoi frequenti scioperi, organizzati da sindacati molto potenti. L’efficienza è piuttosto bassa e ci sono ben 122 festività nazionali».
Posizioni del genere si sono sempre basate sulla considerazione che la maggioranza della popolazione non avesse mai avuto libertà del genere, e quindi non si fosse accorta della loro mancanza, e, allo stesso tempo, le conquiste materiali avessero compensato qualunque limitazione; anche come dimostrato negli anni ’50 dall’articolo Fare una discussione sui diritti civili in Cina? No, dell’ex funzionario del Dipartimento di Stato americano Barnett, in cui affermava come fossero «le dure necessità nazionali a determinare la posizione della Cina rispetto ai “diritti umani”», continuando a dire che «dobbiamo rispettare il diritto della Cina ad essere diversa, a fare diversamente, evitando così che ci accusino di ipocrisia». È chiaro che un’analisi vera della Cina viene fatta a partire dagli anni ’60, quando i viaggi si fanno meno sporadici e quando inizia a prender piede – attraverso lo slogan “la Cina è vicina” - una sorta di innamoramento collettivo verso una rivoluzione permanente, anche nella sua versione consumistica e di massa nel lancio di prodotti made in China, sebbene in una versione superficiale. A tal proposito potremmo ricordare gli scritti di Furio Colombo, Michelangelo Antonioni, Carlo Cassola, Alberto Parise.
La Cina del 1972 è un paese all'anno zero, in cui la rivoluzione culturale ha imposto una rapida revisione dell'organizzazione scolastica, lavorativa, ideologica e sociale. I cinesi si sono adattati ai loro scarsi mezzi con buona volontà ed efficienza: ad esempio facendo studiare alcuni contadini come medici per qualche anno e disseminandoli per le campagne, al fine di rifornire di una prima assistenza medica. Il loro rapporto con il passato è conflittuale: i Ming vengono visti come tiranni sperperoni, anche se si riconosce l'indubitabile valore estetico dell'arte fiorita durante il loro impero. Dice Mao: «dobbiamo stimare e apprezzare il nostro patrimonio storico, ma non farsi dominare da esso» poiché «l'antico fatalismo deve cedere il passo alla fiducia nell'attività umana». La rottura con l'URSS appare evidente dalla definizione che viene data della stessa come «paese social-imperialista diretto da una cricca borghese». Gianni Rodari rileva come «ai cinesi l'individualismo è sconosciuto da sempre, pare. In ciascuno di noi lo ha seminato una lunga storia. Ci ha recato anche molti danni, l'individualismo - a prescindere dal fatto che esso è stato per secoli un elemento essenziale dell'ascesa e del dominio delle classi borghesi -. Ma se un contributo potremo dare, noi europei, in un mondo liberato, alla formazione di nuovi rapporti sociali, mi pare che esso dovrà consistere anche nel rovesciamento dell'ideologia individualistica in un valore positivo, cioè nella libera espansione della personalità di ciascuno. Se per altri il problema è stato di conciliare socialismo e arretratezza, per noi sarà forse essenzialmente di conciliare socialismo e libertà».
Persino Moravia si soffermava a spiegare il significato della povertà, condizione normale dell’uomo e contrapposta alla disumana ricchezza, funzione espressiva di tutto ciò che è superfluo; e in questo la Cina era un’utopia realizzata perché i cinesi avevano il necessario e non il superfluo, e nessuno aveva il dubbio che la loro umanità fosse completa: una umanità con il carattere di una religiosità laica e rurale, un unicum politico ideale ed estetico per mezzo del quale erano state abolite le differenze tra gli individui e tra i sessi.
Già nel 1998 Maddison parlava della Cina come la seconda potenza economica mondiale davanti al Giappone, anche se non mancano interpretazioni diverse: quella di Studwell fornita nel 2002 che vede lo status di potenza cinese come un miraggio; o quella di Chang, espressa l’anno prima, e in accordo col fatto che la Cina sia al collasso alla stregua dell’Unione Sovietica ai tempi della caduta del Muro di Berlino.
In realtà, quella della Cina è un’economia a diverse velocità, e con un apparato statistico inefficiente, tanto che si dovrebbero prendere con le dovute cautele certe percentuali indicanti il suo status economico. Come giustamente nota Samir Amin, la situazione non può essere ridotta ai soli tassi di crescita analizzati dagli economisti, perché la rivoluzione cinese ha restituito al popolo cinese la dignità e l’unità, oltraggiata dalla aggressione imperialista, creando un clima di solidarietà sociale. William Hinton nota come al contrario della riforma in Unione Sovietica avutasi a partire dagli anni ’30, quella cinese è stata sostenuta dallo stesso mondo contadino; anche se gli errori – spesso non riconosciuti – ci sono stati, tra cui anche quello di non prevedere una fase di transizione.
Da un punto di vista storico, la Cina ha inizialmente puntato sul modello sovietico e su un’industrializzazione pianificata, allo scopo di garantirsi indipendenza politica e autosufficienza economica; negli anni ’80 ha iniziato la propria transizione verso l’economia di mercato attraverso il ritorno all’organizzazione familiare in agricoltura, per poi proseguire negli anni ’90 con la difficile privatizzazione delle grandi industrie.
La sua demografia costituisce una forza ed un handicap allo stesso tempo, visto che il ritmo di crescita della popolazione si riflette nello sviluppo, ma la produttività del lavoro rimane molto bassa, sebbene il disimpegno da processi produttivi obsoleti sia già iniziato dal 1979.
Al di là della crescita spettacolare dei consumi, infatti, si è avuto un progresso limitato nei campi della sanità e dell’istruzione, mentre l’aumento della disoccupazione e della precarietà hanno rimesso in discussione le conquiste sociali anteriori alle riforme.
L’unione sovietica ha offerto senz’altro un modello di sviluppo ed un sostegno economico, ma gli attriti politici ed ideologici hanno condotto alla rottura consumata nel 1960; anche se i successivi “balzo in avanti” e “rivoluzione culturale” hanno preso a prestito dal modello staliniano, una volta riparati i debiti di guerra i dirigenti cinesi si sono ispirati direttamente alla NEP, a partire dal piano quinquennale del 1953-57, avviato dopo la riforma agraria e la redistribuzione delle terre ai contadini dal 28 giugno 1950 in avanti.
Con tale piano, praticamente tutta la popolazione contadina già dal 1956 è entrata nelle cooperative di Mao e la pianificazione è divenuta centralizzata, e lo sviluppo vero si ha proprio col primo piano quinquennale (1953-57), comunque tesa a favorire l’industria pesante al fine di mantenere la potenza autosufficiente, con finanziamenti provenienti da prelievi diretti e indiretti sui prodotti agricoli, i cui prezzi erano volutamente mantenuti molto bassi.
Ad ogni modo, la Cina orienta dal 1949 il proprio commercio estero con i Paesi comunisti, tanto che nel 1957 gli scambi esteri con questi paesi equivalgono ai 2/3 degli scambi totali, seppur con colli di bottiglia e disequilibri: i trasferimenti dal settore agricolo a quello industriale sono vincolati dal livello di produzione, che raggiunge solo la sussistenza. Dopo il XX Congresso del PCUS del 1956 si consuma la rottura: la Cina non ha mai ammesso la condanna ai crimini staliniani e l’apertura all’America segnata dagli incontri Nixon-Chruscev (1959) e il “grande balzo in avanti” del 1958 hanno complicato le cose, tanto che il ritiro dei tecnici russi nel 1960-61 farà fallire il balzo in avanti.
E l’’instabilità economica si avrà proprio col “grande balzo in avanti”, periodo definito da Lemoine gli «anni bui» (1958-61): dopo l’VIII Congresso del PCC del maggio 1958 che annuncia di «colmare il divario con l’Inghilterra in 15 anni», Mao da agosto darà vita alle comuni, su base volontaristica, con lo scopo di a) liberare l’energia delle masse b) spezzare la burocrazia c) rifiutare i modelli esterni; la febbre delle piccole acciaierie rurali prende il sopravvento (tanto che la priorità successiva sarà riabilitare l’agricoltura).
La discussione a sinistra, limitata all’insufficiente analisi della fase maoista (1949-78), rileva comunque come in questo periodo vi sia accordo su alcuni punti essenziali 1) nel 1952-78 il Pil è cresciuto del 6,2%, tasso di crescita doppio rispetto all’India 2) l’ineguaglianza è stata ridotta a un livello minimo, con un coefficiente di Gini oscillante fra lo 0,16 e lo 0,22.
Già nel 1966 la Cina ha interamente rimborsato i suoi debiti con l’Urss, tanto che la “rivoluzione culturale” (iniziata dalla fine del 1965) porterà alla epurazione di tutti gli elementi “borghesi” del partito, attraverso guardie rosse attive sotto la spinta ideologica di Mao. Dal punto di vista economico, l’economia non recede come durante il “grande balzo”, ma viene comunque frenata: l’agricoltura è rimasta ai margini e l’amministrazione pubblica destrutturata; c’è un enorme spreco di capitale umano, con le università chiuse nel 1966 che riprendono a funzionare solo nel 1970, in maniera, però, molto più politicizzata.
Nonostante Hinton dimostri come non ci siano prove o tracce demografiche di quella immensa “carestia” e dei “crimini” provocati dalla rivoluzione culturale, c’erano comunque delle distorsioni, legate alla concentrazione economica sulle industrie pesanti piuttosto che sul terziario, anche se particolare attenzione era data al settore cereagricolo, garantendo la propria sicurezza alimentare meglio di altri Paesi del Terzo Mondo, attraverso il mantenimento di 4/5 della popolazione nelle campagne (e non creando le cosiddette bidonville). Lo sforzo nelle industrie di base è andato troppo oltre, e poiché l’investimento nelle industrie pesanti non dava troppo lavoro, la manodopera rurale in eccedenza è rimasta, e in parte si è ricollocata nelle industrie urbane, con sforzo insufficiente nell’industria leggera e nei servizi. Inoltre, l’efficienza degli investimenti decrescevano a mano che aumentavano queste distorsioni.
Il partito, a brandelli, inizia a ricostituirsi nel 1969, anche se la rivoluzione culturale può dirsi terminata solo nel 1976. Prima, durante e dopo la successione di Mao c’è un periodo di instabilità: il nuovo ministro Hua Guofeng (1978) nel nuovo piano economico prevede una crescita del 10% con preminenza dell’acciaio, di nuovi investimenti, dell’importazione di nuovi macchinari dall’Occidente, ma ha vita breve perché già nel dicembre il plenum del Comitato Centrale prevede subito un “riaggiustamento”; dal punto di vista delle imprese, i prezzi e i salari sono fissati per via amministrativa; il sistema bancario si riduce ad una monobanca; i commerci con l’estero sono gestiti da una manciata di imprese emanazione dello Stato.
Nonostante tali distorsioni, il processo di accumulazione non ha portato però ad un esodo nelle città le cui conseguenze sarebbero state una forte disoccupazione e la domanda di nuove e costose infrastrutture, ma una ben meno costosa disoccupazione rurale (dovuta all’eccesso di manodopera). Allo stesso tempo, la pressione fiscale diretta sul mondo rurale si riduce senza sosta e migliorano i rapporti agricoltura-industria. Il fatto che la struttura dei prezzi continua a penalizzare più la prima che la seconda, lo si evince dal fatto che lo sforzo dell’accumulazione, che è del 20-30% annuo negli anni ’60-’70, va solo per un 10% all’agricoltura, che occupa l’80% della popolazione attiva, contribuisce per 1/3 del reddito nazionale, e per il 50% per le esportazioni. Gli scambi con l’estero sono limitati, e l’acquisto di macchinari comunque episodico.
Lo Stato incoraggia la costruzione di piccole imprese locali, nonché una pianificazione delle colture per la produzione agricola che ha in sé un germe l’assenza di specializzazione regionale è, infatti, uno degli effetti dell’obiettivo di autonomia alimentare cinese.
Dopo la morte di Mao e di Zhou Enlai nel 1976, i maoisti impersonati da Hua Guofeng ereditano contemporaneamente la direzione del partito e del governo, iniziando la de-maoizzazione nel dicembre del 1978 attraverso la cosiddetta modernizzazione socialista, che rimpiazza la lotta di classe. Deng Xiaoping, vice-primoministro e vice-presidente del partito, avvia la liberalizzazione economica: si dà, così, il via allo sfruttamento familiare delle terre e all'eliminazione delle comuni; nell’ottobre 1984 il partito si esprime in favore di un’economia mista, dove possa coesistere economia di mercato e pianificazione, anche attraverso una pianificazione macroeconomica del credito e della fiscalità della moneta; e, contemporaneamente, liberalizzazione dei prezzi, decentramento del commercio dei prezzi, autonomia gestionale delle aziende.
C’è perciò un dualismo, la coesistenza di una doppia struttura di prezzi, statali e privati: ciò consente di attenuare una liberalizzazione brutale, ma allo stesso tempo introduce distorsioni nel network di imprese e nella struttura dei costi, anche con forti tensioni inflazionistiche. La repressione di Tian’anmen mette in luce la corruzione del regime e le riforme mal controllate: i metodi autoritari di pianificazione sono scomparsi prima che venissero implementati gli strumenti necessari alla regolamentazione di una economia di mercato.
La direzione della Cina dal 1978 è quella di «attraversare il fiume per piccoli passi, passando da un sasso all’altro», con evidenti implicazioni micro e macroeconomiche, con una riforma basata sul principio della divisione del sistema, in cui uno Stato proprietario esclusivo era efficace fintanto che si fosse dovuta creare una base solida per l’industrializzazione e la produzione agricola; ma in un contesto di aumento della domanda, si dovevano abolire controlli amministrativi, consentire spostamenti individuali, aumentare occupazione e redditi. E questo è anche il motivo per cui la situazione cinese non è pessima come i Paesi del Terzo mondo capitalista; e ciò anche grazie a tre fasi progressive che vanno dalla responsabilizzazione delle famiglie dopo la scomparsa delle comuni (1978-84), diffusione delle regole di mercato ed allocazione microeconomica delle risorse (1984-91), imposte sui profitti (uguali sia per imprese private che pubbliche) piuttosto che imposte dirette (dal 1992).
L’opzione scelta è quella di un sistema relativamente centralizzato, nel senso che le autorità locali non hanno diritto a mantenere un’economia locale in deficit e che il tipo di fiscalità che possono imporre è determinato dalle autorità centrali; anche se ciò non risolve le ineguaglianze sociali ma le riproduce (prelievo del 30% nelle regioni più povere, e del 120% in quelle più ricche), senza una sostanziale redistribuzione.
Inoltre, nell’autunno del 1988 il governo aveva, al contempo, congelato le riforme e ristabilito i prezzi amministrati. Scoppiano subito, per questo motivo, le contestazioni contro un ripristino del vecchio sistema, accentuato anche dal crollo del comunismo in Unione Sovietica, che convince definitivamente la classe dirigente che la legittimità del potere in Cina si basa sullo sviluppo economico e sul miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
Il XIV Congresso del PCC nel 1992 definisce, con Deng Xiaoping, che rimane l’autorità suprema anche se dal XIII Congresso (1987) ha il solo ruolo di presidente della Commissione degli affari militari, un nuovo obiettivo per le riforme: l’economia socialista di mercato. La liberalizzazione dei prezzi è facilitata dal calo dell’inflazione, e i prezzi amministrati permangono solo per una minima parte del commercio; nel 1993, pur rimarcando la centralità del settore pubblico, il Comitato centrale prevede la diversificazione delle forme di proprietà; nel 1994 si istituisce un tasso di cambio unico.
Tutto ciò è la conseguenza del periodo 1979-1983, cioè di quella che Aubert definisce «la rivoluzione silenziosa»: appaiono dei “contratti di responsabilità” che l’amministrazione rurale stipula con le famiglie, secondo cui i contadini si impegnano a fornire allo Stato una quantità forfettaria di prodotto; le terre rimangono proprietà della collettività ma sono ripartite fra le famiglie al momento della stipula dei contratti che, da triennali e quinquennali, diventano quindicinali nel 1984, e trentennali nel 1993. Nel frattempo lo Stato aumenta in media il 25% dei prodotti definiti essenziali, spesso solo al dettaglio per evitare derive inflazionistiche.
Ma tenendo in considerazione che quello che avviene negli anni ’90 è il retaggio degli anni ’80: nel periodo 1982-85 si abolisce il monopolio di Stato sulla quasi totalità dei prodotti della terra, dopo che il 1981 viene autorizzato il commercio privato su mercati lontani. Soprattutto, si adottano disposizioni volte a favorire la specializzazione territoriale, mentre le comuni vengono ufficialmente soppresse nel 1983, anno della riforma dell’amministrazione: a livello locale si avranno, da questa data, i governi cantonali e i comitati di villaggio, eletti dalla popolazione, una prima forma embrionale di democrazia diretta.
Dopo i raccolti record del 1985 lo Stato non garantisce più ai contadini l’acquisto della totalità del raccolto a prezzi garantiti: viene fissato un tetto massimo e il resto viene messo in commercio a prezzi di mercato. Il problema del fatto che lo Stato non compri più tutti i prodotti è ulteriormente aggravato dalla mancanza di integrazione del mercato interno, con un Sud bisognoso di cereali e un Nord in sovrapproduzione. Ma la vera crisi del mondo rurale si ha negli anni ’90: dal 1978 al 2000 la superficie seminata diminuisce del 12% e la pressione fiscale sui redditi dei contadini aumenta (per il finanziamento dei servizi sociali e delle infrastrutture nelle grandi città).
Invece, dagli anni ’80 le imprese pubbliche hanno la facoltà di conservare parte dei profitti, che sono tassati progressivamente senza che vengano versati interamente allo Stato; gli investimenti vengono finanziati tramite prestiti bancari rimborsabili ad interesse piuttosto che con le desuete dotazioni di bilancio gratuite. Le imprese hanno, comunque, una maggiore autonomia gestionale e di decentramento, e anche qui vengono fatti una sorta di contratti di responsabilità. Nonostante tutto, però, la loro performance cala, sia in termini di risultati operativi che di produttività: per ovviare ad interferenze politiche e ridurre il gap delle tecnologie obsolete, vengono spesso privatizzate, mentre le perdite rimangono socializzate. Poi, il discorso – vero – del disavanzo e delle tecnologie superate spiega senz’altro la crisi di competitività (che si può correggere), ma è sbagliato a identificarla – rileva lo stesso Samir Amin – anche con quella di efficienza.
I beni capitali, infatti, non sono costruiti una volta per tutte. Essi mancano del sostanziale requisito della persistenza – ci dice il Manca – che, invece, è proprio della terra; e per questa ragione pongono problemi di deperimento fisico e obsolescenza, d’utilizzazione ed accumulazione, d’esaurimento e rinnovo, d’un corretto ammortamento; senza, riprendendo Marx, che «il ciclo del capitale procede normalmente solo fino a che le sue differenti fasi trapassano una nell’altra senza ristagno» (senza che il capitale monetario si trasformi in tesoro, le merci in scorte, i mezzi di produzione e la forza lavoro rimangano inattivi).
Solo nel gennaio 1994 le imprese pubbliche diventano come le nostre s.r.l. o le nostre s.p.a., aprendo la partecipazione a soggetti esterni; nel 1995 il partito stabilisce di dovere privatizzare tutte le piccole imprese pubbliche e di detenere solo la proprietà dei settori strategici; nel 1998 i ministeri settoriali vengono integrati nella Commissione statale per l’economia e il commercio. Ciò sta a significare un grosso cambiamento, un cambiamento che, però, non ha migliorato le modalità di gestione e di razionalizzazione, tanto che le società quotate in borsa non hanno avuto risultati operativi migliori delle vecchie imprese pubbliche.
L’unico metodo di miglioramento è sembrato, invece, quello di far entrare investitori stranieri.
La Costituzione del 1982 riconosceva le imprese individuali con meno di 8 impiegati come complementari al settore pubblico, ma è solo con la revisione costituzionale del 1999 che le imprese private sono ufficialmente riconosciute come componenti importanti dell’economia, cui ancora oggi sono vietati certi settori di attività come le infrastrutture, aperti però alle imprese straniere. Ad ogni modo però, secondo le stime del 1998, il settore non statale produce il 60% del Pil.
Uno degli effetti delle riforme è stato la redistribuzione delle risorse finanziarie, che ha aumentato il risparmio delle famiglie dal 5% del Pil nel 1978 al 78% nel 2000. Nel frattempo, la capacità di finanziamento dello Stato crolla, a tutto vantaggio del sistema bancario, che dal 1983 è a due livelli: al di sopra la banca centrale (Banca Popolare di Cina) con compiti macroeconomici (tasso di interesse, politica di credito); al di sotto le quattro grandi banche pubbliche che possono farsi concorrenza (Banca dell’agricoltura, Banca industriale e commerciale, Banca di Cina, Banca della costruzione); vengono create banche anche per iniziativa delle autorità locali; nascono le finanziarie non bancarie.
La riforma bancaria del 1994 rafforza l’autorità della banca centrale e quella del 1995 trasforma le quattro banche secondarie in banche commerciali, creando anche banche di sviluppo. Il sistema bancario cinese è comunque fragile con sofferenze pari ad ¼ dei crediti totali (dati 2002); un sistema che va risanato in vista della concorrenza internazionale, pienamente autorizzata dal 2006 ad acquisire fino al 25% delle partecipazioni in banche cinesi (come imposizione dopo l’ingresso nel WTO). La stessa Borsa valori apre a Shanghai e Shenzhen nel 1990; nel 2002 sono 1200 le imprese quotate, di cui solo 100 private. In questo stesso anno si apre il mercato agli investitori stranieri per le società pubbliche, cui prima era riservato circa il 10% del mercato borsistico, laddove il 90% era in mano allo Stato e alle istituzioni pubbliche. Comunque, la Borsa cinese soffre di deficienze serie, fra cui una regolamentazione insufficiente e falsi in bilancio aziendali.
Dopo il minor gettito fiscale degli anni ’80 e ’90, dovuto anche al decentramento amministrativo, con la riforma del 1994, che ha rivoluzionato il sistema delle imposizioni escludendo anche gettiti extra-bilancio, le entrate dello Stato sono risalite attestandosi a circa il 30% del Pil; ciononostante, la ripartizione fra il centro e le province non è coerente con la ripartizione delle spese fra i diversi livelli, causando diseguaglianza regionale e costi maggiori per le amministrazioni locali in termini di sanità ed infrastrutture.
Dal 1978 la Cina fa ricorso a prestiti accordati a istituzioni finanziarie internazionali, in particolar modo la BM di cui è membro dal 1980; con la legge del 1979 si permettono, poi, gli IDE in società cinesi a capitale misto, favorendo soprattutto quattro ZES in prossimità di Hong Kong e Taiwan, estese poi a tutte le zone costiere (la fiscalità è addirittura ridotta dal 33% al 15%), cercando di attrarre soprattutto i cinesi all’estero. In particolare, Amin Samir è scettico sulla riduzione della povertà incentrata su progetti ad hoc, in assenza di una pianificazione centrale a livello nazionale che si assuma questo obiettivo, come quelli della Banca Mondiale. La pianificazione maoista è stata relativamente efficace nella eliminazione delle ineguaglianze, ma il capitalismo, secondo l’autore, l’ha accentuata (tramite la priorità ai mercati esterni e all’Est della Cina), tanto che una pianificazione centrale può essere in grado di correggerla in parte.
La Cina è diventata membro del WTO l’11 dicembre 2001, impegnandosi a: ridurre la media delle tariffe doganali dal 22% al 15% sui prodotti agricoli, dal 17% al 9% per i prodotti industriali (che non hanno più limitazioni quantitative), dal 100% al 25% quelle automobilistiche, annullare quelle sul materiale per telecomunicazioni; aprire totalmente il commercio per le imprese straniere (anche banche e assicurazioni), autorizzare investimenti stranieri nelle comunicazioni fino al 49-50% e nei fondi di collocamento in Borsa sino ad un 49%. Con tale ingresso, la pianificazione ha perso terreno anche nella politica commerciale, anche se già nel 1992 riguardava solo il 20% delle importazioni. L’industria esportatrice viene, come conseguenza, altamente incentivata.
Dopo le riforme del 1980, l’apertura alla divisione internazionale del lavoro e alla globalizzazione è stata graduale, sia per una scelta interna che per le leggi-embargo degli altri Paesi. Le riforme politiche, sociali e tecnologiche possono essere “pagate” solo con le esportazioni: il commercio estero è così subordinato alle esigenze interne della solidarietà sociale; invece il dogmatismo liberale – come afferma Samir Amin –privilegia anzitutto l’espansionismo, che possa creare dei vantaggi comparati, dei plusvalori, e quindi dei profitti.
La storia della globalizzazione capitalistica non è quella del successo delle politiche di recupero fondate sull’aggiustamento del mercato e sui vantaggi comparati, ma quella della polarizzazione centri-imperialistici periferie sfruttate; inoltre, l’apertura del conto capitale, dei flussi di capitali, considerando la moneta merce alla stregua delle altre, ha amplificato i problemi, contribuendo a creare la crisi finanziaria del sud-est asiatico e della Corea nel 1997. Tuttavia questa crisi non ha spinto i liberali cinesi a rivedere le loro scelte fondamentali: si continua a dare la priorità alle industrie export-oriented, riprendendo il discorso dell’Fmi che ha attribuito la crisi a cause secondarie, proponendo come rimedio la semplice riforma del sistema bancario. E, sempre secondo Samir Amin, l’adesione al Wto significa un disastro nell’agricoltura cinese, per via delle regole imposte dalla istituzione, regole che obbligano di fatto la Cina a rinunciare all’autonomia alimentare che aveva conquistato, e a smantellare industrie fondamentali (seppur troppo costose).
Inoltre, le riforme del sistema economico non avvengono senza resistenze e tensioni sociali, poiché la «tirannia dello status quo» (espressione utilizzata da Friedman) agisce in senso conservatore. I rapporti di produzione, una volta istituzionalizzati, tendono – per il Manca – a perpetuarsi, e in base ad un sistema economico che è un’organizzazione sociale tipica del tempo e del luogo ai quali si riferisce. La rappresentazione che di solito si dà di tale sistema è necessariamente schematica, non è che un’approssimazione alla realtà storica, il risultato d’una valutazione media dei fatti osservati, difficilmente riproducibili in tutta la loro complessità.
Anche se, richiamando Schumpeter, «non si può sperare di comprendere i fenomeni economici di una qualsiasi età, compresa quella presente, senza un’adeguata padronanza dei fatti storici e un’adeguata misura di senso storico o di quella che può essere chiamata “esperienza storica”».
Dal 1952 al 2001 anche la quota dell’agricoltura sul Pil è crollata dal 51 al 15 %, un risultato dovuto alla crescita lenta del settore, alla diminuzione dei prezzi relativi, alla sottoccupazione del settore, visto anche che la superficie coltivata è di 1/6 del territorio. Nonostante ciò, la Cina ha raggiunto il proprio obiettivo di autosufficienza: fin dagli anni ’80 ha una produzione eccedente di prodotti agroalimentari, di cui è esportatrice netta. D’altro canto la crescita delle industrie rurali che si verifica a partire dal 1978 risponde all’esigenza di creare posti di lavoro per assorbire l’eccesso di manodopera agricola, e di accrescere gli introiti fiscali da parte delle autorità locali. A questo contribuiscono sia le imprese collettive che quelle private e individuali. Queste attività sono essenziali per l’economia rurale, visto che assicurano agli abitanti delle campagne quasi la metà dei loro redditi netti. Tali aziende rurali sono a tutt’oggi centinaia di migliaia, e si appoggiano per lo più agli organismi locali; sono distribuite in modo omogeneo, ma chi ne ottiene il maggior vantaggio sono comunque i distretti ricchi.
L’industria vera e propria ha, invece, due assi nella manica: le risorse naturali, che le assicurano l’indipendenza energetica (12% del totale mondiale di carbone, 2,3% di petrolio, 0,9% di gas, enorme potenziale idroelettrico amplificato dalla diga sullo Yangzi installata nel 2003), e le gigantesche riserve di manodopera, la chiave del successo della sua industria manifatturiera; anche se è vero che il consumo di energia cresce molto di più della produzione, facendo aumentare la dipendenza della Cina verso il petrolio (soprattutto nei confronti di Paesi come Russia e Kazakistan).
Il numero di lavoratori dell’industria in Cina oltrepassa quello di tutti i Paesi membri dell’OCSE messi insieme (131 milioni). Per di più, la radicalizzazione delle riforme ha imposto obiettivi di produttività ad imprese che fino a quel momento avevano solo puntato sulla crescita del fatturato, accumulando un eccesso di effettivi e senza preoccuparsi della redditività. Il rallentamento della crescita sperimentato dal 1997 ha accelerato gli aggiustamenti che dovevano essere messi in atto, evidenziando l’eccesso di occupazione e intensificando la concorrenza sul mercato interno, in concomitanza con la flessione della domanda esterna indotta dalla crisi asiatica del biennio 1997-1998. E l’industria statale è stata quella che ci ha rimesso, colpita in pieno da questi aggiustamenti: ha perduto il 35% dei propri effettivi, principalmente a causa delle nazionalizzazioni, alle quali si aggiungono le privatizzazioni. È negli ultimi 20 anni che è cresciuto molto il settore dei servizi ed è diminuito dal 56% (1978) al 41% (1996) il ruolo dello Stato.
Si può richiamare, insomma, quel discorso che fa Ciro Manca in merito ai rapporti di produzione, i quali hanno un fondamento nei rapporti di proprietà. I proprietari appaiono necessariamente contrapposti ai non-proprietari, laddove i primi sono dominanti, gli altri i dominati. Ma si tratta di un punto di vista ad alto livello di astrazione, un modello, per Topolski, che «semplifica molto la complessità del reale». In Cina siamo a metà strada, un collettivismo-pianificazione sempre più tendente al libero mercato. Se i rapporti di produzione vanno studiati, realisticamente, come rapporti fra produttori divisi in classi e sottoclassi, notando – con Dobb – che «la storia è stata finora storia di società divisa in classi», «pur tuttavia l’antagonismo di classe è legato alla distribuzione del reddito prodotto, non tanto dalla questione della proprietà dei mezzi di produzione. Molto dipende dalla quantità, dalla qualità, dall’importanza che i fattori dei quali si è titolari assumono nel processo produttivo».
Non si può, cioè, parlare di privatizzazioni senza una reale concorrenza, ma soprattutto senza un intervento statale redistributivo e non verticistico. La lotta di classe può concorrere alla rimozione delle resistenze di parte che si oppongono alla trasformazione dei rapporti ed alla riforma delle istituzioni, ma in Cina la formazione di tali classi è molto peculiare, non essendoci tutele sindacali, essendo la maggior parte della popolazione rurale, essendo i capitalisti di oggi legati alla classe dirigente politica, o agli investitori stranieri.
Tra il 1980 e il 2001 il valore aggiunto dell’industria è aumentato dell’8% annuo, crescita trascinata dalle manifatture con settori nuovi in crescita (elettricità, elettronica, agroalimentare) e tradizionali in calo (metallurgia, meccanica, tessile). L’industria cinese nel 2001 comprende 6,7 milioni di piccole imprese, ma chi realizza il prodotto sono 8.600 grandi imprese (47% del prodotto), 12.500 medie imprese (40%), e 148.000 piccole imprese (13%); il 40% del Pil totale è comunque ancora prodotto da imprese pubbliche.
Ad ogni modo, le imprese private, rese marginali da una legislazione spesso precaria e dalla mancanza di risorse finanziarie, hanno lasciato il campo libero agli investitori stranieri: ad esempio, ancora alla metà degli anni ‘80 la produzione di autovetture per uso privato era quasi inesistente in Cina; l’espansione è cominciata solo all’inizio degli anni ‘90, con l’arrivo degli investitori stranieri. Tutte le multinazionali dell’automobile sono presenti in Cina e si dividono i 4/5 di un mercato ancora protetto; la produzione di autoveicoli era inizialmente dipendente da componenti importate, ma ormai integra un’importante quota di componenti prodotti localmente.
Ma gli investimenti stranieri hanno accentuato un’altra conseguenza pregressa. Dal 1985 al 1992 il peso degli scambi interprovinciali cinesi, quindi interni, rispetto al Pil, è diminuita dal 26 al 16%. Al contrario, l’apertura delle economie provinciali agli scambi con l’estero ha segnato un progresso impressionante passando dal 10 al 18%: insomma, per l’economia cinese gli scambi con l’estero sono diventati più importanti degli scambi interni. Questo è ancor più vero per le province e municipalità costiere, soprattutto dopo il crollo delle entrate fiscali e la loro mancata redistribuzione da parte dello Stato. Le ineguaglianze negli ultimi anni si sono accentuante con le regioni costiere, non solo perché a più stretto contatto col capitalismo mondiale e sedi di innovazione industriale, ma i motivi sono più complessi: tra cui la crescita della produzione agricola favorita della domanda urbana, e i subappalti concessi da industrie rurali a piccole industrie urbane che niente hanno a che fare col capitalismo mondiale.
La produttività del lavoro aumenta grazie all’aumento del capitale disponibile per lavoratore, al miglioramento della qualità della manodopera e alle nuove forme di organizzazione. Nel settore agricolo gli aumenti di produttività estremamente rapidi (quasi il 4% annuo) sono principalmente dovuti alla decollettivizzazione e alla diminuzione dell’occupazione agricola. Negli altri settori lo stock di capitale cresce rapidamente e contribuisce all’aumento della produttività del lavoro che, a seconda delle stime, si situa tra il 3,5 e il 6%.
Ma a livello di storia economica non si può parlare solo di produttività: i fattori umani ed extraumani costituiscono le forze produttive del sistema economico, alle quali i rapporti di produzione devono essere adeguati, adeguamento che significa istituzionalizzazione derivante da una organizzazione: il sistema economico si configura pertanto come una struttura organica d’istituzioni. Tale struttura potrebbe anche richiamare, volendo, una piramide di Maslow cui lo Stato, per non subire esso stesso le distorsioni di un libero mercato, si dovrebbe adeguare, sino al garantire un efficace intervento verso quei bisogni cosiddetti “primari” (nutrizione, educazione, salute), e restringendo la “piramide interventista” sempre più, mano a mano che tali bisogni diventano più individuali e “secondari”.
Anche Lange ammonisce come: «i rapporti sociali che si formano nel processo economico si differenziano dagli altri tipi di relazioni sociali, per il fatto che sorgono mediati dagli oggetti materiali necessari al soddisfacimento dei bisogni: mediati cioè dai mezzi di produzione, oppure dai beni di consumo». I rapporti di produzione dipendono, cioè, dal livello storico delle forze produttive alle quali devono essere progressivamente adeguati.
Paul Krugman sostiene come la crescita delle economie asiatiche, e soprattutto cinese, ancorché sovrastimata, sia dovuta ad un aumento dei fattori della produzione più che ad un aumento della produttività; prevede perciò un rallentamento a causa della legge dei rendimenti decrescenti. Anche la crisi asiatica del 1997-98 ha dimostrato come la Cina non sia immune soprattutto a errori di carattere di politica economica, quali sovrainvestimento, errata allocazione delle risorse, corruzione.
La razionalità capitalistica non produce una allocazione ottimale delle risorse, così come non lo fa una proprietà esclusivamente pubblica: politiche macro e microeconomiche devono essere armonizzate, laddove la Cina si trovi nel mezzo fra pianificazione centralizzata e pura libertà dei mercati, un “socialismo di mercato”, che continua il trend positivo, soprattutto a livello di consumi, posto dalle basi maoiste.
Secondo la valutazione del Pil cinese in dollari correnti la Cina è una potenza media, rappresentante il 3,4% del Pil mondiale (poco sopra l’Italia, a distanza dal 22% degli USA e dell’11% del Giappone). Ma la valutazione in dollari è errata, poiché dipendente dal tasso di cambio dello yuan: se si confronta la parità del potere di acquisto le potenzialità sono enormi (11%, contro il 20% Usa e sopra l’8% giapponese). A confronto con l’altra grande potenza asiatica, l’India, la Cina gli è superiore per reddito medio per abitante (3.900 2.400 dollari), speranza di vita alla nascita (70 contro 63 anni), alfabetismo della popolazione adulta (84 contro 57%). La mortalità infantile si attesta invece al 32 per mille contro il 69 per mille di quella indiana; anche se le persone che vivono in stato di malnutrizione (al 2000) sono il 10%, e il 20% quelle che vivono con meno di 1 dollaro al giorno.
A livello sanitario, la prevenzione prende la forma di campagne di vaccinazione e di miglioramento dell’ambiente sanitario (soprattutto acqua potabile); la densità di personale medico è abbastanza alta, e un sistema di cooperative vigente prima degli anni ‘90 assicurava la copertura delle spese mediche in campagna. Dopo gli anni ’90 sono però scomparse le cooperative, aumentate le disuguaglianze nell’accesso alle cure e il divario tra famiglie rurali ed urbane. La proporzione della popolazione che è coperta da una assicurazione sociale è diminuita in modo considerevole: lo Stato si occupa solo del 15% del totale, le aziende del 19%, i nuovi sistemi collettivi rurali solo del 3%. E comunque, gli abitanti delle zone rurali sono esclusi dai fondi di assicurazione sociale. La popolazione attiva urbana, invece, che alla fine del 2001 aveva un’assicurazione contro la disoccupazione era del 44%, del 66% quella con un’assicurazione previdenziale di base, e del 34% quella con una copertura medica. Però, l’idea aprioristica che il settore privato sia più efficiente, idea che ha portato a trasformare le imprese di Stato in s.p.a., porta con sé il rischio che si privatizzino anche servizi sociali come la sanità o l’istruzione, creando evidenti distorsioni. A titolo esemplificativo, le conseguenze avutosi nel sistema cinese della donazione del sangue: la popolazione delle campagne dona il sangue, la cui donazione è obbligatoria per tutti i cinesi, al posto dei ricchi delle città che non lo vogliono donare, facendosi corrispondere una cifra per farlo; spesso è sangue infetto, o malato; quando il ricco ha bisogno di una trasfusione, spesso deve pagare ancora per avere sangue non infetto.
E restando nel tema del sistema previdenziale, nel 1995, viste le crescenti difficoltà per le imprese di pagare le pensioni ai dipendenti, viene riformato il sistema pensionistico, prevedendo il versamento sia da parte delle imprese, che da parte del lavoratore; sia la formazione di conti personali. È un sistema che si trova subito in disavanzo, problema in parte risolto con l’indebitamento pubblico, le privatizzazioni, le buona gestione dei fondi previdenziali, un’imposta specifica destinata a pagare le pensioni.
La Cina effettua più della metà dei suoi scambi internazionali con l’Asia, e questa dipendenza è soprattutto evidente per quel che riguarda le importazioni. Il Giappone è il suo primo fornitore, seguito da Taiwan. Hong Kong è il primo destinatario delle sue esportazioni, anche se la maggior parte si limita a transitare per il territorio e viene riesportata: più di 1/3 verso gli Stati Uniti e 1/4 verso l’Unione Europea. Il transito per Hong Kong, quindi, contribuisce a gonfiare artificiosamente la quota asiatica delle esportazioni cinesi.
Le statistiche cinesi mostrano che nel decennio 1991-2001 i ¾ degli IDE in entrata vengono dall’Asia, la metà dei quali da Hong Kong. I flussi di investimento in provenienza da Hong Kong includono non solo le operazioni delle società del posto, ma anche quelle di imprese straniere che, non volendo o non potendo investire direttamente in Cina, usano le società del territorio come intermediari. Compresi – si stima – un 25% di IDE illegali, cioè capitali cinesi trasferiti a Hong Kong e ritrasferiti in Cina per approfittare delle vantaggi concessi agli IDE stranieri.
Se si esclude Hong Kong, il primo investitore sono gli Stati Uniti, davanti a Giappone, Unione Europea e Taiwan; se invece ci si concentra solo sui paesi OCSE (dell’Asia fanno parte dell’OCSE solo Giappone e Corea del Sud), si nota che in relazione al totale gli IDE diretti in Cina sono una quota modesta (5%), poiché i paesi OCSE realizzano l’80% degli IDE fra di loro.
Comunque sia, la maggioranza degli IDE diretti in Cina è destinata alla creazione di nuove imprese, che aumentano la capacità produttiva del paese ben più di semplici partecipazioni o acquisizioni (che però si svilupperanno nel futuro). Gli investitori asiatici delocalizzano soprattutto per il basso costo della manodopera, mentre americani ed europei sono soprattutto interessati al mercato interno cinese, per il quale sviluppano specifiche linee produttive, e in particolar modo (60%) inerenti all’industria manifatturiera. Pertanto, mentre per Stati Uniti ed Europa le esportazioni verso la Cina sono costituite soprattutto da prodotti destinati al mercato interno, quelli del Giappone e degli altri Paesi NIE1 asiatici sono costituite da prodotti da assemblaggio: con questi ultimi la Cina è in netto disavanzo, ma tale assemblaggio gli ha permesso di sostituire i prodotti assemblati in Occidente con prodotti assemblati in Cina, creando un forte avanzo coi Paesi occidentali. I ¾ delle esportazioni tradizionali (che non siano tecnologia) sono invece realizzate da imprese cinesi.
Allo stesso modo, si constata il declino relativo del Giappone, che nel 1980 pesava negli scambi mondiali il 6%, come tutti i Paesi NIE1, NIE2 più Cina messi insieme; nel 2001, invece, la quota di questi Paesi è salita al 14%, e la Cina è quella che ha contribuito di più (toccando una quota del 18%). Ma la Cina – si sostiene da più parti – non può essere la locomotiva del commercio, poiché ha una scarsa autonomia, e una scarsa domanda autonoma.
Gli scambi con i Paesi dell’ASEAN (con l’eccezione di Singapore), pur in rapida crescita, restano ancora limitati. Questi Paesi, infatti, considerano la Cina un concorrente sui mercati mondiali dei prodotti a forte intensità di lavoro e nei flussi internazionali di capitali (considerata anche la dipendenza dalla Cina, soprattutto per l’import/export, di una Regione Amministrativa Speciale come Hong Kong, e di Taiwan). La Cina tenta però di migliorare i propri sforzi in favore di una cooperazione regionale: si noti l’accordo a quattro (Asean, Pechino, Seul, Tokyo), l’accordo di cooperazione monetaria del 2000, l’accordo per un’area di libero scambio del 2002. Dato l’indebolimento del Giappone, infatti, la Cina può stabilire in modo sempre più netto la propria leadership economica delle regione.
Al contempo, le relazioni commerciali tra i Paesi europei e la Cina sono relativamente poco intense, a causa delle rispettive integrazioni nelle aree geografiche di appartenenza e della distanza che le separa. Solo il 2,5% delle importazioni totali viene dalla Cina (materiale elettrico ed elettronico, tessile) e solo l’1% le è destinato (macchinari e attrezzature, materiale elettrico ed elettronico); il disavanzo europeo è significativo. L’apertura dell’economia cinese risulta perciò, in definitiva, distorta: le importazioni della Cina risultano di gran lunga inferiori alle esportazioni, e solo il 50% di queste importazioni va a soddisfare il mercato interno, visto che il resto è destinato ad essere ri-esportato.
La bilancia dei pagamenti cinese è in netto avanzo, sia commerciale, sia in conto capitale (visti gli IDE), tanto che le riserve valutarie – sebbene ci sia stata paura relativa della svalutazione dello yuan nel periodo 1997-99 – sono del 70% in dollari, del 10-15% in euro, il resto in yen.
Ad ogni modo, nel XVI Congresso del PCC (2002), oltre a ribadire il principio della liberalizzazione economica, di un maggiore sfruttamento delle terre, della privatizzazione, di un più largo accesso ai finanziamenti (anche per gli stranieri), si è detto che si ammetteranno all’interno del PCC anche imprenditori privati. Ciò è un grandissimo passo avanti rispetto al passato, poiché autorizza esperienze limitate di elezioni dirette a livello locale; in più, alcune forme di democratizzazione interna del partito possono contribuire ad allargare le sue fondamenta e a rafforzare il processo di negoziazione interna, consolidando così la legittimità del suo potere.
Sentir dire a Pechino, rileva Amin Samir, che «esiste in Cina come ovunque una destra e una sinistra» è certamente positivo, se si pensa al carattere unanimistico dei discorsi del socialismo di ieri e del “pensiero unico” del capitalismo liberale in Occidente. Il dibattito contrappone, infatti, i molti sostenitori di un capitalismo mondiale, ai sostenitori della proposta socialista.
Una affermazione dello Stato di diritto ne migliorerebbe anche l’immagine internazionale, e l’intensa attività legislativa che la Cina sta attraversando è volta anche all’armonizzazione con la legislazione internazionale. Per Pechino, il rafforzamento e l’omogeneizzazione del sistema giuridico rappresentano anche un mezzo per riaffermare il controllo centrale sui poteri provinciali. Ma la creazione di uno Stato di diritto non può ridursi ad assicurare la regolarità degli atti amministrativi; richiede anche l’indipendenza del potere giudiziario, soprattutto dall’influenza del partito.
I problemi, comunque, di cui si dovrà tener conto sono quelli tipici di ogni Paese sviluppato o in via di sviluppo: invecchiamento della popolazione, con conseguente aumento della spesa sociale (anche per via di una crescita demografica frenata, che condiziona l’aumento della popolazione in età lavorativa), la limitazione delle risorse naturali e il degrado ambientale (tra il 3 e l’8% il costo sul Pil in termini di vite umane e cure mediche, costi azzerabili con opportune politiche ambientali e una nuova fase di industrializzazione che migliori la qualità delle industrie e del carbone), l’urbanizzazione con la conseguente formazione di bidonville e del sottoproletariato urbano, necessità di risorse idriche soprattutto per le zone agricole (Nord). E secondo Liu Wenpu, la tragedia delle bidonville che ha sostituito quella dei contadini senza terra è un fenomeno generale nel mondo capitalistico periferico.
Nel 2000 il Pil cinese rappresenta circa il 3% del Pil mondiale; se si assumesse una crescita annuale come quella attuale (7% del Pil all’anno), la quota passerebbe al 7% nel 2020 (restando però 1/3 di quello europeo e la metà di quello giapponese); senza però contare Hong Kong e Taiwan, che lo spingerebbero al 10%. La stima delle esportazioni cinesi è, invece, in crescita per il 2020: sono stimate al 10% della totalità mondiale, contro il 7% giapponese, l’11% statunitense, il 31% europeo. Il rischio per l’Occidente è che vi sia una redistribuzione internazionale della produzione a vantaggio della Cina, che ha i vantaggi di bassi livelli salariali e di economie di scala associate alla produzione standardizzata di massa.
Comunque, la Cina è un paese le cui risorse naturali sono limitate e, in ogni caso, un’accumulazione di avanzi commerciali strutturali provocherebbe un apprezzamento della sua valuta, che andrebbe a detrimento della competitività delle esportazioni. Nella logica in cui importazioni ed esportazioni evolvono più o meno allo stesso ritmo, la Cina avrebbe avanzi crescenti con Usa ed Europa, ma disavanzi crescenti con i Paesi asiatici e l’Asean.
Secondo Samir Amin, le tre prospettive di sviluppo della Cina all’alba del XXI secolo sono: 1) un progetto imperialista di smembramento del paese e di sfruttamento delle regioni costiere da parte del capitale straniero 2) uno sviluppo capitalistico “nazionale” 3) un progetto che associ in modo complementare e conflittuale allo stesso tempo le logiche capitalistiche e quelle sociali (che dei tre sembra quello posto in essere oggi). A detta di tale autore, l’apertura al mercato e la deregolamentazione non è una forma di democratizzazione, bensì l’affermazione autocratica del potere delle classi dirigenti; e la centralità del dibattito sta nei mezzi politici statali utilizzati: se dare (modello 2) o meno (modello 3) la priorità alla riduzione delle diseguaglianze sociali, cui Samir Amin dà particolare importanza, guardando ad una democratizzazione reale, piuttosto che ad una «democrazia a bassa intensità» proposta dalla ideologia occidentale dominante, inteso come pluripartitismo politico reso impotente dalla dittatura di mercato.
Si è costruita, si sta costruendo, e si finirà di costruire una nuova classe media di professionisti e piccoli imprenditori, i “nuovi ricchi”, grandi imprenditori che per lo più si associano allo Stato o a imprese straniere, che sfrutteranno l’urbanizzazione della popolazione e l’abbattimento delle barriere amministrative delle campagne, per aumentare licenziamenti e disoccupazione (alto turn over); creando più “carestie”, per Amin Samir, dell’epoca maoista. E comunque, dichiara l’autore, le campagne cinesi non hanno una miseria estrema su vasta scala come in altri Paesi del Terzo Mondo.
Sembrerebbe, allora, non errato richiamare quel Principio di Responsabilità che Hans Jonas definisce per «preservare all’uomo, nella residua ambiguità della sua libertà, che nessun mutamento delle circostanze può mai sopprimere, l’integrità del suo mondo e del suo essere contro gli abusi del suo potere», visto che i nuovi capitalismi – Cina in primis -, seppur non in grado di assurgere al ruolo di potenza, non possono essere considerati un’entità chiusa o con relazioni esterne di importanza secondaria, ma aventi intricati rapporti di interdipendenza in un rapporto asimmetrico, dominato dagli Usa e poi dal Nord del mondo. Tanto che in Asia, il credo liberista appare, da tempo, determinante nell’approccio alle questioni internazionali, pur non scevro da quelle debolezze ricordate dal Beaud, quali: il modello di crescita completamente rivolto all’inserimento nell’economia mondiale (tanto con le esportazioni quanto attraverso gli investimenti e i finanziamenti esteri), l’eccesso di indebitamento, la mancanza di prudenza delle banche, i meccanismi speculativi.
Pur tuttavia, la crisi iniziata con le gravi difficoltà del bath thailandese nel luglio 1997, ed estesasi rapidamente alla Malaysia, all’Indonesia e alle Filippine, mettendo in luce le debolezze finanziarie e bancarie della Corea del Sud – nonché aggravata dalle ricette del Fmi e in particolare dai suoi elevati tassi di interesse – è stata in parte attenuata dalla decisione della Cina di non svalutare lo yuan. Anche questo è un fenomeno di interazione ed interdipendenza, seppur, ricordiamolo, la globalizzazione in corso è polarizzata, ineguale, asimmetrica, visto che risulta determinante il peso geopolitico dei paesi capitalisti ricchi, definiti “Triade” da Kenichi Ohmae e “arcipelago metropolitano mondiale” dal geografo Oliver Dollfus, dove si decidono le strategie planetarie dei grandi Stati e delle multinazionali (finanza internazionale, nuove tecniche, nuovi modi di consumo e di vita) «ma dove sorgeranno anche i nuovi pericoli tecnoscientifici»; e visto che parte dei dollari presenti nel mondo sono xenodollari, con la Federal Reserve come creditore internazionale più importante.
Ancora, Beaud vede come «paradossalmente il mondo intero ha contribuito al finanziamento della crescita americana degli ultimi vent’anni del XX secolo», ricordando però che la Cina è in grado di salvaguardare una certa autonomia, data anche la sua «storia prestigiosa e segnata da momenti di progresso», e la sua capacità di coniugare mercato e amministrazione, centralizzazione e decentralizzazione, capacità manifatturiera e sapere scientifico, Stato e società. Sviluppando, con tutto ciò, importanti capacità produttive e anche, se ancora lontane dai paesi ricchi, capacità significative nel settore nucleare e spaziale; in quello della ricerca e in tutti i campi moderni. Senza trascurare che a PPA la Cina ha un peso sensibilmente maggiore e il suo mercato interno è potenzialmente immenso.
Anche se, continua l’autore, non è immune dai pericoli scatenati dai nuovi bisogni, quali la mercificazione dell’uomo, delle società, della terra, con conseguente monetarizzazione della vita sociale e progressivo aumento del lavoro salariato; con creazioni di nuove povertà e nuove emarginazioni; con l’importanza crescente della tecnologia, della ricerca, della scienza; e una continua accentuazione della divisione del lavoro; talché, citando Karl Polanyi, «la società viene condotta come accessoria rispetto al mercato. Non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico». Tutto sarebbe ormai soltanto una questione di massimizzazione o di ottimizzazione: il miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, la loro stessa esistenza, persino la loro felicità sembrano ormai dipendere unicamente dalla crescita economica.
Ritornando su quanto detto all’inizio in merito all’importanza della dimensione sistemica, a livello introduttivo credo che quanto detto sia sufficiente a distinguere, in una prospettiva dicotomica, una realtà occidentale ed una realtà orientale, sempre più intercorrelate. Al fine di parlare di una sorta di cambiamento dialettico, emblematico è il rapporto che si può creare fra gli opposti, poiché opposti potevano essere considerati – schematizzando – il sistema occidentale e quello orientale; in effetti, non si può usare il termine Occidente se non si presupponga - così che il termine porti già in sé – l’Oriente: gli opposti sono delle coppie che si definiscono a vicenda, la cui esistenza di una parte dipende dall’esistenza dell’altra, seppur siano pervasi da uno stato di tensione e, al contempo, da uno stato di armonia e di completezza.
Come nella filosofia taoista, nell’ambito sistemico Occidente-Oriente vi è un flusso continuo determinato dal rapporto dinamico yin-yang complementare, un movimento ciclico continuo le cui due parti contengono il seme dell’opposto, implicanti, di fatto, una trasformazione. La variabilità del sistema in generale – poiché è l’approccio sistemico che intendo sviluppare -, dove fisiologicamente l’evoluzione è la normalità, e dove l’instabilità è un fattore necessario per la sua riproduzione, non si differenzia da quella dei sistemi in particolare – e tra questi quello internazionale – in cui il mutamento e l’adattamento ad un nuovo stato di cose è, par excellence, necessaria alla sopravvivenza sistemica. Sarebbe sbagliato non vedere i due sotto-sistemi come facenti parte di un “sistema mondo” più generale, considerato che l’ineliminabilità di un meccanismo comunicazionale e di interazione dinamica pressoché latente, porta ad una dinamicità e a un plusvalore sistemico che si rifà ad una concezione tale per cui, il tutto è più della somma delle singole parti.
La percezione del paradosso va gestita, e non ci si può fermare a mantenere lo status quo, un paradosso comunque inevitabile e ancor più evidente quando si tenta di porre il tutto sotto il “cappello unico” della “globalizzazione”: lo stesso Kurt Lewin, psicologo sociale, negli anni ’40 mise in evidenza il fatto che ogni cambiamento potenziale è ostacolato da forze che agiscono nella direzione opposta al cambiamento stesso. L’equilibrio va perciò stabilizzato rimuovendo le forze che si oppongono al cambiamento e ricongelando la situazione in un nuovo stato di equilibrio, anche minimizzando gli aspetti negativi e dando vita a nuovi contesti che sappiano riformulare le contraddizioni in modo positivo e promuovendo una etica del conflitto non estrema.
L’evoluzione delle visioni comporta sì, infatti, una distruzione, ma non è l’obiettivo consapevolmente principale, altrimenti si attiverebbero delle situazioni instabili e patologiche; l’incontro delle versioni occidentali ed orientali deve venire attraverso regole più o meno codificate, tenendo conto dei diversi modi di rapporto con l’ambiente con cui si interagisce, ma pur sempre in chiave evolutiva e in termini gestalticamente intesi.
Dopotutto, Bohm sostiene il cambiamento di prospettiva sistemica attraverso un flusso olistico di un ordine implicito non attualizzato, che crea un ordine esplicito manifesto, basato cioè su manifestazioni e percezioni, anche per mezzo di un feedback tra gli input e gli output di un determinato ambiente, interattivamente inteso; senza dimenticare né l’autonomia di un sistema o, nel nostro caso, sotto-sistema, nè la propria autodeterminazione e la propria autoriproduzione di organizzazione e identità, dove ogni elemento garantisce contemporaneamente il proprio mantenimento e quello degli altri.
L’ambiente, insomma, è autodeterminato internamente in ogni sistema: pertanto Occidente ed Oriente, Oriente in questo caso inteso come Cina, avranno un proprio e ben identificabile ambiente. È il concetto di saggezza sistemica sviluppato da Bateson che ci permette di considerare un approccio che sostanzialmente riduca i due sotto-sistemi ad intero, dunque senza una attivazione a chiusura autoreferenziale. Va evitata, cioè, una attivazione egocentrica che esalti il proprio ambiente e non tenga in considerazione gli altri, va sfidato lo status quo. Tutti i sistemi complessi mostrano una tendenza naturale a situazioni di tensione, e si trovano sotto l’influenza di poli diversi che alla fine definiscono i contesti in cui si sviluppano i singoli elementi comportamentali del sistema, e le relative resistenze al cambiamento ed energie latenti.
Metaforizzando il tutto tramite il cosiddetto “effetto farfalla” – per cui un cambiamento così insignificante come il battito d’ali di una farfalla a Pechino può avere ripercussioni sui modelli meteorologici del Golfo del Messico –, si può notare come ogni persona che desideri cambiare il contesto in cui opera, dovrebbe cercare d’individuare attività realizzabili caratterizzate da un effetto leva significativo in grado di attivare un processo di modificazioni che si sviluppi da un ambiente all’altro; inoltre, c’è da notare come piccoli cambiamenti possono catalizzare cambiamenti di grandi dimensioni per il semplice fatto che il cambiamento tende a riprodursi, auspicando ad una sorta di relazionalità – e dunque non unilateralità – Occidente-Oriente, che sappia gestire i confini ambientali ma allo stesso tempo introduca una logica circolare di causalità reciproca.
Ciò premesso, è importante considerare la complessità del sistema. Un sistema aperto caratterizzato da equifinalità, ovverosia da combinazioni diverse di possibilità per raggiungere i medesimi obiettivi, è tanto più adatto a sopravvivere e riprodursi quanto più differenziato e articolato sia al suo interno. Sposando tale tesi, l’autoreferenzialità (autolegittimazione) e l’autopoiesi (autoriproduzione dei suoi elementi costitutivi) sono determinanti, affinché ci sia o meno una non unilateralità delle posizioni che conduce al pregiudizio: il problema della complessità sistemica, che in fisica va a sostituire quello lineare della fisica classica, è la non dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali del sistema, cioè l’imprevedibilità di una sequenza casuali di eventi, che può conferire un assetto multiconfigurazionale: paragonato al sistema internazionale preso in esame, questo vuol dire che il giudizio di determinati elementi e/o la percezione stessa di quegli elementi, non deve essere fatta a priori, pur tenendo in considerazione gli importanti “fatti storici” precedenti.
Delle sub-unità interagenti di un sistema – nel nostro caso cinese - non ha la priorità la funzione (lo scopo che il sotto-sistema si prefigge di raggiungere), né una funzione gerarchizzata (la presunta bontà o eticità di quello stesso scopo), né tanto meno una “complicazione” (somma meccanica di tutto ciò che concorre alla formazione di uno Stato che proietta la propria politica all’esterno), ma la “complessità”, cioè le relazioni differenziate presenti in uno Stato e proiettate all’esterno di uno Stato, che richiama di per sé la termodinamica come teoria generale. È in questo ambito che si può collegare appieno l’ottica capitalista, o della cosiddetta “globalizzazione”.
Il primo principio della termodinamica è un principio di conservazione dell’energia, la quale per permettere al sistema di funzionare e di espletare almeno le funzioni sufficienti al suo mantenimento. Tale energia deve essere consumata in parte per la produzione di lavoro, che non può essere prodotto ciclicamente facendo ricorso ad un’unica sorgente, e che produrrà incessantemente ulteriore calore (secondo e terzo principio). Non potendo diminuire, l’entropia creerà maggior disordine, e con esso maggior complessità, che se non riequilibrata da chiusure operative adattive porterà inevitabilmente alla disintegrazione del sistema. Come un organismo che si nutre, produce lavoro, crea energia aggiunta che elimina tramite gli apparati escretori pena lo “scoppio” del sistema, anche nel nostro caso si produce energia, si aumenta l’entropia e la si riduce: poiché conflitti più o meno latenti concorrono ad aumentare la tensione del sistema stesso, occorre che l’attenzione non si ponga solo su di un determinato sotto-sistema. Nonostante focalizzarsi solo su un dato ambiente sia più semplicistico e siano necessarie meno energie, ciò non pone le basi per una maturazione sistemica delle relative posizioni – individuali, di gruppo, o per issues -, maturazione raggiungibile solo con una relazionalità circolare basata su un feedback che ampli le vedute e le percezioni interambientali. Ed è su questo feedback che si centra il sistema capitalista, visto come una logica di accumulazione al fine di creare surplus, ma che non può essere indifferente da quei meccanismi interazionali (semplicisticamente detti di “espansione dei mercati”) di cui il Beaud più volte parla.
Poiché il sistema però si autotutela e limita tale entropia per mezzo della selezione, ossia scegliendo le combinazioni più probabili che permetterebbero la sua sopravvivenza, l’internazionalizzazione di rapporti ci permette di cogliere un’evoluzione delle parti costituenti l’ambiente, tenendo conto anche dell’esistenza di un ordine precedente. Procedendo in questo senso, e considerato che si possa considerare l’entropia come il logaritmo di una probabilità, si può affermare che la probabilità è strettamente connessa con l’ordine di un sistema, essendo una dichiarazione circa la verosomiglianza del manifestarsi di un certo particolare evento fra tutti i possibili eventi che possono manifestarsi un dato sistema; detto ciò, una situazione improbabile tenderà con il passare del tempo a trasformarsi in una situazione più probabile. L’improbabilità dell’attuazione di un “socialismo di mercato”, è diventata infatti una certezza gradualmente, con la spinta anche dei cosiddetti eventi esogeni, quali le crisi (economica, prima di tutto), l’opinione pubblica, l’apertura a certi valori di mercato e alle visioni occidentaliste.
E, in richiamo al secondo principio della termodinamica, ogni sistema lasciato a se stesso tenderà in media a raggiungere lo stato caratterizzato dalla probabilità massima, che non vuol dire che il sistema passerà necessariamente in una configurazione più probabile ma solo che questo accadrà “in media”, cioè qualche particolare cambiamento potrà andare in un altro senso, ma con bassa probabilità. Non solo. La probabilità è anche strettamente connessa con l’informazione, che consiste quindi nell’esclusione di alcune tra le possibili disposizioni alternative di un sistema, cioè ad una diminuzione di possibili probabilità e di aumento di ordine; intendendo, per informazione non tanto “conoscenza”, quanto “conoscibilità”, è anch’essa conditio sine qua non sia per l’ordine interno e per le relazioni dei sistemi, sia per una comunicazione intersistemica nell’ambiente.
L’irreversibilità di taluni processi internazionali, sono tali perché formati da cicli aperti e non da cilindri configurazionali finiti, e cioè chiusi: un sistema aperto è in grado di auto-organizzarsi spontaneamente quando si trova lontano dall’equilibrio, in seguito a perturbazioni esterne che inducano fluttuazioni casuali del sistema che non lasciano previsionabilità sul quando e sul come avverrà la messa in ordine; ed è questo il caso dell’imprevedibilità del quando e del come ci possa essere una compenetrazione – se mai ci sarà – di differenti modi di vedere e pensare, sempre più dipendenti, però, dal quel processo di accumulazione alla base del capitalismo.
Pur tuttavia, in sistemi dinamici non lineari, i parametri variano in modo caotico in sistemi sani, mentre una variazione regolare può essere segno di patologia: distorsioni intrinseche, se non stabilizzate e non regolari, sono presenti in un qualsivoglia campo di azione in cui interagisca un continuum mezzi-fini (funzionalità e relativa risposta del retroterra sociale) e in cui le relazioni permeino gli agenti del sistema. È l’estremizzazione di determinate forme che porta invece alla patologia, così come un surriscaldamento della discrezionalità statuale, dovuto ad un aumento dell’area di incertezza, porta il proprio campo a pensare ed agire in maniera pressoché egoistica, senza tenere in considerazione le posizioni, le speranze, e le aspettative degli altri attori in gioco.
Ciò concorre, oltre al mantenimento delle proprie idee in modo unilateralistico, al “raffreddamento” degli attori su posizioni statiche e divergenti.
Magorah Maruyama dimostra che è il meccanismo a feedback positivo a determinare la differenziazione dei sistemi complessi, poiché tali processi presuppongono una relazionalità, e dunque delle variazioni positive o negative che vengono amplificate e che servono a spiegare modelli di escalation (sino arrivare al suddetto – sproporzionato – “effetto farfalla”); al contrario, processi di feedback negativo tendono a sfuggire di mano provocando fenomeni di differenziazione, fino a degenerazioni di chiusura sistemica. E – secondo Peter Senge – tale retroazione sarà ancor più espansiva ed efficace quanto meno ritardata sarà la risposta tra i due sotto-sistemi in oggetto, talché si sviluppi una capacità di comprendere in condivisione i problemi più o meno comuni, e di ristrutturare le dinamiche sistemiche in modo da riequilibrare ed integrare gli interessi egoistici di breve periodo, con quelli della sostenibilità di lungo periodo.
Se, poi, si introduce il discorso di Ilya Prigogine sulle biforcazioni, termine che indica circostanze in cui si ha una transizione tra due situazioni strutturalmente differenti, è prevedibile anche una evoluzione da un unico stato di equilibrio possibile a complessità bassa a una molteplicità di differenti stati di equilibrio a complessità elevata.
L’azione dovrebbe costituire un’autodescrizione del sistema per capirne le dinamiche, coadiuvata dalla presenza di un’informazione interna che non è necessariamente veritiera ma che in ogni caso corrisponde alle tendenze evolutive del sistema internazionale: un sistema che entropicamente tende al disordine, ma che per non soccombere cerca “razionalmente” un ordine tramite una autoimmunizzazione, nonché decongestionando e componendo i conflitti, ed esperendo un’azione a-conflittualizzante. Nel nostro caso specifico, sembra che si sia deciso che sia il capitalismo l’azione tendente a comporre i conflitti anche in Cina; l’elemento su cui il mondo tutto sta ruotando.

Bibliografia:

Bettoni Fabio, Lezioni di “Storia Economica” tenute durante il secondo semestre dell’a.a. 2007-2008 presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia

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Manca Ciro, Introduzione alla storia dei sistemi economici in Europa dal feudalesimo al capitalismo, CEDAM, Padova, 1993.

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Nietzsche Friedrich, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1978.

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Rodari Gianni, Turista in Cina (I grandi servizi di Paese Sera), Roma, 1974.

Samir Amin, Il capitalismo del nuovo millennio, Il punto rosso, Milano, 2001.
Sormani Pietro, L’”ospite sacro” made in USA, in Corriere della Sera, anno 97, n. 32, di mercoledì 9 febbraio 1972.

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