La rivista Duchangtuan (lett. “I solisti” ovvero “Fuori del coro”, sottotitolo inglese “Party”), di cui finora e’ uscito solo il primo numero, questo mese di giugno, e’ diventata rapidamente un caso. Rapidamente andata esaurita dopo aver venduto mezzo milione di copie, ospita testi vari scritti da personaggi famosi dei media, presentatori tv, blogger, scrittori veri e propri, una redazione mista e contraddistinta dall’alterita’ rispetto ai media ufficiali e coordinati da Han Han, poeta che ha raggiunto una grande notorieta’ in giovanissima eta’ e che e’ poi diventato una specie di maitre-à-penser delle giovani generazioni.
Traduciamo qui il testo di Luo Yonghao, famoso blogger.
Quattordici anni fa… è una storia vera. Quattordici anni fa, studiavo per un periodo inglese sul testo di Xu Guozhang in un centro di formazione linguistica della città di Y, mio paese natale, nel Nordest. Era una scuola privata con un nome cafone, Sanyu “Le tre educazioni”, aperta da un coreano del sud,. Il livello della scuola era pessimo, gli insegnanti cinesi erano docenti delle università o licei loca-li che facevano il doppio lavoro, quelli stranieri erano per lo più erano Filippini o Malesi, con la pronuncia strana. La scena che si vedeva normalmente era che alcuni studenti, dopo l’inizio del corso “lingua straniera orale”, andavano alla spicciolata in segreteria a protestare, e il personale che con espressione compassionevole spiegava loro che la lingua ufficiale delle Filippine e della Malesia è in effetti l’inglese. Qualche volta, potevano anche tirare fuori scioccamente un pie-ghevole turistico sulle Filippine, “non ci credete? guardate qui!”
In quel periodo uscivo da una delusione amorosa, in più era un inverno buio e freddo, e per al-leviare la pressione dei sentimenti negativi mi ero messo a studiare di brutto inglese da una ventina di giorni e, al momento dell’esame per la classe per principianti, ero risultato il migliore. Secondo gli accordi preventivi, andai in direzione a ritirare il premio, ammontante a qualche centinaio di yuan (non ricordo la cifra esatta, mi pare fossero trecento). Il preside, un coreano dal faccione quadrata, mi disse, “Il premio non te lo possiamo dare, lo possiamo solo detrarre dall’iscrizione alla classe successiva”. Io ribattei, questo si chiama “trattamento di favore” oppure “sconto” e non “premio” e voi avete promesso un premio. Per di più, non vi ho detto che continuerò sicuramente gli studi qui da voi. “Il premio lo abbiamo istituito per farvi studiare di più”, disse il preside coreano, “non per darvelo sul serio, voi i soldi ve li spendereste in sigarette o vino, in contrasto con gli intenti per i quali lo abbiamo istituito”. Io ribattei, non m’importa niente dei vostri intenti, so solo che avevate parlato di un premio e adesso, a esami finiti, lo trasformate in uno sconto, e poi che ci faccio coi soldi, vino sigarette o una gran mangiata, non vi riguarda affatto. Il preside coreano fece il muso lungo e poi disse, i giovani, da noi in Corea, se non sono educati con le persone più anziane, ce le prendono.
E’ sempre la solita storia con quelli della generazione precedente che non ce la fanno con me, non c’e’ niente da fare con questi teppisti in scarpe di pelle all’occidentale. Senza riuscire a trattenermi lo prendo a male parole: “Va’ a quel paese, che razza di teppi-sta, al diavolo!”
Come ogni “bravo cittadino” del tempo nostro che e’ stato stimolato, penso di andare a un giornale. E’ la prima volta in vita che entro, tutto timoroso, in una redazione; quando mi registro all’entrata, dico alla guardia quello che ho imparato dalla tv, sono un “cittadino”, vengo a “riferire”. Per un colpo di fortuna, il giornalista che mi riceve e’ una mia compagna delle medie, che ascolta attentamente la mia storia, tutta indignata dall’affetto per un vecchio compagno di scuola, poi mi dice: “Li smascherero’, oggi pomeriggio li vado a intervistare alla scuola e dopo aver accertato i fatti li faccio finire sul giornale in due o tre giorni”.
Uscendo dal portone del giornale ci penso su e ho l’impressione che dovrei fare qualcosa di piu’, cosi’ vado a raccontare tutto al Comitato Scolastico Municipale. Un uomo di mezza età dal viso cavallino, con la sigaretta in bocca, le sopracciglia corrugate, bevendo di tanto in tanto il tè, mi sta a sen-tire e poi dice, “Bene, ora sappiamo tutto, la-sciami un recapito, ti chiamo io”.
Proprio come avevo presagito basandomi sulla sua espressione, l’uomo non si mette in contatto con me. Per giunta, quando cerco di mettermici in contatto io, sono tenuto fuori dalle guardie. Una settimana più tardi arriva la brutta notizia: la compagna di scuola che lavora al giornale “Y*** sera” mi dice che la Sanyu è un ente che collabora con il co-mitato municipale per l’istruzione e che lo “Y*** sera” è un quotidiano del comitato municipale, così l’articolo che aveva scritto è stato silurato dal direttore.
Io prendo una decisione: andrò al tribunale di Y***. Una settimana prima, ricordo a me stesso tutti i giorni: “Cretino, deve sempre esserci una prima volta”. Nella Cina del 1995, chissà quanta gente ha provato, in preda alla tensione ma anche alla curiosità, a difendere i propri interessi ricorrendo per la prima volta alla giustizia, ma secondo me, fra tutta questa gente ansiosa di tentare, mol-ti si erano fatti influenzare dal film “Qiu Ju va in tribunale” (da qualunque punto di vista si consideri, il film fu un’opera straordina-ria che fece furore nella Cina del 1993).
Alla portineria del tribunale, un usciere di mezza età, grassissimo, ascolta il motivo che mi porta li’ e poi mi butta fuori: “Via di qui! Che posto credi che sia un tribunale? Chi vuoi scocciare con quisquilie?” Col cervello vuoto, resto inebetito sulla porta del tribunale, poi scopro che di fronte al tribunale sono tutti studi di avvocato, dalle targhe rudimentali. Esito un po’, poi busso con decisione a una porta qualsiasi e dico a quelli dentro, molto a disagio, che non ho soldi ma che spero possano darmi un con-siglio.Un avvocato sorridente, di nome Li, mi spiega a lungo come si deve fare, con pa-zienza, e mi incoraggia, ammirato. Nella Ci-na del 1995, a Y***, una cittadina di confi-ne che non arriva neanche a 300.000 abitan-ti, un giovanotto deciso a ricorrere alla legge per risolvere questo genere di problemi è considerato un “giovane eccezionale”, dalle “vedute precorritrici dei tempi”, così dice Li. Naturalmente, io gli dico con sincerità che uno come lui, che dedica tempo a aiutare gli sconosciuti senza compenso, “è un avvocato fuori del comune”.
Dopo che i due Cinesi eccezionali si sono congedati con riluttanza, quello più giovane fa di nuovo irruzione nel tribunale. Secondo le istruzioni dell’avvocato, come una furia scatenata pretende dall’usciere di mezza età, “meno chiacchiere, dammi un formulario (non ricordo come si chiama, se esposto o che altro”). Di fronte alla faccia feroce del giovane e constatando che era diventato in quattro e quattr’otto un esperto un esperto di denunce, gli passa buono buono il modulo. Dopo averlo compilato, una giudice, al se-condo piano del tribunale, con molta corte-sia ma certo amche con molta freddezza, mi riceve o, per essere precisi, mi congeda. Mi vuole far andare all’ufficio istruzione a sud del fiume (il fiume che taglia in due metà la città di Y***)(l’ufficio di composizione del-le cause civili?) a “fare un tentativo”; io pro-vo a chiedere qualche lume in più; “chiedi-lo a loro”, mi dice, poi aggiunge una frase da pubblico ufficiale che ai Cinesi suona molto familiare: “La cosa non è di mia com-petenza”.
A differenza dell’elefantiaco tribunale mu-nicipale, l’ufficio istruzione è un piccolo e-dificio di due piani grigio e malconcio. Faccio una fila di circa tre ore dietro a una folla di contadini dall’espressione angosciata e sento che quelli davanti a me denunciano ingiustizie vere, per esempio che gli hanno occupato la casa, che gli hanno violentato la moglie, che gli hanno preso la terra e violentato la moglie... facendomi sentire sempre meno sicuro di me, a meno che, quando dovrò fare denuncia io, loro non abbiano già sgombrato il campo, altrimenti non avrei proprio il coraggio, davanti a tanta gente sfortunata, di parlare apertamente delle mie “quisquilie”. Per giunta, dopo che un contadino ha finito, la donna di mezz’età dell’Ufficio istruzione dice sempre la stessa cosa, in tono molto scoraggiante: “Ahi, compagno, è una denuncia cui sarà molto difficile dare seguito”. Alla fine, quando mancano ancora solo due persone prima che tocchi a me, io me la filo da quel postaccio.
Alla fine, penso di scendere in strada a gridare. Si può probabilmente pensare che questa sia una scelta influenzata dalla letteratura, rispondente al bisogno di drammatizzazione (all’epoca non mi ero ancora imbattuto in questo termine terrorizzante, avevo solo vagamente coscienza di qualche cosa) di sè che nasce a un certo stadio della vita di un giovane.
Il sistema a cui penso in un primo tempo è il seguente: mi metto addosso una maglietta con la mia storia, con tutti i dettagli, m’infilo al braccio un radioregistratore potente (con gli slogan precedentemente registrati), poi trovo il modo di legarmi sulle spalle due canne di bambù incrociate che mi reggono sulla testa uno striscione più grande, per esempio “Il Cielo non lo tollera”, poi sul petto mi appendo un tamburo di quelli usati dai picchetti d’onore e scendo in strada. Mobilito anche tutti gli amici asociali e cani sciolti, perché mi attornino da lontano e evitino che io passi inosservato (se loro non osassero aiutarmi). In realtà, dicono tutti che verranno, almeno a guardarmi da lontano. Oltre a sostenere la mia soluzione, questi avvenimenti sono pur sempre un antidoto raro alla monotonia della vita, il che spiega perché, quando al telefono mi assicurano che verranno, ci mischiano molta eccitazione e dicono “cavolo!” con voce tremante.
Nei piani, il tragitto partirà dal portone dell’ospedale municipale, passerà con il registratore che urla gli slogan e a rullo di tamburo davanti alla polizia, al comitato municipale (sulla porta del quale potrei anche sostare un momento, forse dovrei dire “vieni fuori, faccia di cavallo” e cose del genere, ma naturalmente non sarebbe molto originale), al comitato distrettuale e al governo distrettuale, per finire sulla porta della Sanyu, a sud della stazione. La scuola maledetta si trova per l’appunto accanto a una grande strada, così, quando varcherò la sua porta tutto addobbato (a questo punto il registratore potrebbe temporaneamente passare a Look Sharp dei Roxette), basterà stare un po’ lì per attirare abbastanza pubblico. Secondo me, se reggo una settimana, tutti i cittadini di questa cittadina larga un palmo saranno al corrente della facceda.
Mi studio un po’ le leggi in materia e poi preparo una domanda scritta per la polizia. Il giovane compagno allo sportello chiaramente non ne ha mai vista una simile, non sa neanche che deve fare, così incassa la testa fra le spalle e chiede ansiosamente istruzioni al telefono. Io ci penso un po’ sopra, se telefonassi al mio vecchio compagno di scuola, Li Shentan, che lavora alla polizia, lui uscirebbe tutto serio e mi trascinerebbe nel suo ufficio. “Cavolo, sei stanco di vivere?” – mi dice come tutti quelli che campano in un regime, lui considera questo genere di cose un suicidio.
Nel timore che sconsigliarmi non serva a niente, Li Shentan riferisce la faccenda ai miei, con le conseguenze che si possono immaginare. Voglio dire che i miei sono uguali alla stragrande maggioranza dei genitori cinesi (io in effetti li posso capire perfettamente, anche da giovani si può, è solo che non sono d’accordo con loro).
Con l’inizio della primavera, io vado con alcuni amici, incluso mio cugino, a giocare a tennis in un campo di periferia. All’improvviso, vediamo il preside coreano che entra nel campo con altra gente. Gli animi si riscaldano, ci mettiamo a discutere animatamente fra di noi, alla fine decidiamo di provocarlo, per farlo arrabbiare e far scoppiare una rissa.
All’epoca ero ancora molto giovane e inesperto, non mi rendevo conto della debolezza di comportamenti come questi. Esito un momento e poi esco con gli altri fuori del campo, dove ci mettiamo in semicerchio e guardiamo di brutto il preside coreano. Il tipo chiaramente si agita e si mette a girare con fare distratto dentro il campo da tennis. Alla fine, si rende conto che dovunque vada è seguito da almeno un paio di occhi feroci.
Piano piano perdiamo il controllo e cominciamo a fargli gesti sconci. Non essendo chiaro se un coreano li può capire, gli facciamo premurosamente anche un paio di gesti fuori della tradizione locale, imparato guardando i fil americani (ovviamente si tratta del dito medio ritto, gesto che all’epoca in Cina non era ancora molto di moda), più un altro entrato di recente dalla Russia. A questo punto il preside coreano lancia uno sguardo alquanto disorientato alla sedia a sdraio ai bordi del campo, io seguo il suo sguardo e vedo una coreana, in piedi lì vicino, con due bambini per mano, con l’aria spaventata. Il bambino più piccolo guarda un momento nella nostra direzione, poi alza la testa e guarda la madre, ma, non suscitando alcuna reazione, le tira la manica.
Pur trovandomi negli anni della giovnezza, quando il mio senso morale era alquanto confuso, io provo la sensazione che insultare uno di fronte a moglie e figli sia un’azione estremamente spiacevole, così perdo di botto interesse e faccio segno agli altri di lasciar perdere.
Sulla strada di casa, in macchina con mio cugino, nella confusione delle spacconate e fra gli spintoni, mi sento gravato da un’enorme senso d’ingiustizia, una sensazione che i ragazzi hanno spesso.
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