Come accade che noi parliamo del mondo, che le nostre parole si agganciano al mondo? Questa domanda è il nucleo dell'intero percorso wittgensteiniano. Domanda che poi non è semplicemente il problema di Wittgenstein, quanto piuttosto una delle questioni caratterizzanti l'intera storia della filosofia ("pensare ed essere sono lo stesso" scriveva già Parmenide). Wittgenstein, dal Tractatus fino ai suoi ultimi scritti, non fa altro che interrogarsi, a suo modo, intorno alla questione antichissima e fondamentale del rapporto tra linguaggio, pensiero e mondo. In sintesi cercherò di mostrare come.
Il 22 gennaio del 1915 Wittgenstein appuntava nel suo quaderno: "Tutto il mio compito consiste nello spiegar l'essenza della proposizione. Vale a dire, nel dar l'essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione. Nel dar l'essenza d'ogni essere. (E qui essere non significa esistere - sarebbe insensato)". In queste poche righe è racchiuso il senso profondo del Tractatus logico-philosophicus. Cos'è la proposizione? In generale, come deve essere il linguaggio per essere immagine del mondo? E, allo stesso tempo, come deve essere il mondo per essere raffigurato dal linguaggio e nel linguaggio, quale dev'essere il suo essere? Così è a partire da queste domande originarie che trovano senso e rilevanza le questioni particolari che Wittgenstein solleva all'interno del complesso reticolo di proposizioni numerate che compongono il Tractatus. Esemplare è la questione degli "oggetti semplici", dei quali tra l'altro Wittgenstein non chiarisce mai la loro natura, è sollevata per spiegare la determinatezza del senso della proposizione. Affinché qualcosa possa effettivamente essere detto devono necessariamente esistere dei costituenti ultimi della realtà che determinano il senso di questo dire, cioè che lo rendono possibile (cfr. T 3.23).
Nella proposizione 4.01 Wittgenstein scrive: "La proposizione è un'immagine della realtà". Questo è il nucleo del Tractatus. Si tratta di intendere bene quest'affermazione che, per molti versi, è un topos della tradizione filosofica. Dunque la proposizione è un'immagine, ma allora in cosa consiste quest'iconicità della proposizione? E' necessario rispondere a questa domanda se, come si affretta ad aggiungere Wittgenstein, "a prima vista la proposizione - quale, ad esempio, è stampata sulla carta - non sembra sia un'immagine della realtà della quale tratta" (T 4.011). Come può un fatto, una macchia d'inchiostro sulla carta (ma anche un qualsiasi altro segno o suono) diventare linguaggio, ovvero fare segno verso un altro fatto "fuori nel mondo"? La risposta di Wittgenstein, almeno nel Tractatus, nasce dal riconoscimento che segno e designato debbano condividere necessariamente qualcosa di comune. Scrive Wittgenstein: "Il fatto, per essere, immagine deve avere qualcosa in comune con il raffigurato" (T 2.16). Ciò che linguaggio e mondo hanno in comune, la condizione dunque di possibilità per il linguaggio di dire il mondo e per il mondo di essere detto dal linguaggio è la forma logica che è quindi al tempo stesso forma della realtà (di qui la posizione estrema del Tractatus secondo la quale il solipsismo, cioè la relatività del mondo al soggetto, se svolto rigorosamente coincide col realismo puro). "L'immagine ha in comune col raffigurato la forma logica della raffigurazione" (T 2.2), forma logica che non può essere detta, poiché condizione di ogni dire, ma può solo mostrarsi in ogni immagine, in ogni proposizione. Distinzione questa, tra dire e mostrare, fondamentale nell'economia del Tractatus e che, secondo alcuni interpreti, recupera l'istanza trascendentalista kantiana.
Le proposizioni che compongono il Tractatus trasgrediscono evidentemente il divieto che prescrivono (lo riconosce lo stesso Wittgenstein in T 6.54). Sono, infatti, immagini - in quanto proposizioni - di nulla, cioè di qualcosa di inimmaginabile. Immagini insensate, che esibiscono la loro insensatezza, l'insensatezza del Tractatus, che come la celebre scala, deve essere gettata via dopo che ci si è saliti (cfr. T pref.). Quella del Tractatus non è affatto una filosofia scientifica e positivista (come hanno creduto gli esponenti del Circolo di Vienna). Tutto il contrario, il riconoscimento dell'insensatezza delle proposizioni filosofiche non le squalifica, non fa perdere loro valore, perché non è alla sensatezza che esse guardano. Piuttosto Wittgenstein ci invita a pensare che "anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati" (T 6.52). In altre parole, si tratta di riconoscere che il nostro umano problema non è alla lettera un problema, non necessita di una risposta, infatti "la risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso" (T 6.521).
Per quanto negli scritti successivi al '29 Wittgenstein sia sempre maggiormente critico nei confronti della sua opera giovanile, è comunque un fatto che egli rimane incessantemente fedele ad alcune questioni generali che l'avevano motivata. Per quanto l'autore delle Ricerche filosofiche non si stanchi di sottolineare la sua personale distanza da quello che aveva scritto il Tractatus logico-philosophicus, appare tuttavia evidente che la domanda intorno al significato, al modo cioè in cui le parole riescono a raggiungere le cose è al centro dell'attenzione anche del secondo Wittgenstein.
Le Ricerche filosofiche - il testo più rappresentativo della produzione del secondo periodo - hanno una struttura singolare. In realtà non sono letteralmente un libro, non hanno l'unità ne l'impianto argomentativo del libro. Come scrive lo stesso Wittgenstein nella Prefazione, sarebbe meglio considerarle "una raccolta di schizzi paesistici" oppure un "album" il cui oggetto più che corrispondere ad un particolare argomento è piuttosto "una vasta regione del pensiero" difficilmente delimitabile. Ciò nonostante esiste un filo rosso che lega molte delle osservazioni che compongono le Ricerche. I paragrafi dedicati all'agostinismo linguistico, al comprendere, all'intendere e al seguire una regola, al significato come uso risultano essere differenti occasioni per mostrare le lacune di una determinata concezione del linguaggio, immagine nella quale il linguaggio è ridotto a semplice collezione di nomi, la cui unica funzione è quella di stare al posto delle cose. Il denominare diviene dunque, in questa prospettiva, il fondamento istitutivo della segnicità e la definizione ostensiva funge da spiegazione ultima del senso delle parole. D'altra parte, quest'orientamento eminentemente critico non deve impedire di riconoscere l'attaccamento anche del secondo Wittgenstein a temi tradizionalmente e positivamente filosofici. Quello di Wittgenstein è infatti, a mio parere, un tentativo di continuare a porre la domanda filosofica (Wittgenstein non ha mai teorizzato l'abbandono dell'interrogazione filosofica a favore della letteratura o della scienza linguistica), facendosi tuttavia carico dei paradossi (come quello messo in luce da Kripke, secondo il quale Wittgenstein avrebbe mostrato l'impossibilità di giustificare l'uso corretto del linguaggio) e dei punti di non ritorno ai quali una determinata pratica filosofica ci ha condotto. Dualismo (nell'accezione interessata dal discorso wittgensteiniano, la radicale alterità di segno e significato) e mentalismo (l'idea che il fondamento della significazione risieda nella sfera del mentale) sono quei caratteri tipici del sapere filosofico tradizionale che le ultime opere di Wittgenstein incessantemente cercano di decostruire per mostrarne l'infondatezza. Per esempio, comprendere il significato di un qualsiasi segno o immagine non vorrà più dire aggiungere ad una materialità di per sé inerte un contenuto oggettivo esterno ad essa (immagine mentale, pensiero fregeano o idea platonica). E' decisamente un errore, nella prospettiva delineata dall'ultimo Wittgenstein, pensare al significato e alla regola in sé come a qualcosa di autonomo che, nel momento della comprensione, si affianca al segno. Piuttosto bisogna riconoscere - e questo è il senso di slogan wittgensteiniani quali "il significato è l'uso" e "seguire una regola è una prassi" - che un segno diviene significativo, si aggancia dunque alle cose grazie ad un'attivazione pragmatica che rende possibile il segno stesso, la parola in quanto tale. Con "attivazione pragmatica" intendo ciò che nella terminologia wittgensteiniana è detto "gioco linguistico" oppure anche "uso" o "prassi", cioè tutte quelle situazioni concrete nelle quali il segno letteralmente vive e funziona (cfr. PU I, 432). Questa relativizzazione, operata da Wittgenstein, del significato e del linguaggio alla prassi effettiva produce delle conseguenze profonde sulla filosofia impedendole di presentarsi come parola assoluta, come teoria. La filosofia sarà portatrice "solo" di un ordine, di un ordine per uno scopo determinato (cfr. PU I, 132). Pratica tra le altre non potrà dunque più essere spiegazione del vero significato, piuttosto sarà descrizione, ricerca grammaticale che mette in mostra il carattere inaugurale dell'uso, dei molteplici usi linguistici rispetto al significato; mostrando il sorgere di esso in una scena pratica, che lo determina per quello che è.
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