Analizzando la posizione di Sartori, è evidente come la sua teoria in merito ai partiti politici, specificamente riferiti al caso italiano, sia rimasta pressoché immutata in un cinquantennio, come dimostrano le asserzioni in “Teoria dei partiti e caso italiano”, volume pubblicato nel 1982 ma riferito al periodo post-Seconda Guerra mondiale 1948-63 in cui il centrismo Dc faceva da padrone, e quelle in “Mala tempora” di recente pubblicazione (2004) contestualizzabile – qual raccolta di articoli pubblicati nel “Corriere della Sera” dal 1994 al 2003 – nella Seconda Repubblica italiana post-Mani Pulite.
Infatti, sebbene in genere «la storia, di solito, non si muove in modo omogeneo» [Hallin-Mancini, 2004, p. 255], ciò che costituisce una linea di continuità sartoriana è l’andare oltre l’estremo bipartitismo londinese con «partiti pigliatutto» [Sartori, 1982 e 2004] caratterizzato da “alternanza stabile”, e già di per sé garanzia di non discostamento assoluto dalle posizioni dell’opposizione per non subirne conseguenze future, fino ad arrivare alla teorizzazione di tre diversi modelli partitici che ben si ricollegano ai modelli – e perciò idealtipi non reali ma necessari ad una comparazione – proposti da Hallin e Mancini [2004] nord-atlantico o liberale, dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo, mediterraneo o pluralista-polarizzato, e che sono rispettivamente il pluralismo semplice, il pluralismo moderato, e quello estremo («a più di cinque partiti»).
Per studiare il pluralismo non ci si può concentrare sui partiti, ma sui poli, poiché un polo può essere caratterizzato da più partiti ed è il «perno su cui si basa il sistema dei partiti»: nel caso del pluralismo semplice, il polo corrisponde ad un partito, essendo forma tipica – il bipartitismo – del modello liberale, e quindi di Paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna; però in Paesi come l’Italia, tipico esempio includibile nel modello mediterraneo, il polo è composto da una moltitudine di partiti, tanto da far introdurre a Sartori il concetto di «spinte centrifughe», ovverosia di partiti interni al sistema politico costituenti un porro unicum al polo di centro, con una tendenza coagulante, di osmosi o «onnicomprensivismo» [Hallin-Mancini, 2004, p. 258] – come Dc, Pli, Pri –, partiti che si alternano nella stessa maggioranza, e partiti anti-sistema – Pci, Partito Qualunquista, Msi –.
Detto ciò, si capisce bene come la pluralità viene ad essere la distanza/contrapposizione che esiste tra i poli: in un sistema pluralista semplice questa distanza è minima, come può essere tra repubblicani e democratici negli Stati Uniti, mentre aumenta laddove ci sia una cultura politica frammentaria e dove non esista un consenso di base, conferendo al sistema una contrapposizione di ideologie, ad esempio quella tra cattolicesimo e laicismo, ben rappresentata dall’antitesi Dc-Pci.
Nel pluralismo semplice esistono invece delle «spinte centripete» poiché non esiste un polo di centro, e perciò si tende a coprire lo spazio del nucleo centrale non occupato, di conquistarlo, soprattutto mediante elezioni.
È ovvio che, configurazionalmente, il pluralismo così identificato porti nel sistema mass-mediale, a seconda del modello, ad un parallelismo politico o ad un non-parallelismo politico, meglio inteso come sovrapposizione media/economia. In effetti, nel modello pluralista-polarizzato – tipico caso dell’Italia, ma anche della Grecia, della Spagna, del Portogallo – giornali di sinistra o vicini al centro-sinistra come “Le Monde” o “Libération” in Francia, “El paìs” in Spagna, “Repubblica” col suo neo-direttore Zucconi, o il più equilibrato “Corriere della Sera”, nato con Albertini come il giornale della borghesia italiana, e giornali di destra o vicini al centro-destra come “Le Figaro” o “France Soir” in Francia, “Abc” o “El mundo” in Spagna, “Il Giornale” di Berlusconi o “Libero” di Feltri, dimostrano come ci siano delle aree di influenza ben individuate e individuabili, delle sub-culture diverse in cui il consenso viene frammentato, e soprattutto come ci sia un’idea di comunicabilità che non permea tutta la società civile, o comunque tutti i potenziali lettori, come dimostra il saggio di Forcella “Millecinquecento lettori”, ma bensì solo coloro ai quali gli stessi giornali vogliono riferirsi. È indubbio, infatti, che la “stampa di partito” non debba né voglia compiere un’opera di convincimento o pseudo-proselitismo, ma tenda a fidelizzare sempre più i lettori già acquisiti e convergenti con le proprie opinioni politiche: chi legge il filoleghista “La Padania” non leggerà “Europa”, chi legge il “Foglio” non leggerà “L’Unità”. Detta tendenza è ancor più rafforzata dal fatto che il giornalismo italiano è caratterizzato da una advocacy press brancoliana basata sul commento, in cui «i quotidiani di solito si identificano con i diversi orientamenti ideologici, e la tradizione di partigianeria e di giornalismo incline al commento è spesso forte» [Hallin-Mancini, 2004, p. 57] – e quindi rivolta a lettori che le notizie le debbono già conoscere – piuttosto che da un «fact centred journalism» di più chalabiana idea.
Il “giornalismo centrato sui fatti” si rifà maggiormente al modello liberale caratterizzato da un alto livello di professionalizzazione, con una marcata autorità razionale legale, e con un modello politico pluralista semplice che non è sovrapposto e da cui non dipende il sistema della comunicazione, libero da vincoli partitici, sia perché caratterizzato ad substantiam da molti giornali locali e pochi giornali nazionali che non riuscirebbero a coprire, ad esempio, l’intero territorio degli Stati Uniti, sia perché vede il profilarsi di una sovrapposizione con l’economia che va sostituendosi alla politica; economia intesa non solo come valore della proprietà del giornale, ma anche di chi lo finanzia per mezzo della pubblicità.
Sartori fa, inoltre, un’ulteriore affermazione riguardante il «potenziale di coalizione», che è la capacità di influenzare positivamente la politica della coalizione cui un partito fa parte, e il «potenziale di intimidazione», cioè la stessa capacità vista però – specularmente – in senso negativo; i due concetti possono definirsi complementari, in quanto caratterizzati da una relazione inversamente proporzionale tale per cui all’aumentare del potenziale di coalizione, diminuisce quello di intimidazione, e viceversa, e, detto in altre parole, uno rappresenta la capacità di “mantenere compatta” la coalizione, l’altra di “trascinare a sé” elementi della stessa. È l’esempio – per il primo caso – della Dc negli anni della segreteria Fanfani, e – per il secondo caso – della Lega nella coalizione di governo attuale, o di Rifondazione Comunista nel precedente governo Prodi.
Se però partiti anti-sistema e opposizione, con posizioni agli antipodi rispetto alla maggioranza, sono comprensibili in un contesto di Guerra Fredda, negli anni ’50 e’60, questa non è condizione sufficiente per spiegare il bipolarismo attuale o il multipartitismo, dipendenti entrambi dal sistema elettorale: la frammentazione partitica italiana è patologica e – secondo Sartori – la causa di un Mattarellum in cui è presente una quota proporzionale, a differenza di un auspicabile maggioritario a doppio turno che conferisce ben più stabilità e minor necessità di consensualismo.
Ma tutto questo discorso sarebbe fuori luogo rispetto all’oggetto del presente scritto se non si introducesse, in seno ai due concetti precedenti, il problema dello «scavalcamento», ben evidenziato da Sartori come «corsa al rialzo», lontano da quella competizione sana che permea il sistema politico degli Stati appartenenti al modello nord-atlantico quali Stati Uniti e Gran Bretagna, in cui l’alternanza di governo non conduce ad una politica clientelare come nel modello pluralista-polarizzato (caso Italia) dove c’è invece una «rotazione semi-partitica». La conseguenza diretta sui sistemi di comunicazione è visibile con la scarsa professionalizzazione giornalistica [Hallin-Mancini, 2004] caratterizzante quest’ultimo modello: il giornale con il quale il partito comunica avrà dei giornalisti legati e al giornale e al partito stesso; ogni sub-cultura diventa comunicazione, in primis interpersonale e poi di massa, esautorando la vera competizione e privilegiando i sistemi di comunicazione “interni” più che esterni, in un circolo vizioso di non-autonomia giornalistica e motivazioni attive per il proprio elettorato, che conferisce incomunicabilità con le altre sub-culture a mo’ di una funzione evangelizzatrice e a compartimenti stagni.
L’obiettività nel giornalismo nasce nel momento in cui nasce anche il mercato; ma quando non c’è competizione, quando l’obiettivo del sistema è la sopravvivenza delle sub-culture, l’obiettività non è importante: il basso livello di professionalizzazione, e dunque di universalità, altrimenti detta nella formula “usare e seguire procedure capite da tutti”, conduce all’inesistenza di procedure comuni in senso habermasiano, ma anche ad un anti-sistemismo dato dall’alta distanza dai poli. Prevale un clientelismo, chiamato «familismo amorale» da Bansfield, che non solo costituisce il già detto rifugio in un’unica sub-cultura, ma anche un’autoreferenzialità dell’area che – per esempio – si differenzia dallo stesso modello democratico-corporativo.
In quest’ultimo modello esistono delle aree di influenza date sia dal forte peso dell’associazionismo, del sindacalismo, delle organizzazioni collaterali, sia dal forte intervento statale caratterizzante Paesi Scandinavi in primis, Germania e Danimarca poi, ma c’è anche la possibilità di alternanza di governo (ad esempio SPD-Zentrum in Germania) tipica di un pluralismo moderato, e che richiede regole comuni. In un sistema di alternanza il polo al governo non può occupare tutti i posti di potere, pena la sua esclusione totale nelle successive elezioni. È il caso tipico delle dimissioni della dirigenza della Bbc in Gran Bretagna ad esempio – Paese questo ascrivibile al modello liberale, ma con connotati riscontrabili anche in quello democratico-corporativo – dopo i commenti relativi ai rapporti dei Servizi Segreti britannici MI5 e MI6 concernenti la guerra in Iraq, sotto il governo Blair.
Anche per quanto riguarda la televisione la posizione di sistema autonomo e indipendente, viene subito a cadere quando si scopre l’influenzabilità e la retroazione non più col sistema politico, ma con quello economico. Appurato che fase commerciale significa «specifico mercato, sia esso rappresentato dal mercato pubblicitario, come si sviluppa inizialmente negli Stati Uniti, o dal mercato monopolistico dello Stato (Tv pubblica), come accade in Europa, oppure dal mercato rappresentato dai consumatori finali (televisione a pagamento)», e constatato che «il canone assicura alle emittenti una fonte di ricavo indipendente da pressioni esterne da parte di interessi commerciali» [Dematté-Perretti, 2002, pp. 10, 35], c’è da considerare però che «la videocrazia porta soltanto a un populismo plebiscitario che è tutto demagogia e niente democrazia: (…) il dubbio è se la televisione sia un’entità di mercato riconducibile in tutto e per tutto alle leggi del mercato», visto anche che «l’Auditel pone e impone una concorrenza al ribasso nella quale la merce cattiva scaccia la merce buona». Inoltre per ciò che attiene alla televisione pubblica, il vero problema «sta nella nozione di servizio pubblico (…): un servire che ha per oggetto cose pubbliche e per fine l’interesse generale». «Nel caso della Rai l’interesse pubblico è pressoché sparito (…). Chi dirige la nostra tv di Stato si interesse soltanto di evitare grane politiche e di vincere, nell’interesse della sua poltrona, la gara degli ascolti » [Sartori, 2004, pp. 392-400].
Ciò che colpisce è che la ponderazione degli interessi in gioco c’è ovunque: lo dimostrano gli interessi economici che caratterizzano gli Stati Uniti, dove non esistono televisioni pubbliche; c’è più equilibrio nei sistemi democratico-corporativi, incluso il Regno Unito; c’è una televisione pubblica alla mercé dell’Auditel e della pubblicità nel caso italiano con una “sana competizione” – questa volta sì – ma inutile, poiché è competizione economica che non assicura il raggiungimento di quei fini pubblici di corretta informazione, crescita culturale, possibilità di far fruire il servizio pubblico al più alto numero possibile di cittadini, che una televisione di Stato dovrebbe garantire, e non c’entra niente con quella competizione richiesta nel sistema politico necessaria ad una democrazia sostanziale. Per non parlare – ancora una volta – della sovrapposizione media/politica, in Italia, ai tempi della lottizzazione, con RaiUno alla Dc, RaiDue ai partiti laici (Psi), RaiTre al Pci, e velatamente vigente dopo lo status quo confermato dalla legge Mammì del 1990, anche se l’attuale riforma Gasparri ha rimesso mano alla questione.
Concludendo, e assumendo che il modello liberale è quello che va via via imponendosi anche se caratterizzato non più da un parallelismo media/politica, ma media/economia che può essere ugualmente dannoso, e da una forte professionalizzazione e una radicata autorità razionale legale, con un basso intervento statale, il modello che sembrerebbe essere al momento il più equilibrato, e per equilibrato si intende non il migliore, e nemmeno tanto il più funzionale, quanto quello che meglio contempera le esigenze ascrivibili ai tre sistemi mass-mediale (professionalizzazione, autonomia, fact centred journalism, presenza di una forte autorità razionale legale), politico (democraticità) ed economico (sistema misto keynesiano: liberismo e presenza dello Stato), è quello democratico-corporativo.
Così asserendo, riconosco la validità delle posizioni del Sartori non solo in relazione all’esigenza di governabilità di un Paese, ma anche nelle sue affermazioni di un bipartitismo validissimo e flessibile che però presuppone una cultura politica omogenea e già secolarizzata; di un pluralismo estremo come «soluzione meno vitale e peggio funzionante» poiché instabile e disordinato e che non beneficia di regole di opposizione e competizione leale; di un pluralismo moderato che è «la soluzione più congeniale e soddisfacente» perché presuppone condizioni meno esigenti del bipartitismo, poiché può prevedere anche una cultura eterogenea e non secolarizzata, restando al tempo stesso un sistema bipolare che è in grado di assorbire forti tensioni ideologiche una volta arrivati al consolidamento strutturale.
E tutto ciò non solo per ciò che attiene alla politica, ma anche ai media, poiché quella stessa cultura eterogenea, quel forte consolidamento, e quel radicale allentamento delle tensioni, si riversa – per forza di cose – nella società nel suo complesso, e quindi anche in un sistema che a detta di Luhmann non è solo uno fra tutti gli altri, ma è anche il sistema che mette in comunicazione tutti gli altri.
Riferimenti bibliografici
C. Dematté – F. Perretti [2002, 2a ed.]
L’impresa televisiva, Milano, Etas
D. Hallin – P. Mancini [2004]
Modelli di giornalismo, Bari, Laterza
G. Sartori [1982]
Teoria dei partiti e caso italiano, Milano, SugarCo Edizioni
G. Sartori [2004]Mala Tempora, Milano, Edizione Mondolibri su licenza Laterza
Infatti, sebbene in genere «la storia, di solito, non si muove in modo omogeneo» [Hallin-Mancini, 2004, p. 255], ciò che costituisce una linea di continuità sartoriana è l’andare oltre l’estremo bipartitismo londinese con «partiti pigliatutto» [Sartori, 1982 e 2004] caratterizzato da “alternanza stabile”, e già di per sé garanzia di non discostamento assoluto dalle posizioni dell’opposizione per non subirne conseguenze future, fino ad arrivare alla teorizzazione di tre diversi modelli partitici che ben si ricollegano ai modelli – e perciò idealtipi non reali ma necessari ad una comparazione – proposti da Hallin e Mancini [2004] nord-atlantico o liberale, dell’Europa centro-settentrionale o democratico-corporativo, mediterraneo o pluralista-polarizzato, e che sono rispettivamente il pluralismo semplice, il pluralismo moderato, e quello estremo («a più di cinque partiti»).
Per studiare il pluralismo non ci si può concentrare sui partiti, ma sui poli, poiché un polo può essere caratterizzato da più partiti ed è il «perno su cui si basa il sistema dei partiti»: nel caso del pluralismo semplice, il polo corrisponde ad un partito, essendo forma tipica – il bipartitismo – del modello liberale, e quindi di Paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna; però in Paesi come l’Italia, tipico esempio includibile nel modello mediterraneo, il polo è composto da una moltitudine di partiti, tanto da far introdurre a Sartori il concetto di «spinte centrifughe», ovverosia di partiti interni al sistema politico costituenti un porro unicum al polo di centro, con una tendenza coagulante, di osmosi o «onnicomprensivismo» [Hallin-Mancini, 2004, p. 258] – come Dc, Pli, Pri –, partiti che si alternano nella stessa maggioranza, e partiti anti-sistema – Pci, Partito Qualunquista, Msi –.
Detto ciò, si capisce bene come la pluralità viene ad essere la distanza/contrapposizione che esiste tra i poli: in un sistema pluralista semplice questa distanza è minima, come può essere tra repubblicani e democratici negli Stati Uniti, mentre aumenta laddove ci sia una cultura politica frammentaria e dove non esista un consenso di base, conferendo al sistema una contrapposizione di ideologie, ad esempio quella tra cattolicesimo e laicismo, ben rappresentata dall’antitesi Dc-Pci.
Nel pluralismo semplice esistono invece delle «spinte centripete» poiché non esiste un polo di centro, e perciò si tende a coprire lo spazio del nucleo centrale non occupato, di conquistarlo, soprattutto mediante elezioni.
È ovvio che, configurazionalmente, il pluralismo così identificato porti nel sistema mass-mediale, a seconda del modello, ad un parallelismo politico o ad un non-parallelismo politico, meglio inteso come sovrapposizione media/economia. In effetti, nel modello pluralista-polarizzato – tipico caso dell’Italia, ma anche della Grecia, della Spagna, del Portogallo – giornali di sinistra o vicini al centro-sinistra come “Le Monde” o “Libération” in Francia, “El paìs” in Spagna, “Repubblica” col suo neo-direttore Zucconi, o il più equilibrato “Corriere della Sera”, nato con Albertini come il giornale della borghesia italiana, e giornali di destra o vicini al centro-destra come “Le Figaro” o “France Soir” in Francia, “Abc” o “El mundo” in Spagna, “Il Giornale” di Berlusconi o “Libero” di Feltri, dimostrano come ci siano delle aree di influenza ben individuate e individuabili, delle sub-culture diverse in cui il consenso viene frammentato, e soprattutto come ci sia un’idea di comunicabilità che non permea tutta la società civile, o comunque tutti i potenziali lettori, come dimostra il saggio di Forcella “Millecinquecento lettori”, ma bensì solo coloro ai quali gli stessi giornali vogliono riferirsi. È indubbio, infatti, che la “stampa di partito” non debba né voglia compiere un’opera di convincimento o pseudo-proselitismo, ma tenda a fidelizzare sempre più i lettori già acquisiti e convergenti con le proprie opinioni politiche: chi legge il filoleghista “La Padania” non leggerà “Europa”, chi legge il “Foglio” non leggerà “L’Unità”. Detta tendenza è ancor più rafforzata dal fatto che il giornalismo italiano è caratterizzato da una advocacy press brancoliana basata sul commento, in cui «i quotidiani di solito si identificano con i diversi orientamenti ideologici, e la tradizione di partigianeria e di giornalismo incline al commento è spesso forte» [Hallin-Mancini, 2004, p. 57] – e quindi rivolta a lettori che le notizie le debbono già conoscere – piuttosto che da un «fact centred journalism» di più chalabiana idea.
Il “giornalismo centrato sui fatti” si rifà maggiormente al modello liberale caratterizzato da un alto livello di professionalizzazione, con una marcata autorità razionale legale, e con un modello politico pluralista semplice che non è sovrapposto e da cui non dipende il sistema della comunicazione, libero da vincoli partitici, sia perché caratterizzato ad substantiam da molti giornali locali e pochi giornali nazionali che non riuscirebbero a coprire, ad esempio, l’intero territorio degli Stati Uniti, sia perché vede il profilarsi di una sovrapposizione con l’economia che va sostituendosi alla politica; economia intesa non solo come valore della proprietà del giornale, ma anche di chi lo finanzia per mezzo della pubblicità.
Sartori fa, inoltre, un’ulteriore affermazione riguardante il «potenziale di coalizione», che è la capacità di influenzare positivamente la politica della coalizione cui un partito fa parte, e il «potenziale di intimidazione», cioè la stessa capacità vista però – specularmente – in senso negativo; i due concetti possono definirsi complementari, in quanto caratterizzati da una relazione inversamente proporzionale tale per cui all’aumentare del potenziale di coalizione, diminuisce quello di intimidazione, e viceversa, e, detto in altre parole, uno rappresenta la capacità di “mantenere compatta” la coalizione, l’altra di “trascinare a sé” elementi della stessa. È l’esempio – per il primo caso – della Dc negli anni della segreteria Fanfani, e – per il secondo caso – della Lega nella coalizione di governo attuale, o di Rifondazione Comunista nel precedente governo Prodi.
Se però partiti anti-sistema e opposizione, con posizioni agli antipodi rispetto alla maggioranza, sono comprensibili in un contesto di Guerra Fredda, negli anni ’50 e’60, questa non è condizione sufficiente per spiegare il bipolarismo attuale o il multipartitismo, dipendenti entrambi dal sistema elettorale: la frammentazione partitica italiana è patologica e – secondo Sartori – la causa di un Mattarellum in cui è presente una quota proporzionale, a differenza di un auspicabile maggioritario a doppio turno che conferisce ben più stabilità e minor necessità di consensualismo.
Ma tutto questo discorso sarebbe fuori luogo rispetto all’oggetto del presente scritto se non si introducesse, in seno ai due concetti precedenti, il problema dello «scavalcamento», ben evidenziato da Sartori come «corsa al rialzo», lontano da quella competizione sana che permea il sistema politico degli Stati appartenenti al modello nord-atlantico quali Stati Uniti e Gran Bretagna, in cui l’alternanza di governo non conduce ad una politica clientelare come nel modello pluralista-polarizzato (caso Italia) dove c’è invece una «rotazione semi-partitica». La conseguenza diretta sui sistemi di comunicazione è visibile con la scarsa professionalizzazione giornalistica [Hallin-Mancini, 2004] caratterizzante quest’ultimo modello: il giornale con il quale il partito comunica avrà dei giornalisti legati e al giornale e al partito stesso; ogni sub-cultura diventa comunicazione, in primis interpersonale e poi di massa, esautorando la vera competizione e privilegiando i sistemi di comunicazione “interni” più che esterni, in un circolo vizioso di non-autonomia giornalistica e motivazioni attive per il proprio elettorato, che conferisce incomunicabilità con le altre sub-culture a mo’ di una funzione evangelizzatrice e a compartimenti stagni.
L’obiettività nel giornalismo nasce nel momento in cui nasce anche il mercato; ma quando non c’è competizione, quando l’obiettivo del sistema è la sopravvivenza delle sub-culture, l’obiettività non è importante: il basso livello di professionalizzazione, e dunque di universalità, altrimenti detta nella formula “usare e seguire procedure capite da tutti”, conduce all’inesistenza di procedure comuni in senso habermasiano, ma anche ad un anti-sistemismo dato dall’alta distanza dai poli. Prevale un clientelismo, chiamato «familismo amorale» da Bansfield, che non solo costituisce il già detto rifugio in un’unica sub-cultura, ma anche un’autoreferenzialità dell’area che – per esempio – si differenzia dallo stesso modello democratico-corporativo.
In quest’ultimo modello esistono delle aree di influenza date sia dal forte peso dell’associazionismo, del sindacalismo, delle organizzazioni collaterali, sia dal forte intervento statale caratterizzante Paesi Scandinavi in primis, Germania e Danimarca poi, ma c’è anche la possibilità di alternanza di governo (ad esempio SPD-Zentrum in Germania) tipica di un pluralismo moderato, e che richiede regole comuni. In un sistema di alternanza il polo al governo non può occupare tutti i posti di potere, pena la sua esclusione totale nelle successive elezioni. È il caso tipico delle dimissioni della dirigenza della Bbc in Gran Bretagna ad esempio – Paese questo ascrivibile al modello liberale, ma con connotati riscontrabili anche in quello democratico-corporativo – dopo i commenti relativi ai rapporti dei Servizi Segreti britannici MI5 e MI6 concernenti la guerra in Iraq, sotto il governo Blair.
Anche per quanto riguarda la televisione la posizione di sistema autonomo e indipendente, viene subito a cadere quando si scopre l’influenzabilità e la retroazione non più col sistema politico, ma con quello economico. Appurato che fase commerciale significa «specifico mercato, sia esso rappresentato dal mercato pubblicitario, come si sviluppa inizialmente negli Stati Uniti, o dal mercato monopolistico dello Stato (Tv pubblica), come accade in Europa, oppure dal mercato rappresentato dai consumatori finali (televisione a pagamento)», e constatato che «il canone assicura alle emittenti una fonte di ricavo indipendente da pressioni esterne da parte di interessi commerciali» [Dematté-Perretti, 2002, pp. 10, 35], c’è da considerare però che «la videocrazia porta soltanto a un populismo plebiscitario che è tutto demagogia e niente democrazia: (…) il dubbio è se la televisione sia un’entità di mercato riconducibile in tutto e per tutto alle leggi del mercato», visto anche che «l’Auditel pone e impone una concorrenza al ribasso nella quale la merce cattiva scaccia la merce buona». Inoltre per ciò che attiene alla televisione pubblica, il vero problema «sta nella nozione di servizio pubblico (…): un servire che ha per oggetto cose pubbliche e per fine l’interesse generale». «Nel caso della Rai l’interesse pubblico è pressoché sparito (…). Chi dirige la nostra tv di Stato si interesse soltanto di evitare grane politiche e di vincere, nell’interesse della sua poltrona, la gara degli ascolti » [Sartori, 2004, pp. 392-400].
Ciò che colpisce è che la ponderazione degli interessi in gioco c’è ovunque: lo dimostrano gli interessi economici che caratterizzano gli Stati Uniti, dove non esistono televisioni pubbliche; c’è più equilibrio nei sistemi democratico-corporativi, incluso il Regno Unito; c’è una televisione pubblica alla mercé dell’Auditel e della pubblicità nel caso italiano con una “sana competizione” – questa volta sì – ma inutile, poiché è competizione economica che non assicura il raggiungimento di quei fini pubblici di corretta informazione, crescita culturale, possibilità di far fruire il servizio pubblico al più alto numero possibile di cittadini, che una televisione di Stato dovrebbe garantire, e non c’entra niente con quella competizione richiesta nel sistema politico necessaria ad una democrazia sostanziale. Per non parlare – ancora una volta – della sovrapposizione media/politica, in Italia, ai tempi della lottizzazione, con RaiUno alla Dc, RaiDue ai partiti laici (Psi), RaiTre al Pci, e velatamente vigente dopo lo status quo confermato dalla legge Mammì del 1990, anche se l’attuale riforma Gasparri ha rimesso mano alla questione.
Concludendo, e assumendo che il modello liberale è quello che va via via imponendosi anche se caratterizzato non più da un parallelismo media/politica, ma media/economia che può essere ugualmente dannoso, e da una forte professionalizzazione e una radicata autorità razionale legale, con un basso intervento statale, il modello che sembrerebbe essere al momento il più equilibrato, e per equilibrato si intende non il migliore, e nemmeno tanto il più funzionale, quanto quello che meglio contempera le esigenze ascrivibili ai tre sistemi mass-mediale (professionalizzazione, autonomia, fact centred journalism, presenza di una forte autorità razionale legale), politico (democraticità) ed economico (sistema misto keynesiano: liberismo e presenza dello Stato), è quello democratico-corporativo.
Così asserendo, riconosco la validità delle posizioni del Sartori non solo in relazione all’esigenza di governabilità di un Paese, ma anche nelle sue affermazioni di un bipartitismo validissimo e flessibile che però presuppone una cultura politica omogenea e già secolarizzata; di un pluralismo estremo come «soluzione meno vitale e peggio funzionante» poiché instabile e disordinato e che non beneficia di regole di opposizione e competizione leale; di un pluralismo moderato che è «la soluzione più congeniale e soddisfacente» perché presuppone condizioni meno esigenti del bipartitismo, poiché può prevedere anche una cultura eterogenea e non secolarizzata, restando al tempo stesso un sistema bipolare che è in grado di assorbire forti tensioni ideologiche una volta arrivati al consolidamento strutturale.
E tutto ciò non solo per ciò che attiene alla politica, ma anche ai media, poiché quella stessa cultura eterogenea, quel forte consolidamento, e quel radicale allentamento delle tensioni, si riversa – per forza di cose – nella società nel suo complesso, e quindi anche in un sistema che a detta di Luhmann non è solo uno fra tutti gli altri, ma è anche il sistema che mette in comunicazione tutti gli altri.
Riferimenti bibliografici
C. Dematté – F. Perretti [2002, 2a ed.]
L’impresa televisiva, Milano, Etas
D. Hallin – P. Mancini [2004]
Modelli di giornalismo, Bari, Laterza
G. Sartori [1982]
Teoria dei partiti e caso italiano, Milano, SugarCo Edizioni
G. Sartori [2004]Mala Tempora, Milano, Edizione Mondolibri su licenza Laterza
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