Vistosi fuoristrada, night-club e boutique di lusso sono il tratto saliente del centro di Almaty, ex capitale e città più ricca del Kazakistan, a rivelarne l’improvvisa ricchezza arrivata con la recente scoperta dei giacimenti di petrolio.
Ma ora e’ sabato mattina e dopo due settimane di lavoro in centro posso finalmente inoltrarmi al di fuori dei confini cittadini, alla ricerca di un frammento autentico di questa nazione per me ancora sconosciuta; i miei accompagnatori saranno Beck, giovane interprete locale che ho conosciuto sul lavoro, e il padre Amir (dal nome di un antico re Kazako) che ci farà da autista. Destinazione un piccolo villaggio dove vivono gli zii di Beck.
Ad aspettarmi nella macchina, oltre al padre, inaspettatamente ci sono anche la madre Kumis (che significa “argento”) e la sorella Aisolu (“luna meravigliosa”): sarà una gita di famiglia!
Kumis, che insegnava inglese prima di trovare lavoro per la compagnia aerea locale, mi spiega che tutti i nomi kazaki derivano dalla tradizione e hanno un significato preciso.
Dopo un tratto in una moderna autostrada prendiamo una stretta strada secondaria e in breve ci troviamo in mezzo ad una prateria senza fine che abbraccia l’intero paesaggio.
Nessuna costruzione ne segno umano: solo ondulate e morbide distese verdi, cavalli liberi al pascolo e mandrie di pecore in distanza.
Ci avviciniamo lentamente ad una catena di montagne inizialmente invisibile e finalmente compaiono alcune case dalle caratteristiche finestre azzurre in legno: la vecchia Opel di Amir si infila in un breve vialetto di terra battuta e si ferma davanti ad una piccola casa bianca con tetto in lamiera.
Veniamo accolti da Baiturson (“essere ricco”), Nasgul (“fiore grazioso”) anziani zii di Beck e dal giovane cugino Samath (dal nome di un antico guerriero).
La casa è essenziale, ma pulita e dignitosa. Dall’ingresso, dove c’è la cucina economica e un lavello si aprono due porte: la camera dei padroni di casa e la sala dove veniamo fatti accomodare, caratterizzata da un basso tavolo centrale e dai tappeti arabi che coprono pavimento e pareti; la casa è tutta qui.
Il bagno è all’aperto, sul retro, l’acqua viene presa alla fontana del paese e il riscaldamento è assicurato dalla cucina economica alimentata da legna o carbone.
Non manca però elettricità per alimentare la televisione o ricaricare il cellulare da cui Samath, il cugino di Beck, mi mostra orgoglioso due video: una corsa di cavalli in campo aperto vinta da suo fratello, e un combattimento tra cani, entrambi sport molto popolari in Kazakistan.
Con l’arrivo del piatto principale tutta la famiglia si siede attorno al basso tavolino centrale: in quanto ospite ho l’onore di essere il primo a servirmi dalla grande terrina di patate, cipolle e agnello, che accompagneremo con pane e burro, entrambi fatti in casa e molto saporiti.
Mi fanno molte domande sulla Cina, di cui non sanno quasi nulla. Sull’Italia inaspettatamente sono più informati: conoscono diversi cantanti (Toto Cutugno e Albano e Romina in particolare!) alcuni telefilm (hanno seguito appassionatamente la serie della piovra) e naturalmente i calciatori.
Mi descrivono intanto la vita nel villaggio, semplice e spartana, ancora legata ai ritmi degli animali e delle coltivazioni e mi parlano del momento difficile che stanno passando per i tanti operai e impiegati che avevano trovato lavoro in città e che ora sono disoccupati a causa della crisi.
Durante tutto il pranzo Nasgul si occupa di riempire periodicamente i nostri bicchieri mescolando con gesti sempre uguali il the concentrato, il latte fresco e l’acqua bollente, contenuta nel tradizionale bollitore a legna posizionato accanto a lei.
A riportarmi al presente, ci pensa Britney Spears che dalla televisione dietro a me ancheggia sensualmente in abiti scintillanti su quello che deve essere l’equivalente kazako di Mtv.
Il pranzo si conclude con una breve preghiera islamica e augurio di pace del capofamiglia.
Mi informano quindi che siamo attesi dal cacciatore con aquile del paese con cui hanno organizzato un incontro, sapendo da Beck della mia curiosità per questa antica tradizione.
Una passeggiata a cavallo di un ora tra colline verdissime e mandrie di pecore ci porta alla casa del cacciatore. Durante il tragitto mi colpisce nuovamente la completa assenza di alberi: il tappeto erboso ricopre morbido le colline senza interruzione, perdendosi lontano nella nebbia.
Il cacciatore ci sta aspettando: è a cavallo e sul braccio tiene una maestosa aquila incappucciata.
Ci spiega che il cappuccio serve a mantenere calma l’aquila quando non è il momento di cacciare.
Lo toglie per alcuni minuti: abbastanza per essere colpito dal suo sguardo fiero e penetrante.
Purtroppo il cacciatore si deve congedare presto: la stagione di caccia comincia solo in autunno e ora deve tornare ai suoi impegni.
Ma alle tante domande lasciate in sospeso risponderà pazientemente Baitarsun, lo zio e capofamiglia, durante la cena.
La caccia con le aquile è una tradizione antichissima tramandatasi di padre in figlio: comprende una complessa conoscenza che va dai rischiosi appostamenti in alta montagna, per prelevare i piccoli di aquila dai nidi, al rituale addestramento che in circa due anni rende l’aquila un abile e fedele compagno di caccia.
Durante questo addestramento l’aquila viene nutrita con carne di animali selvaggi e fatta combattere con animali di staffa crescente fino ad arrivare a volpi e lupi su cui riesce ad avere la meglio grazie ai potentissimi artigli.
Nella foto da sinistra: Beck, Aisolou, Kumis, Baitarsun e Nasgul. A differenza dell’Europa, dove quest’arte era riservata ai ranghi nobiliari, qui è una tradizione ancora viva in molte famiglie rurali e anche il nonno di Beck, che ha superato i settant'anni, pratica questa forma di caccia. Mi invitano a tornare in autunno con più calma per raggiungerlo nel suo villaggio che si trova a diverse ore di distanza in mezzo alle montagne.
Dopo cena io e Beck seguiamo Baitarsun che esce di casa per portare il latte ai 4 agnelli di casa che avendo perso la madre devono essere allattati artificialmente: armato di una bottiglia di plastica chiusa da una tettarella di gomma Baiturson sfama uno ad uno i quattro agnelli mentre Beck fa luce con una pila. Vedere l’anziano e rude capofamiglia allattare pazientemente questi piccoli animali è una scena toccante.
Dopo aver rimesso gli agnellini nell’ovile io, Beck e gli altri uomini aspettiamo fuori, mentre le donne sgombrano e preparano la sala che diventerà la nostra camera per la notte. Già a pochi passi dalla casa il buio è impenetrabile. Si vedono solo le deboli luci delle poche case circostanti mentre il silenzio è interrotto solo dall’abbaiare di cani. Sopra di noi il cielo limpido svela un tappeto di stelle talmente fitto da lasciare senza respiro.
All’alba la luce del sole svela lentamente il paesaggio di colline verdi incorniciato da un imponente catena montuosa innevata. Le mucche si avviano lentamente verso i pascoli formando lunghe file che si snodano e scompaiono dietro alle colline.
Un uomo del villaggio si stacca dal gruppo dei pastori e viene a presentarsi. Si chiama Asamath (“patriota”) e sa un po’ di inglese in quanto si occupa di commercio ad Almaty.
E’ appassionato di storia e propone di accompagnarci a vedere un museo locale nel paese vicino.
Beck e Baitarsun concordano e partiamo insieme per l’escursione fuori programma.
Attraversando il paese chiedo come mai tutti gli edifici sembrano costruiti recentemente e nemmeno una fontana o un edificio pubblico mostri di avere più di cinquant’anni; Asamath mi spiega che è una caratteristica comune di gran parte del Kazakistan dove fino alla prima metà del novecento le popolazioni vivevano ancora nelle Yurte, le tradizionali tende circolari, che spostavano stagionalmente per seguire i pascoli migliori ed evitare i picchi estremi dell’aspro clima Kazako.
Un’ usanza millenaria che si è interrotta solo nella seconda metà del secolo scorso con la sedentarizzazione spinta dall’Unione Sovietica e attuata anche attraverso la cessione di terre ai coloni.
Ancora un paio di saliscendi sulle colline spoglie ed eccoci al villaggio sede del museo.
L’esposizione è dedicata a Jambil, celebre poeta e musicista locale, ma oltre a cimeli e strumenti musicali presenta molte fotografie d’epoca che ritraggono cacciatori con aquile e valorosi cavalieri che ancora nella prima guerra mondiale combattevano con i tradizionali archi, lance e asce da guerra, che affiancavano ai fucili, di recente introduzione.
Asamath ci spiega che il Kazakistan è ricco di leggende che raccontano le gesta dei sovrani e dei valorosi guerrieri che nella storia difesero questa terra, con alterna fortuna, dai Persiani, dai Mongoli di Genghis Kahn, dai Turchi e dai Cinesi. La loro memoria è conservata dai tanti monumenti che io stesso ho visto nelle piazze di Almaty, nei villaggi e addirittura lungo l’ autostrada. Mi spiega con orgoglio che ciascuno degli uomini di questi villaggi può vantare in base al proprio cognome la discendenza da uno di questi eroi.
Tra i nomi più famosi cita quello di Attila che in queste terre formò l’esercito che avrebbe terrorizzato i Romani. Si narra che sia stato lui ad introdurre in Europa l’uso delle staffe e... dei pantaloni (!) di cui i kazaki rivendicano l’invenzione associandola alla loro antica tradizione di cavalleria.
Secondo Asamath ci sono anche prove che Buddha discendesse da popoli di queste terre (Sakyamuni, significherebbe infatti uomo appartenente ai “Sak”, antica minoranza kazaka) ... e poi ancora le storie delle carovane che si dirigevano verso Samarcanda, lungo la via della seta, le influenze dei Turchi e Persiani che introdussero l’Islam e tante altre storie... purtroppo è già ora di tornare indietro e Asamath mi invita a tornare al più presto per visitare nuovi posti e sentire i tanti altri racconti e leggende che conosce sul Kazakistan.
Torniamo al villaggio giusto in tempo per un breve pranzo prima di ripartire per Almaty.
Dopo il caloroso saluto di Baiturson, Nasgul e Samath, che mi invitano a tornare a trovarli, io e la famiglia di Beck saliamo in macchina ripercorrendo la strada dell’andata.
La digestione della ricca zuppa di pasta e pollo mi fa sprofondare in un sonno profondo, abitato da sogni di cavalieri e aquile cacciatrici, interrotto improvvisamente da una sosta a sorpresa: Kumis e Amir hanno visto lungo la strada due Yurte aperte al pubblico e non vogliono che perda l’occasione di vederle.
Appena entrato rimango affascinato dalla tecnica costruttiva.
Ad un reticolo di legni incrociati, che costituisce la base circolare, sono collegati i bastoni ricurvi che sostengono la cupola, raccordati al centro da un grande “canestro” di legni intagliati. Tutte le parti in legno sono collegate tra loro da cordoni di pelle di cammello e sono facilmente smontabili e pieghevoli per essere trasportati sui carri.
L’interno è decorato da tappeti, lana cotta e tessuti ricamati, mentre all’esterno pelli di mucche e cammelli ne garantiscono l’impermeabilità; al centro bassi tavoli circolari e ai lati alcuni bauli e ampie coperte di lana variopinte completano l’arredamento.
Mi accorgo ora che l’arredamento della casa al villaggio presentava le stesse caratteristiche, mantenendo un legame con la vita nomade... eccezion fatta per la televisione!
Ci sediamo sui tappeti attorno ad un tavolino rotondo e mentre osservo ammirato i dettagli della Yurta una cameriera serve al tavolo il tradizionale latte di cammello: una bevanda densa con un intenso profumo di formaggio e un sapore di yogurt fresco molto fermentato. Una vera prelibatezza che dicono ottima per la salute.
Il tempo per qualche altra fotografia alle yurte ed è già tempo di ripartire.
Approfitto infine del lungo tragitto in macchina per chiedere a Kumis com’era la vita sotto l’Unione Sovietica.
Erano bei tempi, inizia a dire con una nota di nostalgia... la vita era più semplice, si guardava la televisione solo la domenica e una volta ogni due settimane si andava al cinema a vedere i notiziari o i film storici russi in bianco e nero... lo racconta sempre ai suoi figli Beck e Aisolou che passano il loro tempo a giocare con il computer o a guardare la TV invece di fare i compiti. Loro, seduti accanto a me sui sedili posteriori, ridono e mi assicurano che è molto meglio adesso.
Kumis continua raccontando che la scuola era gratuita per tutti, Università compresa, e questa era davvero una grande differenza con i tempi di oggi in cui il costo dell’istruzione dei figli prende gran parte del loro salario. D’altronde nel periodo comunista non era certo tutto positivo e in particolare il divieto di lasciare il paese e l’assenza completa di notizie dall’esterno era molto pesante. Così come sono stati pesantissimi i primi anni dopo l’indipendenza quando la disoccupazione ha raggiunto i livelli massimi e non c’era da mangiare.
Ripensando anche ai discorsi fatti al villaggio mi rendo conto che per quanto orgogliosi dell’indipendenza ottenuta nel 1990 non mi hanno mai parlato con toni negativi o con rancore dell’Unione Sovietica.
Tornato dal mio viaggio scoprirò però che storicamente la presenza sovietica ha causato anche grandi sofferenze a questo popolo, in particolare con la sanguinosa repressione delle ribellioni seguite all’arruolamento forzato dei kazaki per la seconda guerra mondiale (di cui ora celebrano con monumenti le gesta eroiche) e con la citata sedentarizzazione forzata, che ha minato bruscamente la tradizionale fonte di sostentamento dell’allevamento.
Ma ora siamo quasi arrivati in città.
I cartelli pubblicitari lungo la strada e le insegne al neon mi riportano al presente, fatto di ebbrezza del consumismo e dei nuovi sogni di ricchezza.
Ricchezza che però rimane confinata in una elite minoritaria e difesa con una forte rete di corruzione che impedisce la nascita di una vera classe media, necessaria per lo sviluppo del paese.
Ma questi sono altri discorsi, sentiti in altre stanze, lontane dalle praterie che ho appena visitato...
Ora preferisco rivivere ancora una volta con la memoria tutti i sapori, gli odori e i colori vividi della terra che ho visitato in questi due giorni, e la dignità e l’ospitalità genuine delle persone incontrate.
Due soli giorni che mi sembrano però un lungo viaggio indietro tempo, attraverso le radici di un popolo che cerca faticosamente di mantenere vivo il legame con la propria identità.
(c) Giacomo Trevisan, Shanghai, aprile 2009.
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