Disse Chu: «Tutti i vostri consoli, quasi tutti i vostri collaboratori diretti hanno aderito al nuovo regime in Italia e confermato ai giapponesi la loro collaborazione. Voi rimanete solo e il vostro silenzio che i giapponesi considerano offensivo è già considerato opposizione decisa. Siete considerato un nemico».
... poi Chu Min Yi: «Noi possiamo comprendervi ma vogliamo salvarvi anche contro di voi. Spiegherò a Tani, lo pregherò di aspettare una settimana prima di informar Mussolini. Troveremo una formula, sarete sempre il primo italiano in Cina. Vi vogliamo bene».
... la vera Cina sfugge viscida, ripiega, ritorna e le perdite inflitte al suo popolo sono minori di quelle di un anno di carestia e di colera. E pur sembra che non vi sia scampo...
Rivedo come alla vigilia della mia partenza per la Cina il Primo Ministro olandese, il vecchio Colijn, nel suo gabinetto dell’Aja.
Con dito nodoso e tremulo accompagnava sulla carta il corso dello Yangtze e mi diceva della crisi imminente dei rifornimenti nipponici, e spiegava il pericolo delle linee di comunicazione che divenivano sempre più lunghe, di peso insopportabile come un cavo infinito e che si sarebbero presto spezzate, e per sempre.
Egli aveva passato tanti anni in Estremo Oriente e ne conosceva gli spazi dove il tempo si spande lentissimo.
Poi v’erano i pranzi del milionario persiano.
Poi v’erano i pranzi del milionario persiano.
Lui le guardava appena, le trattava come cosa sua con una punta di disprezzo, si lasciava adorare per darsi un’illusione di giovinezza [...]. Poi sempre per disprezzo e insana libidine cominciò a fare fotografie dei loro corpi, photos d’art senza sete nè veli e nessuna osò rigfiutarsi e vi fu uno scandalo clamoroso sopito nello champagne in due settimane, e il milionario persiano rimase padrone, continuò a presiedere banchetti e feste e lo vedevi esausto osservare socchiudendo le palpebre rosse i commensali della lunga tavola, le coppie nella sala da ballo e sapevi che per lui la tavola e la sala non erano che uno spettacolo macabro e sconcio, uomini in abito da sera e femmine ignude: un quadro surrealista.
Passeggio per il quartiere diplomatico. È un angolo d’una minuscola città messa insieme quasi per gioco dalle grandi Potenze che poi l’hanno resa sul serio. La bottega del parrucchiere, quella dell’orafo, il sarto inglese, il vinaio italiano, il Peking Club centro di eleganza europea dove un tempo figurava la scritta: “Divieto d’ingresso ai cani e ai cinese”. Lì il gruppo very smart dei bianchi purosangue vive una sua vita che dev’essere a ogni costo conchiusa e brillante, lì una volta al mese si organizza un pranzo protocollare in abiti da grande serata «per mantenere la tradizione».
Proteste, alte grida contro l’inaudita pretesa nipponica di considerare il quartiere diplomatico come un anacronismo che doveva sparire. «Non si uccide così una tradizione, una delle più belle e significative tradizioni internazionali». Si diceva: «Mai, mai».
Me lo trovo dinanzi alla scrivania e non l’ho sentito entrare, monsignor Martina. Gli guardo le scarpe: sono scarpe cinesi di velluto con la suola fatta di cento pezzi di tela compressi e cuciti assieme. «Le confezionano per me le monache del vicariato» mi dice.
Era capitano degli Arditi, è decorato di tre medaglie al valore. Ma nasconde il suo passato con cura gelosa. Oggi è prefetto apostolico di Yihsien.
Cammina, cammina per cinquanta, sessanta chilometri al giorno seguito da un asinello e da un servo per confortare i neofiti, per far nuove reclute. Non mangia che miglio bollito. Divide quel poco che può caricare sull’asinello coi contadini più poveri ridotti alla disperazione dai giapponesi e dai guerriglieri.
Questi lo catturarono e lo accusarono d’essere una spia ed egli si difese, lo accusarno d’essere italiano ed egli se ne vantò. Finirono per calmarsi e chiesero danari e medicinali. Erano laceri miseri tenuti su soltanto dall’odio contro il Giappone; fumavano tabacco ed eroina.
Domandai a Martina se in avventure come quella che raccontava il suo sangue di vecchio Ardito non lo tradisse. Non rispose, abbassò gli occhi, si guardò le mani.
E io guardai le sue mani nodose e dure come quelle d’un legnaiolo e poi il viso e cercai nelle sue rughe...
L’accordo Arita-Cragie, per il quale la Gran Bretagna riconosce l’attuale situazione giapponese di guerra e di dominio (triste documento d’impotenza, dicono tutti, che segna la fine del prestigio britannico in estremo Oriente), la denunzia del trattato nippo-americano, con la quale Washington subito corre ai ripari, rendono ancora più acuto il nervosismo che provocano le notizie d’Europa.
23 agosto 1939
L’annunzio dell’accordo russo-tedesco si sfrangia nei cervelli. Si dice: «Hitler si rivela duttile, tempista più che mai: per questo più austriaco che tedesco». E l’annunzio, dopo la prima scossa, dà la febbre all’Europa.
A Shanghai la germanderia nipponica era una forza a sè. Dominava infiltrandosi ovunque.
Un’azione terroristica di cinesi apparentemente armati da Chiang Kai-shek venne soffocata dal nostro battaglione San Marco nel peggiore quartiere di Shanghai, Badland: malaterra. Ma all’indomani si presentarono ufficiali nipponici a chiedere la liberazione degli arrestati, e la richiesta apparve inesplicabile sinchè quelli non provarono che tutti i terroristi erano armati e pagati da loro, e se ne vantarono, e si misero a ridere a grossi singulti...
Si rapivano nel cuore di Shanghai anche donne e bambini.Si era stabilito un ufficio per condurre abilmente la pratica del ricatto, applicando le regole codificate delle società segrete più antiche. Nei casi di rapimento si avvelenava con l’arte ogni ora di attesa dei parenti.
Più tardi, la grande casa, l’eleganza di Montagu, le serate in cui gli faceva recitare Keats e Wilde e pagine di Proust, gli dettero un senso di sconforto, invidiava gli compagni poveri, si sentiva a disagio negli abiti di Londra, lo nauseava l’odore dolce del tabacco da pipa che era dovunque. L’odore della sua infanzia era autore di carne gialla mal lavata, di cibi stantii, di capelli unti. «Ogni loro gesto generoso se lo si spoglia delle forme protocollari ha sempre lo scopo di sfruttarci meglio».
«E a me pare cortese dire di no e sono troppo debole per resistere e penso che bisogna essere gentili verso coloro che offrono le loro attenzioni a me povera piccola donna senza importanza, che non sa leggere e non sa discorrere».
Il capo del protocollo diamgriva ogni giorno. Preso da uno scoraggiamento morale, benchè cattolico s’era messo a fumare l’oppio nelle botteghe di Futzimiao. I quattro padri italiani dell’Ordine di San Paolo cercavano di salvarlo. Erano giovani e malati. Allevavano cinque seminaristi sui quali fondavano le speranze dell’Ordine di San Paolo cercavano di salvarlo. Erano giovani e malati. Allevavano cinque seminaristi sui quali fondavano le speranze dell’Ordine, contadinotti che avevano fame. Tutti cercavano di sopire la fame con la preghiera.
I giapponesi insistevano perchè i diplomatici risiedessero in permanenza a Nanchino, ma tutti cercavano pretesti per ritornare a Shanghai e dimenticare che la capitale era soltanto un quartier generale nipponico, e fuggire la sua vita falsa e obbligata, la stonatura delle sue feste, la menzogna che era alla base di ogni comunicato e di ogni discorso.
Wang Chin Wei [leader del Kuomintang di sinistra] riceveva gli intimi in un salottino refrigerato. Era in quella piccola stanza che potevi scrutare la sua coscienza. Il viso perdeva quel sorriso asimmetrico che nascondeva il pensiero. Parlava nervosamente con lunghe pause così imbarazzanti che cercavi di abbreviarle con osservazioni ingenue, e immediatamente te ne pentivi.
Sentiva oscuramente che la Russia avrebbe patteggiato col Giappone per dividere la Cina in due enormi zone d’influenza.
Nei generali nipponici che venivano a visitarlo non sentiva che disprezzo, mascherato appena dalle parole squisite e dagli inchini.
Il colonnello Jokoyama giunto a Shanghai con poteri che sembravano illimitati. Atletico e sanguigno, dopo una cena cordiale, s’era confidato con me: «Faccio parte di un piccolo gruppo di ufficiali uscito dalla scuola dei cadetti, la cui influenza cresce ogni giorno. Di fatto teniamo oggi nelle mani le sorti del Giappone.
Il nostro gruppo fa capo alla Corte per il tramite il principe di sangue. Esponenti principali sono il generale Anami, attualmente in comando nella zona di Hankow, uomo di maniere squisite e che par timido (lo rivedo a Hankow con i suoi gesti untuosi di abate e le sue frasi dolci e la sua voce feminea) e che è invece durissimo nel mestiere e grande stratega, e il generale Yamashita, l’uomo di Singapore che in caso di conflitto russo-nipponico sarebbe chiamato a capo della nazione, e il generale Doihara, l’eminenza grigia della Cina del Nord, e il generale Matsui, e il generale Nimezu, amnasciatore a Hsinking che consideriamo come il cervello militare più acuto.»
Ma Wang Chin Wei ebbe un sorriso triste: «Voi sapete che i tedeschi hanno già perduto la campagna di Russia. Noi cinesi, come i russi, conosciamo il peso degli spazi immensi».
A Shanghai sentii la patria dissolversi giorno per giorno nell’orgasmo della mia vita. Cercavo di sorridere. Volevo almeno, in previsione della catastrofe, prendere ogni possibile misura per proteggere i nostri marinai, radunarli tutti nelle caserme della Cina del Nord. E tornai a Nanchino per parlarne a Tani.
E la tragedia degli italiani vedevo sovrapporsi a quella dei francesi che s’erano agitati e combattuti gridando: «Viva Petain, viva de Gaulle, viva Laval!» in una torbida confusione di sentimenti, di interessi e di timori. Occorreva salvare l’onore della Francia e i capitali investiti nelle Concessioni.
Continuavano a vivacchiare al “Cercle” e nei piccoli ristoranti e nel solo cinematografo ancora refrigerato. Dopo il pranzo giovani signore si riunivano in salotti eleganti e talvolta vi fumavano l’oppio. «Cela aide» diceva una di loro.
Calcare quaranta metri di terra libera, vedere la campagna venirmi incontro sino a toccarmi, nuda e calda che macera lo sterco, che sorride nei fiori gialli del sesamo.
E quando vuotiamo il secchione sull’orlo del creek si stringe intorno a noi la folla dei cenciaioli che s’era nascosta nei solchi. Ci si buttano addosso ragazzi e bambine, carni brune incrostate di sudiciume fra stracci d’ogni colore, e grufolano tra i rifiuti e cercano se vi sia ancora qualcosa da mettere in bocca o il brano di una pezzuola o uno spago o un chiodo.
Sono i miei veri amici: li conosco ormai a uno a uno, ho imparato il loro nome, proteggo i più deboli, sono uno di loro.
I giornali giapponesi vantavano sempre vittorie e conquiste tedesche e nipponiche.
Ho segnato: “10 agosto 1944, primo contatto con Roma”. Da oggi abbiamo ripreso a sperare. Si mangia in modo diverso: per durare.
Un fischio modulato che conosco è salito dai campi.
Sul Carso con un berretto sforacchiato c’era da far l’eroe a raccontare, e forse ti avrebbero dato la medaglia: “M’alzai sulla trincea per scoprire una mitragliatrice”, e s’era sporto invece per insofferenza, e s’era stupito d’un melo in fiore “e una pallottola m’attraversò il berretto, mi rifece la scrimatura ai capelli”. Pericolo e morte erano gli stessi in quella stanza di pensione e sul Carso.
Di lui chiesi al “nonno” che si mise a ridere: «Tra dieci giorni lo troveranno morto sulla strada, lo legheranno tra due mannelle di paglia e lo getteranno nel creek. Da due mesi si fa fare iniezioni di eroina. È felice».
Attraverso le sbarre del cancello vedeo crescere i bambini che m’erano intorno all’arrivo e accentuarsi la loro somiglianza coi padri. La figlia del falegname già cuce e trapunta e porta pesi: è divenuta donna durante la malattia della madre che ha passato mesi a lamentarsi nella botteguccia senza luce e senz’aria. Vivono in cinque lì nel fumo dell’erbe secche con cui alimentano il fuoco, nel fetore degli escrementi, si fanno sulla porta a soffiarsi il naso con le dita.
Da qualche tempo i contadini che si sono accorti dell’apatia delle guardie si avvicinano alla siepe per venderci erbaggi e patate.
Siamo sicuri che del nostro piccolo commercio Anazava San il nuovo capo-guardia è informato, ma lascia correre per poter più tranquillamente disporre dei viveri che ci son destinati. Ruba sacchi di riso, i pezzi di carne mangiabili, soprattutto il carbone. Lo vende la notte a mercanti cinesi, a noi non lascia che polvere e sassi.
E perchè colpevole e sa che potremmo denunziarlo, si dimostra generoso.
Ha consentito ad accompagnarci dal dentista. Le visite al dentista sono d’una importanza decisiva nella nostra vita. Le prepariamo con settimane di anticipo nei minimi particolari. Tutti i nostri sforzi sono rivolti a ottenere che, invece che dal dentista giapponese, Anazava ci conduca da Schiller, un israelita che ho salvato dall’espulsione e che mi ha dichiarato gratitudine eterna. A Schiller possiamo rimettere una pallina di carta con un messaggio segreto e riceverne la risposta.
Parlottammo a lungo con Anazava, gli feci intravedere regali, un pasto luculliano in città, gli offrii di far curare gratis i suoi denti neri.
Partimmo con Meg e con Emilio nell’ora torrida su biciclette sgangherate. Le gomme consunte scoppiavano. Perdevamo ore a ripararle sull’orlo della strada. Arrivammo sfiniti.
Lo riconobbi e lo salutai: «Beato voi padre Gherzi!». Era il famoso gesuita che studiava i cicloni, somigliava a Scialiàpin nella parte di don Chisciotte. Padre Gherzi scattò di sorpresa, allarmato guardò Anazava, mise il naso sul manubrio mormorò nella barba: «Iddio vi aiuti» ci lasciò in asso in uno sventolio nero.
Chi ha passato una notte alla Bridge House non la dimentica per tutta la vita. Si è compressi in cinquanta in una cella in una promiscuità da far perdere la ragione: uomini e donne; nel centro un solo vaso per i bisogni di tutti; un rimescolio di cenci e di fiati, di insetti e di insulti, di lamenti e d’imprecazioni. E non un angolo in cui rifugiarsi, bisogna rimanere sempre in piedi, e si dorme in piedi appoggiati a scheletri o a carni disfatte.
... un breve poema. Lo lesse decifrando lentamente:
«Rocce azzurre vive di torrenti,
tra di esse una capanna solitaria.
Quanto felici coloro che vi abitano!
all’alba le nuvole luccicano di gioia
e il mormorio delle acque
scivola sul silenzio.
L’ombra ci accarezza col fremito dei bambù,
densi riposano i libri negli scaffali.
Quale contrasto con la vita delle città!
In esse non si è felici.
La mente è sempre inquieta
successo e disgrazia corrodono il cuore.»
E guardò la “Valle incantata” e sentì dissolversi in lui ogni desiderio di vendetta.
Sulla soglia fece un piccolo inchino e una voce accogliente l’attirava a sè e odorava di tuberose stantie che è quasi l’odor della morte.
Man mano che ci avvicinavamo, ci respingeva uno spaventoso fetore. Su una piattaforma di pietra ardevano in un rogo mucchi di cadaveri, a lato carri carichi di casse vuote tinte di rosso, che s’avviavano in città per riempirle di nuovo.
Bruciavano povere membra mescolate ammonticchiate rese gonfie e bianche dal calore come membra smontate di manichini, e la pelle ogni tanto scoppiava sfriggendo in un vapore giallo.
E un puzzo spaventoso ti prendeva alla gola e gli uccelli e gl’insetti fuggivano stridendo, e i cani ululavano, il pelo irto. E il rogo crepitava e i cadaveri si contorcevano e tre uomini nudi con le zappe li rigettavano nelle fiamme.
Gli alberi intorno presi come noi dal terrore fremevano nello sforzo di sradicarsi. Passò un volo di corvi, s’agitò schiamazzando, si disperse.
Non riuscimmo per settimane a disfarci di quel fetore che era quello della morte dei poveri che non possono comperarsi una cassa.
Al vedere la campagna stendersi ai nostri piedi con le sue vene brune e con le sue tombe gli occhi si riempivano di lacrime. Eppure non osavamo impadronirci di quella libertà, ne eravamo intimoriti, come i cinesi lo erano di quel vuoto attraverso il quale potevano osservare la nostra miserabile vita.
Lì, scelse lo spadone da samurai, quello che tagliava come un rasoio.
I poliziotti coreani guardavano con ermetici volti, come assistessero a un rito.
Anazava urlava, come fosse impazzito: «Badoglio, Badoglio»; cominciò a tirar fendenti dall’alto al basso, che facevano volare schegge del pavimento di legno, e ne tirò uno obliquo terribile e la lama incontrò il suo malleolo e sembrò ne spiccasse via netto il piede. Un fiotto di sangue nero, poi una pozza di sangue nero e in essa Anazava cadde e si dibattè, annaspando, urlando.
Il senso della fine è pure nell’alito di corruzione che tutto avvelena. Gli stessi soldati giapponesi che scavano e sbarrano e seminano le strade maestre di buche per farne nidi di mitragliatrici lavorano di mala voglia.
Nell’organizzazione cinese tutto va a pezzi. Il dollaro F.R.B. si liquefa. La polizia non è mai presente, ma a notte va a reclamare la sua parte. I più begli alberi delle grandi strade sono stati venduti privatamente dozzina per dozzina dagli impiegati del Municipio che aspettavano da un anno il loro stipendio.
Tutti i ragazzi erano stati promossi. Il Municipio non pagava più, e i padri dei ragazzi si erano quotati per mantenere i maestri a condizione che promovessero con votazione onorevole tutti gli alunni.
A Shanghai gli incendi si moltiplicano. Sono i pompieri affamati che appiccano il fuoco e poi corrono a spegnerlo, e nella confusione saccheggiano.
Quel che fa puara è il proposito dei giapponesi di difendere Shanghai casa per casa secondo il sistema russo e tedesco. Qua e là gruppi di fanti di marina che si lanciavano a testa bassa, baionetta in canna contro nemici immaginari.
È venuta la Pasqua . Arrivano in bicicletta alle sei del mattino il salesiano don Ricaldone e un cherico. Abbiamo preparato alla meglio lo stanzone di convegno: quattro assi per sostenere l’altare da campo, rami verdi ai lati, qualche candela lacrimosa.
Ci confessiamo, poi la messa, poi la comunione, poi un povero discorsetto con le solite frasi che invece di consolarci ci esasperano, e dell’intimo atto d’impazienza dobbiamo subito pentirci. Bisogna essere umili. Questo ridicolo orgoglio che neanche la reclusione è riuscita a macerare.
Il campo era in subbuglio per preparare il pranzo di Pasqua. Le donne lavoravano alla pasta per le tagliatelle. Farina bigia, qualche uovo, acqua pesante. Col coltello a filo delle unghie le donne tagliavano piccoli nastri aridi che si spezzavano. I giapponesi avevano mandato un quarto di porco, ma puzzava. Togliemmo la parte guasta, Faele tagliò il resto a grossi pezzi grasso carne e cotenna, gettò tutto nella caldaia a preparare il sugo. E mescolava, mescolava, e io pensavo all’innocenza industriosa di frate Ginepro.
Ci segnammo e don Ricaldone benedisse la mensa e guardò con amore il suo piatto. Sapevo che i salesiani a Shanghai soffrivano la fame. E cominciammo a mangiare: la pasta sapeva di muffa, era divenuta un ammasso colloso che la forchetta non riusciva a districare. E tutto era inondato di grasso lucido nauseante. Mangiavamo a piccoli bocconi per bisogno e per abitudine, gli occhi sul piatto, vergognosi di quel che offrivamo, e quando li alzammo vedemmo i visi dei nostri ospiti soffusi di cristiana pietà.
Non mangiavano, don Ricaldone ci disse: «Non abbiamo appetito. Abbiamo già avuto pane e caffè. Siamo arrivati in bicicletta e fa caldo. Questo vostro pasto è così abbondante, così ricco».
Anche i nostri corpi si disfacevano nella corruzione di tutto. Un raffreddore diveniva bronchite, dolevano le ossa, gli occhi s’arrossavano, il lavoro pesava sempre di più. Ci si sentiva consumati senza possibilità di ricupero.
Quando rimasi chiuso in casa dopo l’8 settembre, Gioconda, più di Allegra, mi confortò con i suoi nitriti. Mi diceva la sua pena per me, mi chiedeva se non potessimo uscire insieme in campagna e forse fuggire insieme e mi raccontava del gatto nero che giocava tra i suoi zoccoli ed essa fingeva di colpirlo, e rimaneva con la zampa alzata, e rideva. Compagne fedeli sono state sempre le nostre cavalline mongole.
4 agosto. Autentica è invece quella che annunzia l’entrata in azione di forze sovietiche alla frontiera mancese. Addio Manciukuò, complicata e falsa costruzione dell’armata del Kwantung. Eccoti alla guerra per la quale i tuoi generali si preparavano da dieci anni. Addio Manciukuò che dieci anni fa riempisti l’Italia delle tue bandiere e si aveva l’ordine di prenderti sul serio.
Il ritardo non può essere che una manovra russa per guadagnar tempo e per estendere al massimo la sua occupazione nell’intento di bolscevizzare il Giappone. Il terreno è fertile. Ricordo che tornando dal Giappone tra anni fa avevo detto: «È un paese comunista con un imperatore».
Si assiepano i cinese dinanzi agli alberghi, circondano gli americani che escono, sorridono, si prosternano, offrono i loro servigi, affamati di dollari. Quelli si aprono un varco a gomitate imprecando.
Roma risponde con un telegramma di lodi e di apprezzamento, niente fondi. Il Ministero degli Esteri dev’essere povero come noi.
In bicicletta continuo a correre per Shanghai, a cercare appoggio e soccorsi. Occorre ristabilire l’autorità, occorre mi sia riconosciuta la qualità, attribuitami da de Gasperi, di rappresentante italiano di fatto, occorre che il Consolato sia sgomberato e torni a funzionare alla meglio. Schoyer mi farà ricevere dal rappresentante personale di Chiang Kai-shek. Liberato dalla prigionia giapponese è disteso in letto, vivo soltanto il cervello; un segretario ascolta e appone il sigillo.
Vivo accanto al telefono. Sento precisarsi l’atteggiamento di riserva e forse di sospetto delle autorità cinesi. Non serve che gli americani mi appoggino. Non serve ch’io spieghi che la mia azione non ha altro scopo che quello di salvare dalla fame mille soldati italiani e di ridar loro dignità umana. Le autorità cinesi vedono dietro le mie spalle l’ombra di un morto.
La febbre era sempre altissima. I medici avevano finalmente riconosciuto il tifo esantematico. In una delle soste del delirio mi misi a ridere pensando ai cinesi coperti d’insetti ai quali m’ero mescolato come Lotario. Poi guardai fuori dalla finestra. Respiravo assetato a grosse boccate.
Vedevo i cadaveri ammonticchiati. Ed ero fasciato dai lamenti e dalle invocazioni dei sopravvissuti. E uno mi parlava all’orecchio con la stessa voce di Carlo Frasso nel dicembre del ’17 a Pietrogrado.
Svaniva il peso della carne, mi trasfiguravo. La mia memoria era di carta di seta come quella in cui s’involgono i curios.
Tutta la mia esistenza di nomade si raccoglieva adesso entro due parentesi che s’avvicinavano ogni minuto di più. Ogni vanità si disfaceva nel dolore di non rivedere più gli amici abbandonati per troppi anni. Ripetevo le parole dell’ambasciatore che morì tra le mie braccia: «Spendiamo il meglio della nostra vita all’estero; tornati in Patria diventiamo stranieri».
Dovevo ritornare alla mia terra, umile come quando ne ero partito, alla mia terra brulla dove stentano a vivere i contadinie i pastori. Ma sentivo che non era possibile perchè più non m’appartenevo e altri avrebbero dovuto pur contro voglia occuparsi di me.
da "È morto in Cina" di Francesco M. Taliani [Ambasciatore italiano in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale], dicembre 1949
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