Liu Wenrong, Oumei qingse wenxueshi (Storia della letteratura erotica euroamericana), Shanghai, 2009, pp. 356
Le pp. 49-51 della "Storia della letteratura erotica euroamericana” dello studioso cinese Liu Wenrong, professore di letterature comparate presso l’Università Normale di Sciangai, sono dedicate a “Le confessioni” di Agostino d’Ippona.
Agostino (St. Augustine, ca 354-430)[1], uno dei padri della chiesa di Roma, fu un eretico dedito ai piaceri carnali; dopo la conversione al cristianesimo, egli rifiutò sì con fermezza le lusighe della carne e scacciò in Africa l’amante e il figlio illegittimo, ma restò ugualmente preda degli impulsi amorosi; per questo, scrisse il celebre libro “Le confessioni” (397-401). In realtà, le intenzioni di Agostino nello scrivere “Le confessioni” erano di esprimere il seguente concetto: l’ “amore spirituale” (ovvero, nelle sue parole “l’amore per Dio”) può essere sublimato, liberando così l’anima, solo a patto di reprimere coscientemente gli impulsi amorosi; infatti, l’ “amore spirituale”, a differenza di quello carnale, “non potrà mai essere eccessivo”; tuttavia, nel trattare dell’ “amore spirituale”, egli usa lo stesso linguaggio riservato all’amore carnale ed è evidente che prova i medesimi impulsi; semplicemente, li rivolge a Dio:
Quid autem amo, cum te amo? Non speciem corporis nec decus temporis, non candorem lucis ecce istis amicum oculis, non dulces melodias cantilenarum omnimodarum, non florum et unguentorum et aromatum suaviolentiam, non manna et mella, non membra acceptabilia carnis amplexibus; non haec amo, cum amo deum meum. Et tamen amo quandam lucem et quandam vocem et quendam odorem et quendam cibum et quendam amplexum, cum amo deum meum, lucem, vocem, odorem, cibum, amplexum interioris hominis mei, ubi fulget animae meae, quod non capit locus, et ubi sonat, quod non rapit tempus, et ubi olet, quod non spargit flatus, et ubi sapit, quod non minuit edacitas, et ubi haeret, quod non divellit satietas, hoc est quod amo, cum deum meum amo.
(Che cosa amo, quando amo te? Non la bellezza corporea, non la leggiadria dell’età, non il fulgore della luce, così caro a questi occhi; non dolci melodie di canti variati; non la fragranza dei fiori, dei profumi, degli aromi; non manne, non mieli, non membra care agli amplessi carnali; non sono queste le cose che amo quando amo il mio Dio. Eppure amo in un certo senso la luce, il suono, il profumo, il cibo, l’amplesso quando amo il mio Dio; luce, suono, profumo, cibo, amplesso dello spirito; dove rifulge all’anima mia luce che non ha limiti di spazio, armonia che non svanisce nel tempo, profumo che il vento non disperde, gusto che la voracità non nausea, amplesso che la sazietà non scioglie. Tutto questo amo quando amo il mio Dio).[2] In altre parole, egli vorrebbe intonare per Dio una “canzone d’amore” per esprimergli il proprio ardente “desiderio d’amore”, però l’ “amore di Dio” non è affatto l’amore naturale umano e dunque egli non puo che esprimerlo tramite i modi espressivi dell’ “amore per la donna”: e’ una metafora. Nella letteratura religiosa medievale la metafora ebbe ampio corso. I casi più celebri sono la “Vita Nova” e la “Commedia” di Dante.