> I sommersi e i salvati.
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L'11 aprile 1987 Primo Levi si uccise gettandosi dalla tromba delle scale della sua abitazione di Torino. Riguardo ai motivi che lo spinsero a compiere questo gesto, si possono fare soltanto delle ipotesi; come Levi stesso scrisse "nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato". Probabilmente egli provava un senso di vergogna per essere sopravvissuto allo sterminio nazista, e la mancanza di risposte alla domanda "Perchè io?" (che farà da colonna portante a I sommersi e i salvati, forse il suo libro più importante) lo condusse ad una forte depressione. Lo scrittore sentiva, inoltre, di aver ricevuto un "dono avvelenato", ovvero quello di dover raccontare ciò che aveva vissuto, costringendolo a rivivere continuamente la sua sofferenza. Infine, un recente intervento alla prostata lo aveva costretto ad interrompere i farmaci antidepressivi.
In una lettera, Levi parla apertamente del suo "amore giovanile per la chimica, anzi per l’alchimia".
Per Levi l’homo faber, colui che sa fare con le proprie mani, detiene molto più di una competenza, è possessore di un segreto: il segreto del proprio mestiere. Ecco perché non solo e non tanto la semplice chimica, "cosa troppo evidente, priva di velo, di mistero", quanto, così gelosa dei propri segreti da tramandarli soltanto agli eletti, intesi come iniziati capaci di capire il linguaggio alchemico.
"Devo dire che l'esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C'è Auschwitz, dunque non può esserci Dio". (Primo Levi)
Primo Levi abbandonò la fede ebraica – e la fede tout court – dopo la terribile vicenda che visse ad Auschwitz, da cui era scampato per miracolo. Torinese e chimico dunque, antifascista e partigiano, Levi fu catturato nel 1943 e spedito nel peggior campo di concentramento e di annientamento tedesco, riuscendo a sopravvivere (un amico lo nutriva a rischio della vita) insieme ad altri 20 compagni sui 650 del suo gruppo. Fu liberato dai Sovietici all’inizio del 1945. Era ovviamente prostrato fisicamente e mentalmente.
Da semplice strumento di una società addormentata su se stessa, Primo Levi diventa un uomo pensante a tutti gli effetti: egli deve riconoscere, sotto questa veste nuova, il fallimento della religione nei confronti della tenuta sociale. Affermando “non credo più in Dio” sulla scorta dell’osservazione per cui “Dio non c’era ad Auschwitz” (un’osservazione popolare presso i deportati, molti convertiti, per questo, al deicidio), Levi collabora a smantellare un impianto storico durato troppo a lungo e, in pratica, inutilmente. "E’ un po’ la storia dell’uomo platoniano che esce dalla caverna e scopre che esiste la luce del sole", è scritto da qualche parte nel web.
Faccio pertanto una serie di riflessioni: interesse per l'alchimia (non un interesse "facile"); allontanamento da Dio e dalla fede; depressione e suicidio:
1) in che misura egli o l'uomo in generale può considerare la sofferenza e il sacrificio quale parte integrante della vita, ed anzi uno stimolo al compimento del proprio quadrato di elevazione spirituale?
2) fino a che punto Dio (o meglio sarebbe:l'Assoluto) diventa capro espiatorio ed è ricondotto ad una valutazione "soggettiva", di parte o storica? Fino a che punto è possibile addossargli anche responsabilità storiche?
3) Nel proprio cammino di vita, e anche spirituale, è vero che si abbandona la propria escatologia e la propria spiritualità, nel profondo del cuore? E' possibile farlo? L'ateo è veramente ateo?
4) Dove porta il suicidio, se non a un atto estremo di egoismo verso se stessi e contro tutto il resto, il mondo, l'Altro, il Tutto, la divinità stessa, l'Uno?
Il suicidio non è una facile scappatoia dai problemi del mondo, dalle sue sofferenze, e dai suoi sacrifici che invece sono fondamentali alla crescita individuale e spirituale, e a quei momenti di crisi per il superamento dell'ottava (Gurdjieff docet)?
Fino a che punto si può parlare di suicidio e di scappatoia alla vita, quando subentra il problema opposto della malattia, del dolore atroce e, talvolta, dell'accanimento terapeutico?
Solo spunti di riflessione.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.